29 ottobre 2014



Arriviamo alla seconda, anzi alla terza, e la più complessa reicarnazione del duo Zavala-Rodriguez: i Mars Volta.

Le prime avvisaglie sotto l'universo Mars Volta in realtà furono a nome De Facto. Sotto questa sigla mossero i primi passi che li portarono verso il primo capitolo della nuova reincarnazione. Nel frattempo i rumors viaggiavano in rete e si alimentava la speranza dei fan che i due ritornassero con un disco sulla falsa riga della loro precedente band.
Le speranze vennero spente in parte quando arrivò la prima testimonianza dell'avventura Mars Volta, capitolo che spesso viene dimenticato ma che contiene le prime pietre di uno ziqqurat la cui costruzione è durata dieci anni: Tremulant EP. Tre pezzi che furono una dichiarazione di intenti che lasciò poco spazio alle illusioni eppure ci fu ancora chi sperò nel successivo album (e anche chi ha continuato a sperare nel secondo). La cosa più eclatante al di là dei tre pezzi, è che i due nel giro di un anno, cambiarono totalmente stile e modo di suonare/cantare.
La chitarra di Omar sembrava un generatore automatico di note e scale, la voce di Cedric non era più solo un urlo stracciato, ma acquistava melodia, estensione ed è stato solo un antipasto dell'incredibile salto di qualità che ha fatto su De Loused. Sono sempre loro due, ma musicalmente parlando sono due personalità completamente differenti rispetto a prima. Lasciarsi completamente alle spalle un'esperienza e un modo di suonare e di intendere la musica durato otto anni e farlo in meno di un anno. Fu questa la cosa più incredibile che i due riuscirono a fare. Una vera reincarnazione, come se lo Zavala e il Rodriguez Lopez degli At the Drive In fossero morti e rinati nei Mars Volta.

Come ho accennato nella prima parte dedicata agli ATDI, gli intrecci fra Omar e Cedric e i RHCP sono stati molteplici durante la loro carriera. Per la creazione del debutto dei Mars Volta avviene il primo grande "incontro" fra le due band. La scelta più importante per la riuscita di un disco così atteso e complesso, come preannunciato dal Tremulant EP è quella del produttore.
I Mars Volta andarono sul sicuro e scelsero il migliore, colui che ha fatto la fortuna della band di L.A., Rick Rubin. L'apporto del Guru sulla produzione di De Loused the Comatorium fu importantissimo e decisivo per semplificare, dare un recinto e una direzione al fiume di idee di Rodriguez Lopez. Si può sentire chiaramente la differenza nei dischi successivi (soprattutto nel successivo Frances the Mute) dove Omar ha fatto tutto da solo. Ma una testimonianza incredibile di quello che è stato l'apporto di Rubin si ha su Cicatriz ESP, uno dei pezzi più sorprendenti e significativi di tutto il disco e tutt'ora uno dei più belli di tutta la loro produzione, nel quale è racchiusa tutta l'essenza dei Mars Volta.
Questa è una versione circolata prima dell'uscita del disco che ai tempi avevo scaricato da uno dei successori di Napster (credo fosse Limewire) spacciata per un pezzo contenuto nel Tremulant EP:



E questa invece la versione finale contenuta in De Loused the Comatorium:



Le differenze sono abissali, pur rimanendo sostanzialmente lo stesso pezzo, si amplifica di molto la forbice fra strofa/ritornello e suite strumentale. La strofa è più serrata, la voce più pulita, il ritornello nella versione "demo" sembra quasi abbozzato, e assomiglia più a un pezzo degli At the Drive In. Nella verisone presente su De Loused invece ha una linea vocale semplicissima nella melodia ma incredibile nell'efficacia, una delle più belle mai prodotte da Cedric. In questo ritornello è inoltre lampante l'incredibile miglioramento tecnico del cantante, che un solo un paio d'anni prima una linea vocale così precisa e pulita su una tonalità così alta se la sognava.

Oltre all'apporto di Rick Rubin, dal mondo RHCP arrivò un altro importante contributo. Infatti Flea registrò tutte le parti di basso contenute nel disco e fece una piccola apparizione anche John Frusciante proprio all'interno di Cicatriz ESP, dove suona la seconda chitarra e qualche parte di sinth.

Se si prendessero chitarra, sezione ritmica e voce e li si facesse ascoltare singolarmente a qualcuno che non ha mai sentito il disco credo che difficilmente arriverebbe a capire immediatamente che quelle parti possano convivere su uno stesso pezzo. Quello che è stato fatto sul debutto dei Mars Volta è un lavoro di incastro e cesellatura di parti veramente complesse, i pattern di batteria di Jon Theodore sono incredibili, i riff di Omar sono fendenti che tagliano l'aria, su tutto la voce di Cedric si muove con estrema libertà, come se cantasse sopra una semplice chitarra acustica che fa il giro di DO. Provate a chiedere a un qualsiasi cantante di estrazione rock di trovare una linea vocale su parti così complesse e vedete cosa vi dice.
Il disco è dedicato all'artista e amico Julio Venegas morto suicida. La storia di Cedric e Omar è purtroppo costellata di tragiche scomparse (oltre a fatti curiosi, al limite del reale, leggende ecc), non bisogna dimenticare l'apporto di Jeremy Michael Ward e Isaiah "Ikey" Owens, entrambi scomparsi, il primo proprio nel 2003, quando è uscito De Loused the Comatorium, il secondo invece pochi giorni fa.



La prima volta che li vidi live fu proprio durante il tour di De Loused, al Rainbow, il concerto fu una furia, nervosi, arrembanti, con un impatto schiacciante. La stessa furia che ho sentito quest'anno nel debutto degli Antemasque. Ricordo che Cedric, nonostante il luogo non fosse proprio adatto, si arrampicò su una colonna di casse e si lanciò sul pubblico. Con il secondo disco però cambio radicalmente anche l'approccio ai concerti.

Decisi a dare un taglio ancora più netto con il loro passato, Frances The Mute aprì le acque del Mar Rosso per poi farle richiudere subito dietro di loro. Ma non è il disco nella sua totalità a segnare questo stacco, il momento in cui si chiudono è contenuto proprio al suo interno. Dopo un'apertura che tutto sommato ha delle similitudini con il disco precedente, arriva forse il loro ultimo vero singolo, nell'accezione commerciale del termine, The Widow.

The Widow fu la loro ultima concessione all'aspetto commerciale della musica, e nel momento in cui Cedric canta le ultime parole, "Cause I'll never, never sleep alone", i Mars Volta si stanno già inabissando in un nuovo mondo, e i successivi due minuti e mezzo di reverse, rumori, feedback ai tempi fecero già una feroce selezione fra chi era pronto a fare questo viaggio con loro e chi no.

Da quel momento la loro produzione musicale si imbarcò per un viaggio dal quale non hanno mai fatto ritorno. Il benvenuto è Cassandra Gemini (preceduta da una sorta di ritorno a casa, alle loro origini ispaniche con L'Via L'Viaquez), una suite gigantesca, infinita, insormontabile. La prima volta che ascoltai il disco, richiese molto impegno per poterla ascoltare tutta con attenzione, era necessario immergersi totalmente senza respirare per mezz'ora, ma una volta riemerso mi accorsi che la fatica è era stata ripagata con gli interessi ed ero pronto per seguirli ovunque, e così feci.

Questo è il prezzo da pagare con i Mars Volta, o tutto o niente, bisogna abbandonarsi, sgomberare la mente, aspettarsi di tutto, analizzarlo e capirlo. Non è materiale per fans, è musica per chi ha voglia di scoprire, di mettersi in gioco, di immergersi completamente nel magma di un'esperienza artistica completa, fatta non solo di musica, ma anche di visioni, di una progettualità fuori dal comune, e di testi allucinati, difficili e articolati.



Per la serie "morte, fatti curiosi e paranormali", questo disco è un concept su un diario ritrovato da Ward sul retro di una macchina. Un diario che sembrava parlasse della sua stessa vita, pur essendo di un estraneo (musichetta ansiosa a vostro piacimento).

Continuò inoltre il legame con i RHCP, presenti anche in questo disco in due pezzi fondamentali (e non può essere un caso), Flea con la tromba proprio su the Widow (e anche in Miranda..) e Frusciante con due assoli di chitarra su L'Via L'Viaquez.

Anche i live di quel tour furono straripanti e difficili, sembrava fossero determinati anche dal vivo a procedere con quella selezione naturale iniziata su disco. Al Rolling Stone a Milano fecero qualcosa come quattro pezzi per quasi due ore di concerto di jam infinite. Per molti di quelli che erano ancora legati al passato della band, fu il definitivo colpo di grazia, ricordo che molti uscirono delusi e infastiditi dal locale.

Superato lo scoglio, i due si trovarono ad essere quasi completamente orfani del loro vecchio pubblico senza avere ancora una solida base di nuovi adepti, ma invece di concedere qualcosa, di fare un disco che potesse avere un minimo di appeal sul percato, tentarono il suicidio con Amputecture.
Nonostante le vendite andarono comunque bene, la critica iniziò a cambiare bandiera e anche i fans, soprattutto gli ultimi superstiti della vecchia guardia, non lo accolsero molto bene. Fu un ulteriore addentrarsi nell'universo del prog anni'70, anche dal punto di vista dei suoni. L'apporto di Ikey Owens fu decisivo per dare una precisa personalità a questo disco. Nonostante sia forse il meno considerato della storia dei Mars Volta, contiene dei grandissimi pezzi, che si sono presi la rivincita anche a distanza di molti anni, regalando alcune delle loro migliori performance live.


Dopo le registrazioni di Amputecture Jon Theodore lasciò la band, e personalmente credo sia stato il primo insospettabile segnale dello sfilacciamento del progetto. Nonostante non fosse membro originario, diede fin dall'inizio un'impronta precisa con il suo stile e fu la spina dorsale del suono Mars Volta. I riff di Omar processati attraverso i suoi pattern e le sue invenzioni ritmiche diventavano unici e se la band non fu inquadrata da subito come banale revival prog anni '70 (cosa che hanno tentato di fare in tanti) il merito è anche e forse soprattutto suo. Sta di fatto che dopo di lui passarono più batteristi sul seggiolino dei Mars Volta che allenatori sulla panchina dell'Inter di Moratti.

The Bedlam In Goliath a mio avviso accusa un po' l'assenza di Theodore, soprattutto dal punto di vista della sperimentazione e della complessità ritmica e per la mancanza di un punto di riferimento dietro alle pelli. Non che Thomas Pridgen fosse scarso, anzi, ma la personalità di Theodore e l'affiatamento che si era creato negli anni con la band avrebbero dato sicuramente una marcia in più.


Cavalettas anche se è il pezzo più lungo del disco, è forse quello che lo rappresenta di più. Nonostante la durata, non si perde mai in jam strumentali e psichedelia, è un susseguirsi di varie parti unite con maestria, con un inizio che si avvicina all'hardcore e uno sviluppo che non perde mai la corda.

Per la serie "morte, fatti curiosi e paranormali",  il concept del disco si basa sulle brutte esperienze vissute dai due dopo che Omar regalò a Cedric una tavoletta per sedute spiritiche, che secondo loro causò una serie di avvenimenti sfortunati e incrinò i loro rapporti, contribuendo anche all'allontanamento di Theodore (musichetta ansiosa a vostro piacimento).

The Bedlam in Goliath, nonostante non rinunci alle formule complesse dei dischi precedenti è forse il loro disco più diretto, agile, sicuramente quello con i suoni più puliti e pezzi più corti. Un disco che contribuì pesantemente alla creazione di quella base di fan che mancava dopo lo strappo di Frances the Mute.

Ma nel momento in cui raggiunsero una nuova fetta di adepti, tentarono nuovamente il suicidio con un disco completamente differente dai precedenti.
Come dicevo prima, questi sono i Mars Volta, o tutto o niente, nessuna concessione al fan.
Quello che si scoprì una volta scartato Octahedron fu un disco dilatato, con molte ballate e pezzi struggenti, come la bellissima With Twilight As My Guide.
Ma anche gli episodi più carichi non avevano la solita irruenza, le ritmiche  più misurate, i bpm diminuiti, sembrava una versione maturata, per qualcuno semplicemente invecchiata, dei Mars Volta.
Non contenti aggravarono la situazione facendo uscire un singolo, Cotopaxi, che non rappresentava per nulla quello che era l'album in realtà, ma andava a riprendere ritmi sincopati e riff taglienti dei precedenti.



Molti si affrettarono a darli per finiti, dopo un paio di dischi che la critica non aveva apprezzato ma non aveva neanche avuto il coraggio di stroncare del tutto, riconoscendone il valore.

Ma ancora una volta con il disco successivo ribaltarono il tavolo e quello che oggi è il loro testamento musicale (per ora), è il loro disco più audace e difficile in assoluto, ma per molti aspetti il migliore: Nocturiquet.
Nel loro ultimo lavoro, la consapevolezza del percorso fatto, dell'identità della band fa sì che si riuniscano tutti gli aspetti positivi della loro esperienza, con un livello di sperimentazione sonora mai raggiunta in precedenza e una grande maturità nella composizione. Il salto più grande come in tutte le metamorfosi dei due di El Paso è nella voce di Cedric, usata come un vero e proprio strumento, processata attraverso effetti, ma naturalmente malleabile e versatile come non era mai stata prima.
Necessitava di diversi ascolti prima di riuscire a coglierne l'essenza, ma una volta districato l'intreccio di suoni, effetti, dissonanze, ci si ritrova con in mano un vero gioiello.
Ancora oggi nonostante gli attenti e ripetuti ascolti dalla sua uscita, ogni volta rivela sempre qualcosa di nuovo.

Ma dai Mars Volta non ci si poteva aspettare la preparazione di una lunga fase di maturità e successivamente di declino. Il progetto dopo dieci anni di attività ad un livello qualitativo inarrivabile per qualsiasi altra band contemporanea, non avrebbe avuto le forze per spingersi più in là di Nocturniquet.
Infatti non hanno tardato a stupire ancora una volta, l'ultima. Con una serie di tweet improvvisi, Cedric a inizio 2013 annuciava che il progetto Mars Volta si stava concludendo, dando la colpa proprio al suo compagno d'avventure, accusato di dedicarsi troppo agli altri suoi progetti.
Sembrava che il duo artistico fosse definitivamente arrivato al capolinea, ma ancora una volta riescono a stupire e a sorpresa quest'anno è arrivato l'annuncio della nascita degli Antemasque, ma questa, come direbbe Lucarelli, è un'altra storia (che affronterò nella terza parte).

Rimane l'eredità di un progetto mastodontico, che per qualità, coraggio, onestà artistica, produzione è senza ombra di dubbio il migliore della loro generazione.













15 ottobre 2014

Da tempo sostengo che Salvini sia uno dei politici più pericolosi in circolazione, è maledettamente furbo e sa fare benissimo il suo lavoro (purtroppo è la verità). Da un lato fomenta l'odio razziale lanciando esche ben confezionate come questa, dall'altro va in tv a prendere voti recitando la parte del (finto) tollerante e del difensore della patria. Oggi gli è bastata una frase su una cosa inutile come un corso di nuoto per far scattare un'ondata assurda di commenti razzisti. Acido, gas, benzina, piombi e sono solo alcuni. Non si può derubricare la cosa sotto la voce “leghisti, lasciamoli perdere”. Non sono solo leghisti, è gente che vota, che cresce figli insegnandogli a discriminare i compagni di classe, gente che inneggia alle “docce” dei lager. Le DOCCE, con foto di Hitler, non so se vi rendete conto. Quest’uomo alle ultime elezioni europee ha raccolto 300.000 voti, che arrivano anche da queste persone. "Forse" abbiamo un problema ed è più grave di quello che pensiamo.


8 ottobre 2014

Non ho mai nascosto la mia passione per le varie incarnazioni e reincarnazioni di Cedric Bixler Zavala e Omar Rodriguez Lopez. Il loro percorso artistico è uno dei più ricchi e affascinanti degli ultimi tre decenni e a mio parere, a parte il pluri-acclamato Relationship of Command, credo non siano mai stati pressi abbastanza "sul serio". Soprattutto con i Mars Volta sono stati trattati per lo più come due che si divertivano a fare prog fuori moda, cercando di rinnegare il passato e senza trovare una direzione e un'identità precise. Anche se De Loused in the Comatorium ha ricevuto molti riscontri positivi, è rimasto comunque un po' oscurato dal successo di Relationship e i dischi successivi, non avendo più l'hype della novità sono un po' caduti nell'oblio. È proprio in quell'oblio che voglio andare a rovistare per riportare alla luce alcune perle alle quali pochi hanno dato il giusto spazio.

Non credo esistano altre band che hanno avuto una storia artistica come quella di Omar e Cedric. Sempre insieme ma sempre diversi, rinnovati, o meglio rivoluzionati, per tre (forse anche quattro volte) durante la loro carriera. Con l'unico scopo di inseguire la loro ispirazione, la loro ricerca sonora, contro qualsiasi legge di mercato e desiderio o richiesta dei fans. Ma andiamo con ordine.



AT THE DRIVE IN: SEVEN SHOTS, ONE KILL


La forbice qualitativa che c'è fra tutti i lavori che non sono Relationship of Command e Relationship of Command è qualcosa che non si riesce a spiegare.
La prima metamorfosi di Omar e Cedric infatti non sono i Mars Volta, ma è QUEL disco.
Fra LP ed EP prima di quello non hanno mai neanche lontanamente raggiunto certi standard. Discreti dischi/EP con all'interno qualche buon pezzo, ma sempre troppo grezzi, troppo poco a fuoco e con produzioni e suoni non all'altezza della situazione. Con Vaya, l'ultimo ep prima del capolavoro, si sono avvicinati ma si tratta comunque di un'altra categoria.
Il loro record di salto di qualità è molto vicino a quello fatto registrare dai Red Hot Chili Peppers con Blood Sugar Sex Magic. Esattamente come gli At The Drive in, prima di BSSM non c'era nulla di neanche lontanamente paragonabile.
Così come Rick Rubin è piombato in mezzo ai Red Hot a fare da centro di gravità per la rotazione incontrollata delle idee della band, Ross Robinson ha fatto lo stesso con gli At The Drive In.
Prima c'erano molte idee grandiose in studio, ma nessuno riusciva a dargli una direzione o un disegno preciso. Con Ross Robinson, o nel caso dei Red Hot, Rick Rubin, le band sono riuscite a concentrare e organizzare quelle idee allo scopo di creare un disco epocale. Il lavoro fatto da Robinson e Rubin è stato fondamentale ed il merito della riuscita di quei due dischi è forse da attribuire più a loro che alla band.
L'analogia fra le due band, sebbene di generi completamente diversi, è dettata dal destino, perché negli anni  gli incroci e collaborazioni fra Omar, Cedric e i RHCP sono stati molteplici.
Inoltre tutte e due, dopo aver centrato il disco della vita sono collassate, più o meno per gli stessi motivi, ma la reazione è stata diametralmente opposta e questa reazione è il motivo fondamentale per il quale state leggendo della band di El Paso e non di quella di L.A.

Il valore di Relationship of Command è inestimabile. È stata una pietra scagliata in un lago ormai prosciugato che è riuscita comunque a creare un'onda altissima. È arrivato dopo il declino del grunge e quell'illusione che è nata sotto il nome di crossover e ed è morta di vergogna sotto il nome di nu-metal, nell'anno in cui l'industria discografica si è letteralmente schiantata contro Napster, prima di Is This It degli Strokes e della successiva nuova ondata del cosiddetto nu-rock. In quel preciso momento di stallo è arrivato il fulmine degli At the Drive In a sconvolgere le carte. Il primo singolo ad uscire è stato One Armed Scissor, un pezzo davanti al quale era impossibile rimanere indifferenti, una furia e un impeto che forse mai si erano sentiti prima. Il video del pezzo poi è un collage di spezzoni di concerti durante i quali sembrava dovesse scoppiare tutto da un momento all'altro, un video che a prescindere dall'efficacia del pezzo ha una potenza visiva intrinseca devastante:


Così come ha avuto una potenza visiva devastante la loro esibizione al Late Show di Letterman:


Credo che nei successivi 15 anni di show il buon David non abbia mai più assistito a un uragano di quella portata nel suo studio. La forza degli At the Drive In era proprio questa: suonare ogni volta come se la morte li aspettasse nel backstage. Il merito più grande di Ross Robinson e Andy Wallace e il vero punto di forza di Relationship of Command, è stato proprio quello di essere riusciti a catturare quel senso di apocalisse che caratterizzava i loro live.


Ma all'apice della loro carriera, con il mondo letteralmente ai loro piedi e pronti per diventare i capostipiti di una nuova ondata di post-hardcore, la band ha letteralmente sbroccato. Gli impegni serrati a cui erano costretti e la pressione che sentivano su di loro, visto l'hype che avevano raggiunto era troppo. In questo senso la collocazione della band nell'hardcore, nonostante fosse ben lontana dai cliché del genere, non gli ha sicuramente giovato, l'intransigenza e l'integralismo dei fan del genere, soprattutto in quegli anni, non era la cosa più semplice da affrontare.
In più ci sono stati vari elementi che hanno contribuito ad aumentare la pressione e ad incrinare la loro stabilità mentale. Fra gli altri, un incidente automobilistico, dove per assurdo riportarono più danni psicologici che fisici e alcune brutte esperienze durante i concerti. Celebre lo stop della loro esibizione al Big Day Out in Australia a causa del moshpit violento nelle prime file, con conseguente sproloquio delirante di Cedric (bisognerebbe anche fare un articolo a parte per la gente che sbrocca sul palco, qui e qui un paio di esempi recenti).
Come si vede dal video, la sobrietà che lo contraddistingue non era certo tutta farina del suo sacco, e non è solo farina bianca, infatti fra le cause del loro scioglimento, l'abuso di sostanze è stato decisivo.
Fermarsi diventò inevitabile per salvaguardare la loro salute e la loro integrità.
Ma invece che prendersi un periodo di pausa e tornare con un nuovo disco una volta ripuliti, ribaltarono il tavolo e se ne andarono sbattendo la porta.
In particolare Cedric e Omar, non ne volevano sapere di rimanere confinati in un genere, di doversi confrontare con una schiera di fans, nel senso negativo del termine, che avrebbero voluto solo un Relationship parte seconda, terza e quarta.
Ma sono anche, e soprattutto, le divergenze di opinione con Jim Ward secondo chitarrista e seconda voce della band, a spingere i due verso una strada totalmente differente da quella degli At The Drive in.

Guardare questo video per capire al primo sguardo:
1. La manifesta sobrietà di Omar e Cedric.
2. La netta spaccatura all'interno della band.



Jim Ward ha continuato successivamente con gli Sparta (insieme agli altri due membri restanti) a seguire la linea sulla quale si erano mossi gli At the Drive In; con risultati molto validi, ma anche in questo caso molto sottovalutati.
Per Omar e Cedric invece seguì un periodo di silenzio durante il quale le indiscrezioni si sono sprecate, ma in realtà il futuro dei due non era per niente chiaro.

Sta di fatto che lo scioglimento della band a pochi mesi dall'uscita del suo capolavoro, uno dei dischi più importanti degli anni '00, ha reso quel disco e quella band leggendari. Ancora oggi anche solo vedere la sua copertina mi fa venire una voglia incontrollabile di riascoltarlo (come in questo momento).
Non c'era niente del genere prima e non c'è più stato, nè mai ci sarà, niente del genere dopo.


23 settembre 2014




Il post-rock per molti è un genere stantio fermo a trent'anni fa, che non si è mai evoluto o peggio ancora è nato già morto. Per alcuni aspetti chi la pensa in questo modo non ha tutti i torti, ma dall'altra parte non ha neanche mai capito la vera natura di questo genere, che è un magma in continuo movimento che varia per piccole sfumature e si espande con costanza.
Se il genere e i gruppi che ne fanno parte hanno una colpa è forse quella di non aver mai osato veramente, come se la scusa di avere pezzi da 7 minuti strumentali fosse già una dimostrazione di coraggio e audacia sufficiente a permetterti di non entrare mai nel campo della sperimentazione vera, come spesso accade invece nel black-metal, per esempio.
Il risultato è un'occasione mancata. Un genere che avrebbe potuto avere mille evoluzioni coraggiose, innovative, per le quali lo stesso genere si sarebbe sacrificato, scomparendo così come è stato per molti altri legati alla loro epoca. Rimane invece un'unica, bellissima e commovente, linea melodica lunga trent'anni, all'interno della quale però, ci sono mille variazioni e mille sfumature che oggi sono la forza di questa musica e il motivo per cui dopo così tanto tempo è ancora fra noi, viva e in costante crescita.

È uscito da pochi giorni il nuovo disco dei This Will Destroy e anche se ad un primo ascolto distratto, può sembrare che non porti nulla di nuovo, in realtà nasconde una profonda evoluzione della band e del genere a cui appartiene. Le esplosioni, i crescendo, gli arpeggi sospesi che da sempre sono le loro caratteristiche peculiari, sono annegati in un magma pulsante dove gli strumenti perdono i confini, si fondono gli uni con gli altri. Anche se inevitabilmente in alcuni momenti emerge questo o quello strumento (la chitarra naturalmente più spesso degli altri), è tutto avvolto in una nebbia sonora. Sullo sfondo c'è sempre un tappeto di feedback, sinth, chitarre distorte a tal punto da perdere la loro natura, la batteria non è mai naturale, ma è sempre impastata con reverberi, delay. L'armonia di fondo non è mai perfetta, è sempre leggermente disturbata, con microvariazioni di nota che sporcano l'insieme, rendendo il tutto un po' imperfetto e quindi molto naturale, nel senso letterale del termine.

La cosa curiosa è che spingendomi in là con gli ascolti, nella mia testa ho iniziato a canticchiare: tiúúúúÚÚÚÚÚúúúú. Una cosa naturale e inevitabile, non me ne rendevo neanche conto quasi, ma ogni tanto su uno qualsiasi dei pezzi del disco mi veniva in mente.
Quel verso, per chi non lo sapesse è presente nel secondo disco dei Sigur Rós, Ágætis Byrjun, più precisamente in Svefn-g-Englar.
Non che ci sia una pezzo nel disco dei TWDY che assomigli a quello. Non c'è nulla, melodicamente parlando, che assomiglia a un pezzo dei Sigur Rós, ma è più un'atmosfera, l'utilizzo delle strutture dilatate, quella mancanza di esplosioni nette e potenti. Ma soprattutto l'uso di quella nebbia sonora nella quale il gruppo islandese ha nuotato per quasi tutta la sua carriera e che ha plasmato a colpi di archetto al servizio della loro musica.
E' curioso come, nel momento in cui i Sigur Rós hanno lasciato libero il campo, virando con forza verso altre strade con Kveikur, sia arrivato un disco di un'altra band (una dei capisaldi del genere) che ha in qualche modo ripreso il discorso lì dove loro l'avevano lasciato, applicandolo ad altri schemi.
E' curioso anche che le copertine siano vagamente simili, e il titolo del disco dei TWDY, Another Language,  si possa interpretare come una svolta, un modo diverso di esprimersi.
Che facciano riferimento proprio all'islandese?!? Lascio questo spunto per la prossima puntata di Adam Kadmon.

Forse negli anni non ci è resi conto dell'influenza che avrebbero potuto avere sulla musica futura. Nonostante fossero di fatto una band post-rock, dai fan del genere non sono mai stati considerati più di tanto. Sono sempre stati relegati e isolati in un mondo un po' esotico e pittoresco, un po' come la maschera africana di legno made in Bergamo, che appendi alla parete per dare quel tocco etnico alla casa ma che poi non noti più.
Loro hanno avuto la grande capacità di uscire prepotentemente da quell'isolamento, andandosi a conquistare i più grandi festival e i palazzetti di tutto il mondo, e diventando più famosi di ogni altra band post-rock della storia.

Ora dopo quindici anni, l'onda lunga della loro musica inizia ad attecchire al di là di quell'area esotica di cui parlavo prima (tutto lo pseudo-folk nordico uscito negli ultimi anni), e viene naturale chiedersi marzullianamente: "Sono loro che erano troppo avanti, o è la musica di oggi che sta andando indietro?".
Sta di fatto che ce li ritroviamo in un disco che con loro in teoria non dovrebbe avere nulla a che fare, e che accenna timidamente una nuova via per il genere e per una band che, continuando in questa direzione, potrebbe intraprendere quella sperimentazione vera che pochissimi hanno avuto il coraggio di seguire.
I TWDY hanno forse iniziato a tracciare una nuova via per il loro futuro, che altri certamente seguiranno, ma è un futuro che dall'Islanda avevano già previsto e battuto in lungo e in largo. Quando i Sigur Rós hanno tracciato la via, molti stavano guardando dal lato opposto, solo ora ci si accorge che quella via è percorribile e ancora fertile, se ci regala dischi belli come Another Language.


2 settembre 2014




Sarà un caso, o forse no, ma poco tempo fa si è celebrato il ventennale di Dummy dei Portishead, come per tutti i ventennali che si sono celebrati e si stanno celebrando in questi ultimi mesi/anni, sono tutte cose che mi toccano marginalmente. Un po' perché le celebrazioni dei dischi del passato non mi sono mai interessate e ultimamente sono diventate solo un modo per buttare fuori l'ennesima edizione deluxe/ rimasterizzata/ congliineditichenonsonostatimessisuldiscomasenonsonostaimessiunmotivocisarà/ conleversionidemo/conilcofanettoaformadisigaronemorbidone/. Un po' perché come ho già detto in un altro articolo, sono sempre arrivato dopo e non ho mai avuto l'età e la maturità musicale per cogliere i movimenti musicali degli anni '90 sul nascere e quindi per sentirli miei, cosa che credo sia comune a tutti i nati nei primissimi anni '80.

Ma se oggi non ascolto solo rock/metal/punk il merito è tutto dei Portishead. 

Non ricordo come sono venuto in contatto con loro, e cosa strana non ricordo chi mi ha passato i loro dischi. Ho una memoria pessima, ma mi ricordo perfettamente di tutti quelli che mi hanno passato un disco che mi è piaciuto. Ricordo che si sentiva spesso parlare di trip-hop e io non capivo che cavolo potesse essere. Non era semplice come oggi reperire musica, o avevi un amico che ti passava qualcosa o leggevi le riviste o avevi la fortuna di beccare un video sulle varie Videomusic/Tmc2/MTV/AllMusic/Viva. Chiuso. Non c'erano altri modi. Le radio, tranne qualche eccezione, erano impegnate a passare Corona, Datura, Mo-Do Ice-MC e le 4 Non Blondes. 

Io non ero un ascoltatore compulsivo come adesso, mi piacevano quei quattro gruppi fondamentali, nel 93/94 ero intrippato con i Guns, nella mia compagnia giravano violentemente i Litfiba, sono venuto in contatto con Bleach passatomi da Luigi Paduano in cassetta originale (ve l'ho detto che me li ricordo tutti) ma ero ancora troppo acerbo per capirlo. Poi sono esplosi i Green Day, gli Offspring e a quel punto la mia strada musicale era segnata, ho preso le prime lezioni di chitarra e ho formato la mia prima band. 

Avevo solo questa parola TRIP-HOP che continuava a rimbombarmi in testa, ma associandola all'hip-hop non destava in me un interesse tale da prendere il toro per le corna e indagare a fondo su cosa fosse in realtà, visto che in quel periodo ascoltavo tutt'altro.

Poi un giorno, credo nel '96, non so come, mi è capitato per le mani Dummy e finalmente ho capito. O meglio più che capire, è come se quel disco mi avesse infilato un cric nel cervello che piano piano si è aperto. 
Perché in realtà non mi è piaciuto subito, ma è stato più un seme che ha fatto crescere la curiosità verso certi suoni. Grazie a quello poi sono venuti i Massive Attack, Faithless, Bjork, Lamb, e poi successivamente Amon Tobjn, Chemical Brothers, senza tralasciare l'anello di congiunzione fra i due mondi, i NIN. 

La mia ricerca sonora nel rock/punk/metal, in quegli anni si è poi evoluta in una ricerca approfondita nel grunge (che mi ero perso in gran parte) e nell'appoggio incondizionato alla causa del crossover con l'esplosione di Korn, Deftones e Incubus. 
Dummy ha avuto il merito indiscusso di spingermi a condurre un'esplorazione anche nei suoni più sintetici nei quali altrimenti non mi sarei mai buttato. 

Sono ritornato in contatto con i Portishead più avanti ma anche in questo caso non ricordo come sono venuto in contatto con QUEL disco, se me l'ha passato qualcuno o se me lo sono andato a cercare, o se l'ho trovato per caso con colpevole ritardo rovistando nel p2p. Fra l'altro non sono neanche un amante dei dischi live, perché nella maggior parte dei casi la qualità della registrazione non rende o di contro molte versioni live non danno nulla di più della versione in studio. In più non sono un ascoltatore enciclopedico, uno che si fa le pippe sulla versione bootleg del b-side dell'edizione indo-cinese del maggio del '62, quindi non mi interessa molto neanche l'aspetto feticista della cosa. Ma non so per quale motivo, quel disco l'ho voluto.

Solo nel momento in cui l'ho ascoltato ho capito veramente cos'erano i Portishead. 
Il disco in questione è Roseland NYC Live, ed è il miglior disco live di sempre. 

Spesso mi sbilancio con questa definizione per un disco o una band che in un determinato periodo mi piace particolarmente. Ma sono ormai 15 anni che questomi piace particolarmente, quindi questa definizione è pensata, ponderata e verificata. 
Perché? Perché innanzi tutto tecnicamente è perfetto, la qualità della registrazione è incredibile, ed è amplificata dal fatto che il live è eseguito con un'orchestra. La qualità e la precisione dell'esecuzione sono marziane, l'intensità e la drammaticità della loro musica acquista una profondità e una concretezza che mi perforano ogni volta che lo ascolto.

Ritrovandomi spesso a rovistare nei negozi di dischi, e uscendo molto spesso con dischi che in realtà non stavo cercando, ogni tanto mi fermo a pensare "qual è un disco che vorrei veramente avere in vinile?". La risposta a questa domanda negli ultimi mesi è sempre stata la stessa: Roseland. 
Finite le vacanze estive, ho rivisto mio fratello questa domenica, il quale si è presentato con un sacchetto con dentro un vinile comprato a Berlino. Ho aperto il sacchetto e mi sono ritrovato in mano Roseland che mi guardava. L'ho cercato per mesi in vari negozi di dischi, ma non l'ho mai trovato. Avrei potuto ordinarlo, sia in negozio che online, ma volevo trovarlo nella scatola in mezzo agli altri vinili, prenderlo in mano, pagarlo e portarlo a casa, oppure riceverlo come regalo, sarebbe stato comunque una gran bella cosa. Così è stato (sapeva che lo stavo cercando). Grazie davvero.

Così ieri sera ero a casa da solo, ho scartato il disco, anzi non l'ho scartato, io ai vinili non tolgo quasi mai la plastichina, faccio un taglio con l'unghia del pollice in prossimità dell'apertura della custodia e la lascio lì a proteggere quel cartoncino magico. Dicevo, ho scartato il disco, l'ho messo sul piatto, ho appoggiato la puntina, ho dato una bella girata alla manopola del volume e mi sono seduto sul divano.
Erano credo una decina d'anni che non lo ascoltavo, salvo qualche pezzo pescato su youtube. E' stato come aprire una botola, come sprofondare in un cuscino gigante dove però non trovi mai la posizione giusta, dove ti rilassi totalmente, ma non ti senti mai abbastanza tranquillo da poterti addormentare. 
Si ok Dummy è la prima pietra, Portishead (il disco) è un altro grande disco, ma in Roseland c'è una verità, una concretezza, una fisicità che lo rendono unico e che racchiude l'essenza della band. E' come una pialla che passa ripetutamente sulla pelle traccia dopo traccia, fino a scoprire la carne viva, nella quale ogni nota ogni dissonanza ogni parola disperata di Beth Gibbons scava un solco profondo. 
Quando poi non rimane più nulla, quando i solchi sono così profondi che scalfiscono le ossa arriva Roads, come un coltello caldo che si fa strada lentamente nel cuore, lasciato ormai scoperto. 
La voce di Beth Gibbons è straziante e non è un modo di dire, fa scendere davvero i lacrimoni quando attacca con queste parole:

Oh, can't anybody see

We've got a war to fight?
Never found our way
Regardless of what they say

How can it feel, this wrong

From this moment?
How can it feel, this wrong?

Storm

In the morning light
I feel, no more
Can I say frozen to myself?

I get nobody on my side

And surely that ain't right
Surely that ain't right

Oh, can't anybody see

We've got a war to fight?
Never found our way
Regardless of what they say

How can it feel, this wrong

From this moment?
How can it feel, this wrong?

How can it feel this wrong

From this moment?
How can it feel, this wrong?

Oh, can't anybody see

We've got a war to fight?
Never found our way
Regardless of what they say

How can it feel, this wrong

From this moment?
How can it feel, this wrong?


Sul finale la sua voce si spezza a tal punto che quasi non riesce a pronunciare le parole, rimane senza fiato e sembra quasi che per ritrovare il fiato stia rubando anche l'aria  nella stanza in cui ti trovi e rimani senza fiato insieme a lei, con il groppo in gola e gli occhi lucidi fissi nel vuoto.

Il miglior disco live di sempre. Il. Miglior. Disco. Live. Di. Sempre.


22 luglio 2014



Gli Editors per me sono uno dei gruppi della vita, inteso non semplicemente come il gruppo per cui vado in delirio o di cui sono superfan. Il gruppo della vita è quello che hai vissuto in prima persona, che hai scoperto da solo quando è uscito il primo singolo, quando è ormai passata l’età della ribellione, nella quale ascolti quei generi e quei gruppi che danno voce alla tua voglia di essere contro, ma che poi si esauriscono presto, perché capisci che la musica è molto di più e c’è un mondo da scoprire.



Quel gruppo che non ti è stato passato dall’amico più grande che ne sa sempre più di te e che l’aveva scoperto prima di te. Il gruppo della vita è quello che è nato e cresciuto con te, che è maturato con te e ha avuto un percorso artistico evolutivo, con la volontà di rinnovarsi e di crescere artisticamente per poter essere sempre la tua band di riferimento. Senza diventare dopo una decina d’anni il gruppo che ascoltavi quando eri giovane, che vai a vedere in piena crisi di mezza età per il concerto della reunion solo per sentire i pezzi vecchi e sentirti ancora giovane, anche se hanno un nuovo disco in uscita di cui non hai mai sentito nulla e del quale non ti interessa nulla.

Per me uno di quei gruppi sono gli Editors, perché sono nati sotto i miei occhi e li ho colti con tutta la “saggezza” dei miei vent’anni, perché sono usciti in coda a un movimento musicale che è stato il primo che ho potuto vedere nascere in prima persona (e l’ultimo nella storia, di quella portata). Perché per il grunge o il crossover/nu-metal sono sempre arrivato dopo, ero troppo giovane o troppo immaturo musicalmente, per coglierne i primi semi.

Perché sono uno dei pochissimi gruppi di quel movimento (nato con gli Strokes), che è sopravvissuto all’implosione del movimento stesso e che ha continuato a fare dischi cercando di trovare una valida via personale fuori da quel calderone, a differenza di molti altri che hanno cercato solo di sopravvivere.



Gli Editors stanno agli anni duemila come i Pearl Jam stanno agli anni novanta...

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15 luglio 2014

Nel 2012 è uscito il disco d’esordio de Il Triangolo con il quale si sono guadagnati un posto speciale nel panorama indie italiano. I pezzi contenuti in Tutte le Canzoni, riprendono le atmosfere beat degli anni ’60 ed entrano subito in testa grazie a testi ben costruiti, strutture semplici e dirette e alcuni ritornelli che è impossibile non ritrovarsi a cantare, provate ad ascoltare Battisti, per esempio. La dimensione ideale di quei pezzi però è ai concerti, dove il pubblico, che cresce a ogni data, canta a memoria tutti i testi. Presto la band si ritrova ed essere una delle rivelazioni di quell’anno e una delle tante promesse per il futuro.

Il 2014 è l’anno giusto per mantenere quella promessa. Ad aprile esce Un’America, anticipato da Icaro e si capisce subito che il trio non ha intenzione di rimanere confinato nelle categorie che gli sono state assegnate. Il suono diventa più ricco e più distorto, si va verso la new wave e il post punk senza però perdere l’identità forte che avevano mostrato all’esordio. Qualcuno rimane spiazzato, ma nella maggior parte dei casi viene accolto bene, e dimostrano un coraggio e una voglia di sperimentare che per una band come loro non è banale, soprattutto in un paese come l’Italia e in un ambito come l’indie, nel quale con il secondo disco sono tutti pronti a dimenticarti per dedicarsi alla prossima next big thing.



Ora sono tornati sui palchi per presentare questo nuovo corso della band. Hanno inaugurato il tour partendo dalla miglior piazza possibile, quella del Mi Ami, dove hanno suonato sabato 7 giugno sul palco della collinetta da headliner, prima di Ghemon.

Ho raggiunto telefonicamente Marco Ulcigrai (voce e chitarra) nel pomeriggio durante la lunga attesa per il concerto serale, per parlare del disco e delle nuove sonorità della band.

Voi eravate già stati al Mi Ami se non ricordo male, vero?

“Eravamo già stati due anni fa quando era appena uscito il primo disco, che era uscito più o meno nello stesso periodo di questo, sempre sulla collinetta in orario pomeridiano, verso le sette se non ricordo male”.

Siete consapevoli di essere fra i più attesi questa sera?

“È una cosa che speriamo, visto l’orario sappiamo che Rockit & company puntano abbastanza su di noi quindi speriamo di essere attesi”.

Siete contenti di come è stato accolto il disco? Leggete le recensioni, vi interessate oppure la cosa non vi preoccupa?

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9 luglio 2014

La recensione di Un'America dei Il Triangolo uscita su Rumore di Maggio:


10 giugno 2014

Se il PD fosse stato un partito comunista l'avrebbero chiamato Partito Comunista. Il PD non è comunista, se ne sono fatti una ragione anche a Livorno. Il fatto che nella città "dove è nata la sinistra e il comunismo italiano e bla bla bla" la sinistra abbia perso non vuol dire che il PD non sia di sinistra, vuol dire che il PD è un'altra sinistra, moderna e internazionale (almeno nelle intenzioni) e lontana da tutti quei cliché da centro sociale o circolo per anziani militanti. Il motivo per cui ora la sinistra vince è proprio questo. Perché per trent’anni è rimasta ancorata a un’era che non esiste più e si è sempre preoccupata di non deludere quella minoranza che la teneva attaccata a quell’idea morta. Il fatto che nella città toscana la sinistra abbia perso è solo una conferma del fatto che il PD sta andando nella direzione giusta. Comunque se a Livorno dopo 70 anni SETTANTA, si sono accorti che forse c'è anche altro non è che sia un male eh, viva la democrazia.





3 giugno 2014

La scelta è stata difficile questa volta. No, non parlo delle elezioni, ma della scelta fra i Touché Amoré e Wovenhand, che erano entrambi live a Milano sabato 24 maggio. E' stato un po' come decidere quale metà del cuore salvare. Alla fine facendo un calcolo delle probabilità la scelta è caduta sul secondo o i secondi, perché ancora non ho capito se il progetto Wovenhand è da considerarsi più una band o un solista e il concerto non mi ha tolto questo dubbio. 


Quando arrivo al Bloom è già piuttosto pieno, terminato il set dei Fiub (che purtroppo non ho fatto in tempo a vedere) e dopo una breve attesa per cambio palco e consueta mezz'oretta di musica acida per far salire l'ansia, appaiono sul palco senza cerimonie. David Eugene ha già in testa il suo cappello con la piuma, si porta verso il microfono, strumenti in spalla, parte Hiss e bang! L'impatto è uno shock, il volume di fuoco che producono  è devastante, ma non solo, anche la forza espressiva di tutta la band è schiacciante...

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20 maggio 2014

"shottini" è una nuova rubrica di questo blog. 
Le regole: scrittura a caldo, solo testo, un paragrafo, 1000 battute al massimo.
(Un'immagine solo per esigenze di condivisione)


Pharrel arriva a Milano il 20 settembre e io sono geloso. Mi succede sempre quando un artista o gruppo che apprezzo, famoso nel suo ambiente, diventa ultrafamoso. Così, se prima te lo vedevi in tranquillità in un posto piccolo, comprando i biglietti con calma ad un prezzo giusto; dopo dovrai donare un rene e farti venire gli attacchi d'ansia davanti a ticketone. Già vedo l'esercito di infedeli che andranno al Forum cantando Happy, senza avere la minima idea di cosa abbia fatto prima. Ci tenevo quindi a dire che sin dal 2002 sostengo che Pharrell sia il più grande genio musicale dei nostri giorni, anche quando voi eravate tutti in fissa con quel tamarro di Timbaland, io non l'ho mai mollato. Infatti Pharrell è diventato il capo del mondo e Timbaland "Who?". Non sto neanche a raccontarvi di quando ho visto i N.E.R.D. nel 2004 all'Alcatraz di Milano. Dove voglio andare a parare con questo discorso? Da nessuna parte, ma qualcuno doveva pur esternare questo disagio.



5 maggio 2014

Non ho seguito bene la questione della finale di Coppa Italia perché ero all'estero per un week end di vacanza e mi sono un po' estraniato dalle questioni del nostro paese. Non ho letto nulla (oltre alla cronaca del fatto e dell'antefatto), non so cosa sia stato scritto e non so se quello che sto scrivendo è già stato detto o scritto da qualcuno.

Una cosa mi ha colpito in modo particolare guardando i vari siti dei quotidiani e i commenti sui social: il fatto (gravissimo) è stato trasformato subito in una macchietta. Il delinquente si è trasformato subito in una barzelletta.Un fatto di sangue e di prevaricazione dello stato e delle autorità, si è trasformato subito in una parodia.

A me sinceramente fanno paura tutte queste battute, tutto questo sarcasmo, tutte queste vignette. A me fa paura questo soprannome che è spuntato fuori in tempo zero, dato in pasto agli spettatori e ai lettori, per creare il personaggio, il fumetto, per rendere virale il fenomeno, per farsi una risata. Non c'è un cazzo da ridere.

La verità è che questa cosa ci fa paura, e se fosse trattata per quello che è, si dovrebbe fermare tutto. Dal mondo dello sport, alle forze dell'ordine, al ministero dell'interno. Ma soprattutto noi stessi, noi che andiamo in curva (non io personalmente, anche se è capitato un paio di volte) e allo stadio a cantare comandati da camorristi, mafiosi, nazisti, facendo finta che sia tutto normale e senza fare un piega. Ma anche chi guarda lo sport in tv o chi lo pratica a livello agonistico. Non solo il calcio, perché i soldi che arrivano da lì servono anche a finanziare tutti gli altri sport "minori" e alla fine lo sport entra anche nelle scuole come elemento fondamentale dell'educazione dei ragazzi. Quindi nessuno si può considerare escluso.

E' dura ritrovarsi così senza difese di fronte alla realtà, senza alibi, senza alcun tipo di possibilità di nascondersi.



E allora ci si scherza su, si fanno battute, fotomontaggi, giochi di parole, diventa argomento per ridere al bar o in ufficio o su Facebook. Perché in fondo vogliamo tutti esorcizzare il fatto, perché ci siamo dentro tutti e siamo tutti complici, direttamente o indirettamente. Perché il calcio per noi è un gioco, e anche se da decenni non lo è più, noi vogliamo continuare a crederlo. Ci fa comodo. Non ci importa se una persona è quasi morta, ammazzata da un colpo di pistola (lo ripeto perché magari è sfuggito: COLPO-DI-PISTOLA), per noi l'importante è fare la battuta sagace con un soprannome pittoresco. Non è la prima volta che accade, perché anche con Italia - Serbia e Ivan Bogdanov il copione è stato lo stesso.

Adesso basta cazzate, finiamola di fare battute, di scherzare, è arrivato il momento di chiamare le cose con il loro vero nome:

GENNARO DE TOMMASO, CAMORRISTA*.



* Fonti: Il Sole24ore, Huffington Post

17 aprile 2014

foto di Roberto Poli


Per festeggiare il restiling del blog ci vuole un articolo. Ma così come è cambiato nettamente l'aspetto, la volontà è anche quella di cambiare i contenuti, non nei temi trattati, ma nel modo in cui li tratterò. Proverò (e sottolineo proverò) ad essere più diretto e breve. Quindi, anche se ho delle scadenze più impellenti da sbrigare (tipo la nuova puntata di Gig Life), ci tengo a scrivere due righe su una cosa che il caso vuole sia cromaticamente in perfetta sintonia con il nuovo stile del blog.

Lunedì all'Elfo Puccini di Milano ho assistito a una cosa che ha unito in un modo splendido due cose che amo. Una è la musica dal vivo (e già si sapeva), l'altra è la danza contemporanea e la performance artistica (quindi sono tre le cose). Della seconda non ne ho mai scritto perché sostanzialmente non ne so molto, tecnicamente parlando. Mi fermo al mi piace/non mi piace, bravi/meno bravi, ma è una cosa che mi appassiona e credo sia una delle forme di espressione più intense che esistano, che riesce sempre a smuovere nello spettatore qualche corda sopita o sconosciuta.

I due soggetti coinvolti sono i Death of Anna Karina, Corpicrudi e Matteo Levaggi (quindi in realtà sono tre). I primi sono una delle migliori, se non la migliore, band che abbiamo in Italia. Il secondo è un progetto artistico di Samantha Stella e Sergio Frazzingaro che opera su video, istallazioni e live performance. Il terzo è un coreografo e ballerino. La performance "Preludio per una Sinfonia in Nero" è la trasposizione live di un'istallazione presentata da Corpicrudi in occasione di Arte Fiera Bologna.

Siamo entrati nella sala completamente sgombra, riempita solo dalla musica dei Joy Division, uno spazio nero e vuoto nel quale i ballerini e la band erano già in scena. Immobili da prima del nostro ingresso, come se qualcosa di misterioso fosse accaduto in nostra assenza. Sulla sinistra la band, al centro un triangolo bianco disegnato sul pavimento e Matteo Levaggi rannicchiato al centro. Una parete nera contro la quale è apparsa Samantha Stella e una sedia, un trono, sul quale è rimasto seduto immobile Sergio Frazzingaro per tutta la performance.
La prima parte della performance si è svolta con la musica dei Joy Division, la seconda con il live, come al solito incredibile, dei Death of Anna Karina.
Non sto a spiegarvi cos'è successo dal momento in cui si sono spente le luci fino a quando si sono riaccese, perché è inspiegabile. So solo che è stato uno spettacolo di un intensità mai vista, tellurico, ancestrale, quasi un rito tribale, o se vogliamo esagerare satanico o massonico. Erotico ma non nel senso fisico e sessuale del termine (tutti e due i ballerini erano coperti solo dalla vita in giù), ma in un modo subconscio e profondamente psicologico ed affascinante. In alcuni frangenti sono rimasto talmente assorbito dai movimenti e dalla musica, che mi sembrava di essere dentro a un video dei Tool.
La fine è stata come l'inizio. Le luci si sono accese e tutti gli "attori" sono rimasti in scena come li avevamo trovati all'inizio, immobili. Come se la performance vivesse di vita propria a prescindere dalla presenza del pubblico. 

foto di Roberto Poli


Da questo spettacolo sono uscito con la convinzione che la musica dal vivo, in questo caso il post-hc dei DOAK è un partner perfetto per la danza contemporanea e viceversa. Sono uscito da lì chiedendomi insistentemente "Ma perché queste cose non accadono più spesso? Perché le band e i coreografi, due mondi apparentemente lontanissimi ma in realtà molto vicini, non collaborano più spesso per creare spettacoli come questo?"
Spero che in futuro ci sia presto la possibilità di rivedere questo spettacolo (e nel caso non perdetelo per niente al mondo), o di vederne altri del genere, perché credo senza alcun dubbio, che siano la forma di espressione più completa che esista. 
Speriamo che sia il preludio per il fiorire di una "nuova" contaminazione fra queste arti.






25 febbraio 2014

In occasione dello showcase in Santeria a Milano, per annunciare il ritorno degli Estra e le quattro date che faranno ad aprile (11/4 Treviso, 16/4 Milano, 17/4 Firenze, 23/4 Roma) ho raggiunto Giulio e Abe per un intervista che si è trasformata in una lunga chiaccherata molto interessante, ricca di spunti e di rivelazioni. Si è parlato del futuro della band, ma anche del loro passato, e si è discusso di tante cose come ad esempio la differenza fra la situazione musicale di oggi e del periodo in cui gli Estra erano in piena attività. 

(Avendo poco tempo a disposizione l'intervista è stata impostata come una mini conferenza stampa e insieme a me c'era Raffaele Concollato di Indie-roccia. In rosso le mie domande e commenti, le risposte di Giulio con carattere normale e in corsivo quelle di Abe, in blu alcune domande di Raffaele)



Partiamo dalla domanda più semplice, qual è stato il motivo che vi ha spinto a ritrovarvi e a tornare a suonare insieme?

Non per i soldi e neanche per nostalgia. La premessa è che noi siamo talmente scellerati che non ci siamo mai sciolti, tant’è che non si può parlare nemmeno di reunion. Siamo semplicemente sbadati, dieci anni fa ci siamo dimenticati di salutare.

Avevate altro da fare...

Eravamo in frigorifero.... (ridiamo, ndr)

L’anno scorso ci siamo ritrovati per la prima volta tutti e quattro insieme attorno a un tavolo e abbiamo detto “Forse è il caso di farlo questo saluto dieci anni dopo”. E così è, perché in effetti  l’ultimo concerto degli Estra si è tenuto nell’autunno del 2004, per l’ultima tournée che era legata all’uscita del doppio live.
E quindi eccoci qua.
In realtà penso che senza scomodare parole brutte come entusiasmo, energia ecc, abbiamo voglia. Io personalmente sono ormai dieci anni che non prendo in mano una chitarra elettrica, non faccio parte di una band.

Per me è come ricominciare da capo, io in questi dieci anni sono stato un eremita musicalmente parlando.

Quindi dopo gli Estra non hai più fatto nient’altro?

No, praticamente no, e questo mi fa molto bene e credo faccia bene anche al gruppo. Perché abbiamo ritrovato la “giovinezza”, c’è tanta voglia, anche di riprendere in mano tutto e di reinventarsi.

Si tratterà solo di questi quattro concerti o c’è in programma anche altro?

L’idea è di fare anche un tour estivo, quindi non saranno quattro le date, sono quattro nei club, faremo anche qualche festival, e poi si pone la tua domanda. Nel senso che è tutta un’incognita, sia come staremo noi, sia quanto ci divertiremo e anche quanta energia riceveremo. Per cui diciamo che non ci poniamo limiti, la cosa è sincera, nasce solo per questo motivo.

Quindi non ci sono programmi…

Non ci sono programmi e addirittura i pochi inediti che proporremo non li pubblichiamo neanche su un supporto fisico. Per cui non è sicuramente un’operazione di business, è veramente pura voglia e desiderio di tornare in pista.
Poi i segnali sono molto confortanti perché a me capita di girare l’Italia e quasi in ogni piazza in cui vado sento questa voglia, quest’affetto. Che tra l’altro è davvero sorprendente, perché non abbiamo veramente mai più fatto parlare di noi, è molto bello.

I vostri pezzi saranno in parte riarrangiati oppure preferirete riportarli alla luce così com’erano?

Una delle prime cose che ci siamo detti è stata “Non diventiamo la cover band degli Estra”, per cui non ci siamo posti il problema di ritrovare esattamente quella chimica o quel suono. Quindi credo ci sarà qualche piccola o grande sorpresa, ci siamo presi il lusso di reinterpretarci. Dieci anni dopo, abbiamo tutti più di quarantanni, ognuno di noi ha fatto il suo percorso…

Avete anche una visione diversa…

Esatto, che sia solo vitale o artistico o esistenziale è ovvio che sei un’altra persona. Tra l’altro per noi è sempre stato programmatico questo, il primo disco si chiama Metamorfosi, il secondo Alterazioni, l’unica fede che ci siamo concessi è quella di rimanere fedeli a noi stessi, cioè fedeli nel cambiamento e penso che questo ci accompagnerà tantissimo oggi più che mai dato che siamo altri, siamo “alterati”…

(sulla parola "alterati" arrivano le birre che avevamo chiesto...)

Anzi, stavo dicendo che in questi concerti ci sarà un quinto elemento, un polistrumentista che ci aiuterà, secondo me non a fare chissà quali voli, ma proprio a dare il suono che abbiamo noi in testa e nel cuore oggi. Ma anche una chitarra in più.

Quindi saranno abbastanza rivisitate le canzoni…

Alcuni sì, altri come per esempio Miele secondo me è così, è nata così e così morirà.



Com’è stato riprenderle in mano dopo dieci anni, che sensazioni avete avuto? A me è capitato di ritrovarmi con un vecchio gruppo e risuonare i pezzi e mi è sembrato un po’ strano, per voi com’è stato?

Come dicevo prima è come ricominciare da zero. Sì è vero c’è la canzone c’è la struttura, ma ci siamo trovati veramente a reinventare tutto.

Sì lo spirito è proprio non fare la cover band, non per forza ritrovare quella versione, ma risuonarla come la suoneremmo oggi

Quindi comunque è una cosa molto stimolante, non è solo nostalgia, ma una cosa nuova.

Voglia di renderle anche più attuali forse?


Più attuali per come siamo noi, non perché stiamo inseguendo una contemporaneità a tutti i costi.
Abbiamo anche un piccolo vantaggio perché avendo sempre avuto più o meno un sound molto scarno, mi sembra che le canzoni non siano invecchiate in maggior parte. Ci sono alcuni pezzi che io non scriverei più, ma questo fa parte di me, ma a livello di proposta e quindi di suono quello che ci ha stupito in questo ritrovarci, è il fatto che tutto sommato il nostro suono è ancora attuale. Questo può aprire molti dibattiti, cioè è il rock che non va da nessuna parte o noi eravamo in anticipo o…

Nel periodo in cui eravate in attività c’era tanto fermento intorno al rock,  cosa che poi è svanita negli anni successivi, in questo momento c’è un movimento molto ampio per quello che riguarda le band indie, voi avete sentito qualcosa, avete avvertito questa cosa oppure no?

Io assolutamente sì, continuo a essere curioso e ho anche la fortuna che essendo spesso in giro per l’Italia, alla fine degli spettacoli spesso c’è qualcuno che mi regala dei dischi e trovo anche il tempo di ascoltarli. Ci sono un sacco di cose interessanti, proprio tante. Altro discorso è se queste cose riescono ad avere un perso, se riescono a trovare spazio. 
Noi abbiamo avuto qualche (non tante) fortuna sotto quel punto di vista, perché siamo arrivati in un momento in cui anche nell’industria, forse grazie ai Nirvana prima e in Italia ai nomi che sapete, come ad esempio i CSI ma anche altri molto più di massa, c’era questa idea che anche il rock potesse arrivare al grande pubblico. 
Per cui evidentemente abbiamo beneficiato di un momento di quel tipo. Poi dopo è arrivato quello che sappiamo in termini di crisi dell’industria e quindi, a maggior ragione, chi ha un certo tipo di suono, un certo tipo di proposta fa ancora più fatica degli altri.
Tant’è vero che in realtà oggi a livello di grande proposta il suono come il nostro non c’è più. 
Potrei fare dei nomi di cose bellissime che ci sono in giro in questo momento in Italia, ma altro discorso è quanto riescono ad arrivare alle orecchie di chi magari sarebbe interessato, ma se non ha la curiosità di andarselo a cercare personalmente, non lo incontrerà mai, no? 
Mentre c’erano delle band insieme a noi che riuscivano comunque ad avere una chance di farsi vedere o di farsi sentire, questa è un po’ la differenza.
Poi il prezzo che si paga a lavorare con l’industria lo conosciamo anche quello, e sarebbe un altro lungo discorso. Però c’è tutto dentro questo discorso, cioè la bellezza di fare la musica che vuoi fare e la possibilità di farla sentire. Ma per farla sentire devi anche combattere tutti i giorni con chi vorrebbe che tu facessi cose più fruibili.
E gli Estra conoscono anche questo, forse anche più di altre band come noi, perché noi eravamo con una major tra l’altro. Altre band erano indipendenti anche nel senso tecnico. Noi facemmo una scelta diversa per la quale abbiamo dovuto conquistarci più di altri la credibilità, proprio perché non venivamo da una super casa di lusso indipendente.

Volevo riallacciarmi a questa cosa che hai detto, io mi ricordo che quando è uscito Tunnel Supermarket, sembrava un po’ il disco per allargare gli orizzonti, per arrivare a più persone. Poi forse non ha dato il risultato che sperava sia la major che probabilmente anche voi, e a causa di questo dopo si è rotto un po' qualcosa. E’ stato questo che poi vi ha spinto a lasciare in frigorifero il progetto oppure altro?

C’è da dire una cosa, Abe ricorda spesso un nostro incontro con Steve Wynn, quando noi gli dicemmo che noi eravamo già insieme da dieci anni e ci trovavamo tutti i giorni, o comunque un giorno sì e un giorno no, ed è così che fai una band, che fai un suono.... 
C’è da dire che in quel momento, confesso questa cosa, mentre lavoravamo alla scrittura di Tunnel Supermarket, per la prima volta in dieci anni, gli Estra non erano più insieme rispetto all’obiettivo finale, era la prima volta in cui forse ciascuno di noi avrebbe fatto un disco diverso. 
Mentre fino a Nordest Cowboy eravamo tutti convinti che l’unica cosa che dovevamo fare in quel momento era quella lì. Quindi Tunnel secondo me è già il risultato di un qualcosa che c’era dentro la band. 
Se ci aggiungi a questo le pressioni che avevamo all’esterno, sarebbe un discorso veramente lungo, ma purtroppo io mi ricordo tutto… Intanto era successo che i CSI erano andati al n.1 in classifica, i Subsonica avevano vinto Sanremo praticamente, allora improvvisamente c’era questo fottimento per cui chiunque venisse dall’indie avrebbe un giorno potuto diventare Tutti i miei Sbagli dei  Subsonica o Forma e Sostanza dei CSI e questo è stato un fottimento per tutti, tant’è vero che da quel momento in poi è impazzito tutto e non si è più capito nulla. 
Noi siamo parte di quella confusione in quel momento. Rivendico però il fatto che Tunnel Supermarket era un disco idealmente molto pensato. Cioè il titolo era proprio quello, lontanamente era Ok Computer, cioè “Ok siamo nel supermarket”, ma non solo noi quattro, tutti. L’idea era quindi quella di riuscire a dare un suono che partendo sempre da chitarra basso e batteria potesse darti il senso di questo fottimento, ma il disco non fu compreso affatto, causa anche una cover che qualcuno si ricorda. 
Ma l’operazione non fu compresa, perché noi eravamo Alterazioni, il nostro zoccolo duro non capì che era un’altra faccia della stessa medaglia, era semplicemente un arricchire lo stesso tipo di proposta.


(questa è la cover a cui fa riferimento Giulio)


Sì però non hai finito il discorso di Steve Wynn (ride ndr), che disse che le band hanno una vita fisiologica, di credo sette anni...

Meno, meno…

E quindi dieci anni erano già troppi per lui.

Lui diceva che era impossibile, come fate, dopo tre/quattro dischi, dopo sei anni, se una band è composta di quattro elementi è fisiologico che esploda in un’altra direzione...

Io tra l’altro mi ricordo che nel periodo in cui abbiamo smesso, si era guastato molto tutto l’ambiente del sottobosco musicale italiano. Erano i primi anni in cui internet veniva usato molto dalle band per commentare quello che facevano le altre band. Invece di sostenersi tutti cominciavano a darsi mazzate sulle ginocchia. Questo un po’ ci aveva anche infastidito e insieme a tutte le altre cose ci ha fatto dire “lasciamo un po’perdere”.

Mi ricordo i Marlene che venivano appunto falcidiati…

Si, hanno combattuto parecchio contro quel problema…

Io e Cristiano adottamo due linee opposte, cioè Cristiano si mise a rispondere ad ognuno io invece lasciai perdere, cosa che peraltro faccio tutt’ora.

Penso che ad un certo punto della carriera di una band lo zoccolo duro dei fans diventi non dico un problema, ma una cosa che ti crea problemi quando tu cerchi di andare verso un’altra direzione…

Non è disposta ad accettare il cambiamento…

E invece c’è gente che ti vuole sempre uguale, che poi forse è il problema che è venuto fuori quando è uscito Tunnel  Supermarket


Sì sì, è proprio così. Io speravo che avendo dichiarato da subito la metamorfosi (fa riferimento al loro primo disco, ndr), questo fosse un patto no? Siamo sempre noi e tutte le volte faremo un disco diverso e così abbiamo fatto, perché non abbiamo mai fatto un disco uguale all’altro.

Il fan vuole sempre essere ventenne e sentire sempre le stesse cose.

Ma infatti quando prima dicevo, noi non abbiamo nostalgia… sicuramente il fan è uno che ha sempre nostalgia, della prima volta, del primo disco, della prima volta che ti ha visto, della prima volta che si è innamorato di una tua canzone. 
Però se un artista è un artista ha il diritto/dovere di rinnovarsi. Poi anche lì ci sono artisti che per tutta la vita fanno lo stesso quadro, arstisti che invece tutti gli anni fanno una nuova mostra, noi siamo sempre stati del secondo tipo. 
E tra l’altro il mio percorso personale credo lo dimostri ancora di più, da lì in poi ho fatto talmente tante cose che è come andarsi a cercare continuamente in un altro posto. Finché ti ritrovi però, attenzione, non fare la qualunque, fare cose che ritieni necessarie anche se apparentemente magari sei “sconsigliato”. 
Che poi c’è anche un fatto di business che è terrificante, questo “dover funzionare” è la morte di tutto. Eppure ci fai i conti perché essendo un mestiere ci devi fare i conti. Non siamo elettrodomestici diceva un nostro amico ed è così, invece DEVI funzionare, perché quando qualcuno schiaccia il bottone e non funzioni più, basta, sei a casa.




Invece a proposito di nostalgia, mi ricordo che Metamorfosi me l’ha passato un mio compagno di classe in cassetta. (sulla parola cassetta tutti e due spalancano gli occhi, ndr)

(Giulio e Abe) Ah sì c’erano ancora le cassette…

Sì, che detto adesso sembra assurdo.

Così ci fai sentire vecchi però...

Ma anche io…

Ma cassetta originale intendi (sorride, ndr)

Sì assolutamente originale… che poi ho duplicato però.

Aaaah (ridiamo, ndr)

Volevo chiedervi, se gli Estra nascessero adesso sarebbe più semplice per voi raggiungere il pubblico o secondo voi era più diretto e semplice prima.

Qui entriamo nel dibattito sulla rete...

Sì forse adesso i mezzi sono più “democratici”

Più che sulla rete, io intendo sia come facilità che come qualità.

Il periodo sicuramente è molto diverso da quello in cui siamo nati…

E’ cambiato tutto, è imparagonabile…

Forse all’epoca c’era molta più attenzione e disponibilità…

All’epoca quel minimo di distanza che c’era ancora, questa cosa che l’artista era non rintracciabile comunque creava un interesse superiore. 
Il nostro primo disco si è imposto con cinque recensioni sulle riviste specializzate. 
Eravamo nel ’95, ’96, è stata l’ultima volta in cui le riviste specializzate hanno avuto un peso, attenzione è cambiato tutto anche da quel punto di vista. Quella volta lì mi ricordo benissima la recensione di Giancarlo Susanna su Il Mucchio Selvaggio che parlava di un piccolo capolavoro, quello è chiaro che l’interesse lo crea. Non so se poi crei anche l’acquisto, ma l’interesse, la curiosità li crea sicuramente. 
Oggi non è così perché tutti dicono tutto, tutti sanno tutto, nel giro di un secondo i primi trenta secondi di una canzone vengono ascoltati da tutti poi passiamo a un altro. Poi esistono delle cose virali Bellissime e spontanee ma qui appunto entriamo nel dibattito sulla rete, per cui io non credo che oggi sarebbe così.
Noi in realtà ci siamo conquistati quello che ci siamo conquistati con i live perché molto prima di firmare un contratto vero, abbiamo vinto ogni concorso in cui abbiamo suonato. Da lì qualcuno ci richiamava a suonare nel locale vicino, ma tutto senza contratto, con due autoproduzioni in cassetta, e abbiamo venduto un sacco di cassette tra l’altro (ridono, ndr). 
Quindi parliamo di un’epoca completamente diversa. Però, credo che Abe me lo confermerà, che noi la credibilità ce la siamo conquistata più sul campo che sulla comunicazione.

Quindi secondo voi da quel punto di vista sarebbe la stessa cosa anche oggi forse?

Forse sì, il problema è che mi dicono che i locali fanno più che altro cover band, che non pagano… 
Devi mettere insieme tanti elementi, probabilmente rispetto all’impatto che potremmo avere oggi su chi viene nel locale probabilmente sarebbe la stessa cosa. 
Ma mi dicono che anche i locali sono in crisi…
In quel periodo c’era la curiosità, anche noi eravamo i primi che nei week end andavamo in giro per locali a sentire. Veniva una band che so a Brescia? Wow, andiamo a vedere questi cosa fanno. 
Oggi non lo so, perché appunto è facile a casa avere le informazioni e quindi magari uno dice “va be…”. 

C’è anche questo, non credo che siamo qui per parlare di questo, ma due anni fa io ho fatto un disco che sull’on line è stato un trionfo, nelle prime tre settimane non ho mai avuto così tanti riscontri, poi però abbiamo fatto quattro concerti di presentazione e la gente non c’era, lo dico senza nessun problema. Che poi sì c’era, ma non certo quella che mi aspettavo rispetto al "popo" di recensioni, di osanna che c’erano stati. E la gente poi ti scrive “eh non potevo, avevo altro da fare, tanto il disco l’ho già sentito”, l’ho sentito per altro, non l’ho comprato.

Stessa cosa per il teatro, hai dovuto iniziare da zero, cioè hai iniziato con poco pubblico e poi la cosa è cresciuta o hai già trovato un ambiente diverso, curioso?

Il teatro è diverso quando non porti la tua cosa a teatro, ma è il teatro che ti inserisce in una stagione, è molto diverso, sono proprio due mondi completamente diversi. Certo, hai tutto il peso dell”absolute beginner”, ma sei in una stagione, per cui come dire, è un’offerta culturale che il teatro fa al proprio pubblico. Poi devi riempirlo il teatro eh, ma è diverso, perché comunque c’è qualcuno che frequenta quel teatro, che si fida della proposta del teatro.
Come quando i locali sapevano che dicevano “facciamo, che so, i La Crus “, tu dicevi “Chi sono i La Crus?”, però vado perché se me lo dice il mio locale di riferimento vado a sentire cos’è. E’ un po’ quella filosofia lì. Sempre meno eh, ma ci sono ancora operatori teatrali che fanno quel tipo di proposte.

Anche perché poi i teatri vivono molto sugli abbonati, quindi se gli abbonati si accorgono che la proposta non è più valida…

Esattamente, per cui diciamo che la cosa davvero diversa è quella, c’è ancora la possibilità di proporre, mentre mi sembra che nella musica, nei grossi locali si viva della stessa legge, che è una cosa che non sopporto, cioè che anche il rock che nasce proprio come contraddizione, nasce proprio con controcultura, come controproposta, viva poi delle stesse leggi che governano il nostro fottuto mondo e cioè se una cosa funziona te la propongo, ma se non abbiamo la garanzia che vengano ottocento paganti, sai non ce lo possiamo permettere.
E così è la fine di tutto, perché è così che si finisce a fare la coverband dei Depeche Mode, perché almeno lì la gente balla, gode.

C’è una scelta che avete fatto nel passato che a pensarci adesso magari non vi avrebbe portato a questo periodo di pausa e che invece avrebbe potuto farvi diventare gli Afterhours.

Mah io non ho rimpianti, non so… (indica Abe, ndr)

Direi di no, la refrigerazione è stata fisiologica, non è stata per scelte sbagliate, ci mancherebbe. Poi per carità c’era sempre da mettere d’accordo quattro teste, cinque anzi, per cui è ovvio che qualcuno era scontento magari di piccole cose ma in generale…

No anzi, se penso a quello che abbiamo sfiorato prima, il discorso del rapporto con la grossa industria, devo dire che siamo stati molto coraggiosi. Abbiamo sempre fatto esattamente il disco che volevamo fare, nonostante tutti i pareri sconcertati di chi ci li produceva.

Forse qualche volta abbiamo avuto un po’ paura di osare.

Certo quando hai addosso due direttori generali che ti dicono “Oh stavolta bisogna vendere cinquanta mila copie eh”...

Sì non sei serenissimo poi…

Quando sei in studio a registrare e ti dicono “mi raccomando la voce che si senta bene”, e a te piacerebbe sentire che so di più la batteria e ti dicono “no no..”, sono esempi così per dire, piccole cose, però forse a volte saremmo potuti essere più coraggiosi.

Però è vero che gli Estra sono stati anche tra i pochi che hanno sempre fatto delle canzoni, quasi tutti i nostri dischi erano piuttosto formali, la sperimentazione era dentro la forma canzone. 
Per cui, come dicevo prima, in realtà ci sono delle cose che oggi non farei, però in quel momento io ho sempre fatto il disco che volevo fare. 
Come diceva un mio amico, Nordest Cowboys è il più bel disco degli Estra nonostante che Alterazione sia il più bel disco degli Estra, perché in Nordest c’era proprio l’equilibrio tra la produzione, tra quello che una band con le proprie forze può fare in più oltre ai tre strumenti di base e il live, cioè la band che sta suonando in uno studio.

In Nordest c’era anche una ricerca di qualcosa di diverso rispetto ai dischi precedenti, forse era quello che andava di più verso il “cantautorato”, anche se questa definizione va presa con le pinze, comunque verso quella direzioni lì…

Perché inizia con Signor Jones… (ridiamo, ndr)

No, no, però mi sembra quello più strutturato…

C’era anche stato un salto qualitativo notevole dalla scelta del produttore, Jim Wilson, e allo studio che erano più professionali e importanti rispetto a quelli precedenti, per cui c’è anche un impatto sonoro diverso.

Ma invece i pezzi nuovi…?

Non ve li facciamo sentire qui eh (ridiamo ndr)

Più o meno che direzione hanno preso? Sono recenti?

Sì sì, di questi ultimi mesi in cui ci siamo trovati a suonare, nascono proprio in sala prove da improvvisazione da riff…

Tra l’altro a dimostrazione che avevamo molta voglia di reinventarci e ritrovarci, siamo partiti direttamente con dei pezzi nuovi, poi ad un certo punto ci siamo detti, però se fra un paio di mesi dobbiamo fare i concerti forse è meglio che ripassiamo (ride, ndr), quindi sono totalmente contemporanei a noi.

Il fatto che abbiate iniziato subito con dei pezzi nuovi significa che la “creatura” è viva…

Sì, forse la cosa vera era quella di non essere la cover band  di noi stessi, mi sembra la cosa più importante, perché il rischio era talmente evidente… Dieci anni dopo riprendi in mano i pezzi e “come faceva?” “no, no non era  proprio così…” e dopo ti incarti, non so come dire.

Il tempo a nostra disposizione è finito, ci salutiamo e Giulio e Abe scendono a fare il soundcheck per lo showcase, che vi racconterò...