5 dicembre 2015


Cosa aspettarsi da "A Very Murray Christmas"?
Da superfan di Bill Murray non ho aspettato un secondo per vedere il film (che poi in realtà è un corto) di Bill Murray prodotto da Netflix. L'ho visto senza avere la minima idea di che cosa fosse, e quando c'è di mezzo Bill Murray c'è da aspettarsi di tutto.
Questa volta ha stupito ancora, con la cosa più semplice del mondo. Cos'è il Natale? Facile, le canzoni di Natale.
I primi cinque minuti di film vien voglia di passare ad altro, sono sincero, non si capisce cosa sia e dove voglia andare a parare, ma quando ci si abitua all'idea che non è altro che una carrellata di canzoni di natale legate da una trama ridotta a pochi secondi, A Very Murray Christmas diventa una delle cose più natalizie di tutti i tempi.
La storia è semplice quanto minima: Bill Murray deve condurre uno show per Natale, ma New York è completamente bloccata dalla neve e gli ospiti non ci sono. Da questo pretesto si sviluppa una carrellata di canzoni di Natale, che per quanto detto così possa sembrare una cosa pallosissima alla fine Bill riesce a tirare fuori, non so come, un film che scalda il cuore.
Gli ospiti lo aiutano molto, per citarne un paio, i Phoenix, George Clooney e Miley Cyrus che stranamente non lecca nulla. Anzi, se ancora ci fossero dubbi, fa capire quanto sia maledettamente brava, facendoti rizzare i peli con una Silent Night da paura, ve lo dice uno che non ha mai sopportato molto le canzoni di Natale.
A Very Murray Christmas è un film da mandare in loop dalla vigilia al giorno di Natale, per sentire alcune fra le più belle e meglio eseguite canzoni di Natale di sempre. L'essenza sta tutta nel titolo, Bill Murray vi augura un Natale alla sua maniera, e mai augurio è stato più sincero e caldo come il suo, sembrerà quasi di averlo in casa a pranzare o a cenare con voi.
Dimenticavo, ad accompagnare tutte le canzoni c'è Paul Shaffer al piano, proprio lui, che, nel caso non vi foste accorti durante le migliaia di puntate di Letterman, è un musicista immenso.

20 novembre 2015


Nel pomeriggio di ieri vengo a conoscenza del fatto che a Macao (Milano) proiettano Ellis, un corto di JR con Robert De Niro e colonna sonora di Woodkid e Nils Frahm.
Pur non trovando nessuno che mi accompagni decido di andare comunque, perché essendo un corto potrebbe essere l'unica possibilità di vederlo proiettato in una sala (non una sala professionale ma sempre meglio del televisore di casa).
Ammetto di essere stato attratto più dalla colonna sonora che dal film in sé, che comunque sapevo essere un corto di gran livello.
Sì è rivelata una scelta giusta, perché Ellis è effettivamente un corto di grande intensità.
Il tema, come si può dedurre dal titolo è quello dell'immigrazione, tutto il corto è girato a Ellis Island, all'interno delle stanze che videro transitare circa quattro milioni di italiani nel corso degli anni in cui l'isola era tappa obbligata per chi voleva approdare in America.
Il film si snoda fra una fotografia che lascia senza fiato e la voce fuori campo di Robert De Niro che racconta la "sua" storia di migrante. Mentre la sua voce racconta la storia, l'attore cammina all'interno delle stanze con una valigia, interpretando una sorta di ritorno in un luogo pieno di ricordi che lo hanno segnato. All'esterno è tutto ricoperto di uno spesso strato di neve e il fiato all'interno dell'edificio, si condensa in spesse nuvole. Per tutto il film il Robert attore non parla mai, se non una piccola, commovente, frase che è in sostanza il fulcro di tutto il film.
Ci sono due sequenze che lasciano letteralmente senza fiato: la prima è quando De Niro entra in una stanza molto ampia, sul cui pavimento sono adagiate migliaia di foto di persone, i volti dei migranti, di ogni razza e di ogni colore, la seconda è una sequenza in bianco e nero, molto Woodkidiana, durante la quale esce all'esterno e si incammina nella neve verso il mare grigio.
Visto il tema e il periodo forse un approccio un po' più deciso avrebbe colpito di più,  ma la scelta è quella di un lavoro più concettuale che di denuncia, qualcosa che si deposita con delicatezza nella coscienza e rimane lì per crescere. Del resto basta un immagine di Manhattan ripresa da Ellis Island per capire la sofferenza e la frustrazione dei migranti bloccati a un passo da una nuova vita, lì di fronte a loro, vicinissima a patto di passare i controlli sull'isola, altrimenti irraggiungibile.
In tutto questo la colonna sonora è un elemento determinante per l'emotività che il film vuole trasmettere e inaugura una collaborazione che, visti i risultati, mi auguro possa continuare a lungo.




29 aprile 2015



Quello italiano è un popolo abituato a non decidere, a partire dalla prima guerra mondiale nella sua storia l’Italia è sempre rimasta a guardare, per decidere una volta delineato il quadro, oppure non decidere affatto.

La situazione interna non è mai stata molto diversa. Il voto è sempre stato un voto dato ciecamente al partito di appartenenza, chi votata PCI ha sempre votato PCI, chi votava DC ha sempre votato DC. 
Anche dopo la Prima Repubblica, la situazione non è cambiata, l’italiano o votava Berlusconi o votava chiunque piuttosto di non far vincere Berlusconi, con minimi movimenti verso uno o verso l'altro schieramento. Ma il voto fino ad oggi è sempre stato una mezza scelta. Perché in fondo si sapeva che chi saliva al governo non avrebbe mai fatto delle scelte nette, non avrebbe mai dato quella svolta nelle riforme per preparare il Paese al futuro. A nessuno interessava, perché fare scelte significa inevitabilmente scontentare qualcuno, e i partiti non hanno mai voluto scontentare nessuno.

In fondo neanche a noi importava che il governo portasse dei cambiamenti, tutti stavano bene, tutti mangiavano (nel senso negativo del termine), non c’era selezione naturale, l’importante era vivacchiare, tenersi il proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, senza fare il minimo sforzo in più del necessario, o tenere attiva la propria azienda senza la fatica di immaginare nuovi mercati e nuovi investimenti, senza guardare al domani, ed evadendo le tasse appena possibile.

Ora non ce n’è più per nessuno e siamo costretti a decidere, ad agire. Ma questa cosa ci fa una paura fottuta, perché bisogna rischiare, bisogna immaginare un futuro che non è già scritto, bisogna inventarsi qualcosa ed essere audaci, propositivi, attivi, intelligenti e pronti a cogliere il minimo cambiamento. Così si scopre che non tutti sono in grado, non tutti sono bravi, la selezione naturale fa il suo corso, la meritocrazia inizia a farsi largo, ma non perché viene calata dall’alto, ma perché adesso siamo soli, non c’è più il datore di lavoro al quale leccare il culo per tutta la vita, non ci sono più tutte quelle macroaziende parastatali dove ci si rifugiava una volta, magari con la raccomandazione dell'amico o del parente. Se sei bravo ce la fai, se non sei bravo stai a casa.

In tutto questo quadro di incertezza si inserisce il lavoro del governo, il primo in vent’anni che applica una semplice regola della democrazia: la maggioranza vince (e decide).
Fino ad ora c’è stata un'interpretazione tossica della democrazia, che faceva un gran comodo a tutti: la maggioranza vince, ma la vittoria è interpretabile a proprio piacimento e se la minoranza dice no, allora non facciamo nulla per non scontentare nessuno.

Se invece la maggioranza vince allora bisogna decidere, bisogna fare, bisogna cambiare le cose per impostare il futuro, non ha scuse, e se sbaglia ne pagherà le conseguenze. Fino ad oggi chi ha sbagliato è sempre stato rieletto, in un modo o nell’altro, con un nome nuovo o con un nuovo simbolo. 
Perché oggi non si può più fare a meno di pensare al domani, siamo già indietro di quarant’anni e ne stiamo pagando le conseguenze da almeno otto. Il futuro arriva molto più velocemente di prima e se non si prepara il campo si viene spazzati via.

L’italiano a questo punto è costretto a farsi un’idea anche dopo le elezioni, a stare attento alla vita politica perché si fanno cose che incidono pesantemente sul suo futuro, ma non è abituato e quindi fa fatica. Fa fatica a farsi un’idea partendo dai fatti e allora è più comodo affidarsi agli slogan, al qualunquismo, alle frasi fatte. È più comodo gridare all’attacco alla democrazia, al fascismo piuttosto che analizzare i pro e i contro di una legge. 
E’ più comodo ripetere a pappagallo le dichiarazioni spot di Brunetta o di Salvini, o credere alla minoranza del PD, quella che in vent’anni non ha mai preso una decisione e non ha mai risposto a una domanda, piuttosto che andare a guardare cosa c’è dentro la legge.

 Perché poi si torna sempre lì, alla paura di decidere. Perché questa legge elettorale è la prima fatta per dare la possibilità di decidere, di agire, per far sì che la maggioranza vinca e la minoranza perda. Semplice. 
Questo ai partiti e alle persone che hanno deciso le sorti del paese e hanno causato crisi di governo con il 3% dei voti fa molta paura. Fa molta paura abbandonare quell'idea tossica di democrazia, per la quale il 3% degli eletti possa mandare a monte quello che ha deciso il 30 o 40%.

Inoltre con questa legge elettorale non si può più andare nell’urna mettendo una croce a caso, o votando lo stesso partito che hai votato per trent’anni perché tanto poi non combinano nulla. 
Bisogna andare a votare con cognizione di causa e se non siamo in grado di farlo la colpa non può esse dell’Italicum.

Facile gridare all’attacco alla democrazia, al fascismo, facile seguire la frustrazione di chi per 20 anni è stato a capo di un partito non considerando minimamente la minoranza al suo interno e ora si trova a fare parte proprio di quella minoranza, e dei giovani vecchi pronti per saltare sul carro del vincitore che si sono ritrovati invece a piedi a minacciare dimissioni.

Poi ci sono quelli che dicono che in questo momento ci sono cose più importanti della legge elettorale. C’è sempre qualcosa di più importante rispetto a quello che stai facendo, io sono qui a scrivere, voi siete a casa o al lavoro, ma là fuori ci sono delle vite da salvare, che fate ancora lì?

Una legge che viene rimandata dal 2006, la cui alternativa al momento è stata decisa da un tribunale, che da la possibilità a chi vince di poter finalmente decidere e agire, non vedo cosa ci sia di più importante in un paese democratico.

Grazie a Bersani, Vendola, D’Alema, Bindi (mi vengono i brividi a mettere questi nomi in fila) abbiamo vissuto nell’incubo di Berlusconi, con la paura assurda e assolutamente fuori da ogni realtà possibile, della deriva autoritaria e dittatoriale, con lo scopo di portare più voti alla sinistra. Scopo mai raggiunto da loro, come si è visto. 

Un quadro sintetico e spietato della situazione attuale da parte di Francesco Costa (Il Post)




Ora si cerca di gettare la stessa ombra sull’Italicum, diffondendo la paura dell’attacco alla democrazia e della dittatura. Ieri Chiara Geloni a Otto e Mezzo sosteneva la teoria della dittatura facendo leva sul fatto che una legge elettorale come l’Italicum non c’è in nessun paese europeo. 

Partendo dal fatto che nessun paese europeo ha una storia neanche lontanamente paragonabile a quella dell’Italia, e la realtà politica italiana è indietro di una cinquantina d’anni rispetto agli altri, ma è sempre necessario fare le leggi copiando quelle degli altri paesi? 

Quello che funziona in Francia non è detto che funzioni in Italia, anzi è molto probabile che non funzioni. Oggi non basta più limitarsi a copiare e adattare le leggi degli altri, bisogna fare un passo più in là, bisogna rischiare e la fiducia posta sulla legge elettorale fa parte di questo rischio.

Hanno giocato tutti fino ad ora pensando che come al solito fosse una farsa, che poi alla fine non si sarebbe fatto nulla, poi una volta messi di fronte alle proprie responsabilità si sono sfilati ad uno a uno, prima Forza Italia, poi la minoranza PD e via via gli altri (tutti hanno partecipato attivamente alla scrittura della legge).

La tattica (palese) era votare sì nelle prime battute per poi mandare tutto all’aria e rimandare a data da destinarsi. Non è possibile che dopo le barricate dei giorni scorsi alla prima votazione sulle pregiudiziali siano diventati tutti agnellini. Renzi, come dovrebbero aver già capito (ma forse no), non è scemo e li ha messi nell’angolo.

Poi se sarà deriva autoritaria non sarà certo colpa dell’Italicum ma di quello che si voterà con l’Italicum, quindi sarà comunque colpa nostra, come sempre. Magari ci darà la possibilità di fare la prima rivoluzione nazionale e sentirci finalmente un Paese unito, ma nel caso dovesse succedere, avrete sicuramente qualcosa di più importante da fare e non sarà salvare delle vite.

A prescindere dalla validità o meno della legge, non è l'Italicum che ci fa paura, la paura di chi sta in parlamento e anche di chi si recherà alle urne poi, è che il nostro prossimo voto possa decidere veramente le sorti del nostro paese. 

20 febbraio 2015





Sono ormai settimane, mesi che penso a quale possa essere stato il mio disco del 2014, senza trovarlo. Ho scandagliato le varie classifiche che sono uscite senza trovare uno spunto che mi potesse dare una mano. Perché in tutte queste ci sono dei grandi dischi, come quello di The War on Drugs o St. Vincent (che ci è andata vicino all’essere il mio disco dell’anno).

Però il ruolo di una classifica secondo me dovrebbe essere quello di tirare fuori cose inaspettate, oltre a quelli che oggettivamente sono stati i dischi migliori, bisognerebbe andare a cercare indietro, scavare in quei dischi dei quali si è parlato poco, o di cui non si è parlato affatto, perché col tempo la percezione di un disco può essere cambiata. Che senso ha fare mille classifiche se poi sono tutte identiche, cambiano solo le posizioni in cui sono messi i dischi?

Mi pare inoltre che il successo di pubblico in alcuni casi sia una discriminante per l’ingresso in graduatoria. C’è stato un flame pazzesco sulla classifica di Rolling Stone, accusato di aver messo in prima posizione gli U2 e in seconda Bruce Springsteen. Il primo posto è esagerato, sicuramente, ma anche se avessero fatto il disco più bello della storia della musica, non sarebbe stato comunque inserito in nessuna delle classifiche delle testate meno popolari (inteso come target).

Quella di RS è stata l’unica dove ho trovato cose più popolari, mainstream, per quanto questo termine non valga nulla ormai, mischiate a cose più nascoste e meno conosciute. Ho trovato molti più spunti interessanti nella sua che in molte altre che hanno messo ai primi posti Kozelek, the War on Drugs e St. Vincent.

Tornando a me, ho cercato di capire il perché di questa difficoltà a trovare il disco dell’anno. La prima potrebbero essere le collaborazioni con Rumore e DIYSCO (a proposito avete già dato un occhio al sito? Ci sono un sacco di band interessanti). Oltre a qualche recensione e report che scrivo saltuariamente, le rubriche che tengo, GigLife sul sito e In Arrivo sul cartaceo per Rumore e Banquet per DIYSCO, mi portano ad ascoltare moltissima roba.

Per quel che riguarda Rumore, pur essendo una rubrica che segnala i live in arrivo, non è così banale come sembra. Lo scopo che mi sono prefissato è quello di dare un motivo, di spiegare il perché un live è segnalato, perché bisogna andarlo a vedere, e segnalare solo quelli che vale la pena vedere. Così per ogni concerto o tour, a meno che non conosca già la band o l’artista, devo ascoltare, informarmi, valutare.

Questo mi ha fatto scoprire un sacco di cose nuove, ultimi i Lonely the Brave che hanno fatto un disco che fa scoppiare il cuore (che ho scoperto troppo tardi, ma sarebbe stato in ballottaggio), ma per forza di cose ha frammentato un po’ i miei ascolti.
Anche per Banquet su DIYSCO, occupandomi di etichette e tutto quello che fornisce e produce musica, per ogni puntata vengo a contatto con una nuova realtà che produce un tot di dischi, di band, e devo ascoltare, capire, vedere chi vale la pena segnalare nell’articolo e anche in questo caso gli ascolti si frammentano.

In ogni caso consiglio vivamente a chi inizia a scrivere di musica di tenere una rubrica che lo obblighi a venire a contatto con tante band in poco tempo, come quelle che curo io, perché ci si fa una cultura ampia e diversificata in un attimo.

Altro elemento di disturbo è stato Deezer, invenzione meravigliosa e mai più senza, ma devo ancora farci l’abitudine. Perché in qualche modo rende ancora più sfuggevole la musica, almeno per come lo uso io. E’ tutto lì a portata di mano e puoi ascoltare tutto in un secondo, senza dover cercare, senza scaricare, è lì, devi solo schiacciare play.

Prima ascoltavo un disco intero solo se mi interessava veramente, se i singoli o i pezzi che trovavo in rete mi soddisfacevano tutti, ora essendo raggiungibile senza nessuna fatica, credo di aver perso parecchio tempo quest’anno ad ascoltare dischi che poi alla fine si sono rivelati niente di che.
Roba da fessi, lo so, ma quando ti piace la musica ascoltarne il più possibile sembra il modo migliore per soddisfarne la voglia, ma il più delle volte non è così. Almeno per me.

Nel 2014 poi ho comprato molti vinili e me ne sono stati regalati, che per me sono il modo migliore per ascoltare musica (per me, ribadisco, no voglio aizzare la faida), ma pochi sono stati quelli usciti nel 2014. In ogni caso uno di quelli che ho comprato sarà un disco di cui vi parlerò.
Allora ho cambiato tattica e ho pensato, qual è il disco che ho ascoltato di più? Quali sono quelli che ho consumato?. Ecco. A volte, soprattutto chi ha a che fare spesso con la musica e ancora di più chi ne scrive, dimentichiamo che al di là di tutto c’è anche il cuore. La musica che colpisce lì è quella che ci portiamo di­etro per tutta la vita. Mi rendo conto che facendo questo discorso posso sembrare Simona Ventura a X-Factor, ma è così e lo sarà sempre e non è un aspetto da sottovalutare.

Ok l’arrangiamento geniale, il tempo che ti stupisce, il suono nuovo e la soluzione intelligente che rende la band o l’artista degno di considerazione e cool, ma ci sono un sacco di dischi che non vengono recensiti bene, o non vengono neanche considerati, che hanno dentro qualcosa che abbatte le tue difese ti conquista. La musica è anche cuore, intrattenimento, puro piacere di ascoltare una bella canzone, altrimenti saremmo solo dei medici legali che fanno autopsie ai dischi.

In un futuro inevitabilmente fatto di elettronica, nel quale le band come le abbiamo conosciute fino ad ora avranno sempre meno spazio, così come le chitarre, ho individuato due dischi e due band uscite l’anno scor­so che hanno avuto la capacità di aprirmi in due come un’accetta. Due band dove le chitarre sono l’elemento principale e il punto di forza, dove le chitarre non fanno nulla di clamoroso ma sono lì a fare quello che serve e lo fanno al massimo. Tanto che non mi capitava di stupirmi per due dischi di matrice punk (solo la matrice, perché poi sono molto diversi dal punk) da secoli.
Il primo in ordine di uscita è la mia copertina Facebook già da un po’, ma non è lì per quel motivo, anzi ci è finita piuttosto casualmente, perché volevo cambiare e non sapevo cosa mettere.



Questo è un disco che è cresciuto piano piano, al primo ascolto mi è stato quasi indifferente, ma ci ho colto una sofferenza che mi ha tenuto lì incollato. Perché la sensibilità di chi ha passato qualche brutto momento è sempre qualcosa di prezioso, una sorta di sesto senso. Quando colgo in qualcosa questa sensibilità, so che mi devo soffermare un attimo in più rispetto al resto, perché lì c’è qual­cosa che non troverò da nessun’altra parte.
Così è stato per i Nothing, ascolto dopo ascolto mi si è cucito addosso, è entrato dentro e ha iniziato a scav­are. Fino a diventare un compagno di tutti i giorni. Davvero. L’ho ascoltato ininterrottamente per non so quanto e ogni volta mi piaceva e mi piace sempre di più.



La cosa che più mi colpisce di Guilty of Everything ogni volta sono le distorsioni. Non è un disco metal o hardcore, ma le distorsioni sono così cariche che sembrano esplodere, allo stesso tempo però sono calde e liquide, le chitarre sanguinano, sono come un’abrasione sulla pelle.
In questa tempesta di rumore impastato di tristezza, la voce è un sussurro lontano, caldo, rassicurante.
I testi sono ermetici, brevi, versi di poche parole, strutturati come poesie e pesanti come macigni.

Spent summer in a well
Watching pale moons disappear
Alone
And crucifixion seems noble
When paradise is hell
Alone

Queste sono le prime parole del disco, il benvenuto:

Passare l’estate in un buco
Guardando lune pallide che scompaiono
Da solo
E la crocifissione sembra nobile
quando il paradiso è un inferno
Da solo

Le foto che accompagnano i testi nell’artwork del disco (l’artwork, il libretto, per esempio Deezer e Spotify potrebbero dare più informazioni sui dischi), non lasciano spazio all’immaginazione e alla speranza.
Get Well è quella che colpisce di più, sette versi, massimo sei parole per ognuno:

It’s easier to miss
On night as dark as this
But the black clouds
Still follow us around
There’s gotta be a place
To escape from the rain
But I can’t find it

Questo è tutto il pezzo:

E’ più facile perdersi
In notti buie come questa
Ma le nuvole nere
Ci stanno ancora inseguendo
Ci deve essere un posto
dove rifugiarsi dalla pioggia
ma non riesco a trovarlo

Di fianco una foto in primissimo piano di un braccio con laccio emostatico e sirigna conficcata nella vena con l’altra mano.

Oppure Somersault, un pezzo molto drammatico, che inizia con un accordo sospeso e la voce molto river­berata che sembra nascondersi dietro al delay della chitarra:

Outside the door
The world’s alive
I’ll stay hide on the other side
I’m spinning
Faster then the earth
I’m shining
Brighter than the star

Fuori dalla porta/ il mondo è vivo/ Io starò nascosto dalla parte opposta/ sto girando più veloce della terra/ sto brillando più luminoso di una stella. 

Di fianco una foto di un carcere.

Qui ci ricolleghiamo al discorso che facevo all’inizio, della sofferenza e quel tipo di sensibilità che ne deriva e anche al perché di questo suono particolare.
Il chitarrista e fondatore della band, Domenic Palermo, in precedenza suonava in una band hardcore, gli Horror Show, ma nel 2002 la band si deve fermare e non per un motivo banale, Domenic finisce in carcere per due anni, per un accoltellamento. Scontata la pena rimane lontano dalla musica, dove torna nel 2011 con questo progetto, incontra brandon Setta, la voce dei Nothing e danno vita a questo suono insieme a Chris Betts e Kyle Kimball batterista incredibile e fondamenta solidissime sulle quali si posa la band.

Questa è l’origine di questo disco: hardcore, carcere, brutte storie.
Su tutto questo ci si mette il sigillo di qualità della Relapse, che nonostante si occupi principalmente di metal, post-hc, e simili ha deciso di produrre questo disco, direi che ha fatto gran bene.
A proposito, Relapse quest’anno compie venticinque anni, VENTICINQUE. Anni in cui non ha mai sbagliato un colpo e durante i quali ha prodotto dischi che hanno segnato e cambiato il mio modo di ascoltare musica, e di farla anche.




Il secondo disco che ha segnato il mio anno passato invece ha avuto un approccio totalmente diverso. Fin dal primo pezzo anticipato in rete è stato subito chiaro che sarebbe stato un gran disco, così il secondo e il terzo, creando un’attesa fortissima per l’album completo. Quando è finalmente uscito, è stato subito amore. Sto parlando di Bloom & Breathe dei Gates.
Questo è un altro disco nel quale le chitarre sono assolute protagoniste, in un modo completamente diverso rispetto a Guilty of Everything. Le distorsioni sono meno invasive, preferendogli una miglior resa melodica e armonica, e le costruzioni delle trame sono molto più elaborate arrivando in alcuni casi alla perfezione architettonica.
Questo è un disco che fa alzare in piedi mentre lo si ascolta, ha sempre una certa sensibilità e una vena di tristezza ma alla fine c’è sempre dietro un desiderio di rinascita, una speranza, una voglia di andare oltre.
E’ un disco che si può definire emo, ma con all’interno molti elementi che caratterizzano il post rock, tanti delay, molti crescendo e una carica emotiva potentissima.
L’inizio è subito una gran botta, parte con un arpeggio di chitarra per poi salire in un crescendo carico di tensione e sfociare in un pezzo incredibile, un continuo saliscendi, dove si perdono i confini fra strofa e ritornello, un riff complesso ma allo stesso tempo semplice ed efficace. Subito dopo colpiscono direttamente al cuore, e lì rimangono fino alla fine del disco e anche dopo.
La ritmica non è mai banale, non c’è mai un quattro quarti semplice e lineare e questo crea tensione, come nella musica dei The National, non fa scendere mai l’attenzione.
Se per i primi due pezzi si rimane un po’ sull’attenti, con l’arrivo di Not My Blood ci si lascia completa­mente andare, è come un liquido caldo che entra nelle vene. Il coro finale “WE ONLY LIVE TO BE ALIVE” e la coda strumentale sono un momento incredibile del disco, e quando arriverete lì non ci sarà modo di tornare indietro.



Ma non c’è tempo di prendere fiato perché la brevissima Light the First Page incalza con il suo inizio in crescendo, e una linea vocale commovente che da il via ad un altro punto fondamentale del disco, con The Thing that Would Save You.
La voce è sempre sul limite del punto di rottura, fra melodie pulitissime e l’urlato melodico, riesce a trasfer­ire in modo diretto un senso di inquetudine, di tristezza, ma con all’interno anche tutta la rabbia necessaria per superarla.
Verso la fine arriva quella che secondo me dal punto di vista dei testi, inquadra perfettamente quelle sensazi­oni delle quali tutto il disco è impregnato, sto parlando di Marrow. Solo chitarra acustica e voce, è il classico pezzo che si skippa in un disco del genere, ma una frase è fondamentale:

I want the pain of loneliness in me again
I want the end I want to know where I begin

Voglio sentire il dolore della solitudine ancora dentro di me
Voglio la fine, voglio sapere da dove inizio

La bellezza di Bloom & Breathe è assoluta, ha una ricchezza melodica e armonica difficile da trovare da al­tre parti, con allo stesso tempo quell’attitudine emo-punk diretta che ti sbatte tutto in faccia senza troppi filtri senza troppe elaborazioni che poi fanno perdere la matrice della canzone.
Fa venire voglia di correre nella pioggia, piangere, ridere, disperarsi e rinascere. 


28 gennaio 2015



Prendete Antony Hegarty (and the Johnsons), mettetelo in una gabbia e tenetelo a digiuno per due mesi. Poi prendete Jonh Legend, chiudetelo in una gabbia e lasciatelo senza figa per due mesi. All'inizio del terzo mese iniziate ad avvicinare le gabbie dategli qualche giorno per studiarsi, e poi...


Quello che otterrete è Benjamin Clementine e un disco bellissimo.





(Istruzioni per l'uso: rubrica semiseria nata all'improvviso e senza futuro certo, allo scopo di sopperire al letargo invernale del blog. Sto pensando da settimane al mio miglior disco del 2014, ballottaggio a tre, appena risolverò la questione, con il consueto ritardo scriverò il post dedicato)