17 ottobre 2017



Nelle scorse settimane a Milano sono arrivati due nuovi operatori di bike sharing con bici libere e, dal momento in cui il servizio ha preso piede, è stato un fiorire di post e articoli sui modi in cui vengono lasciate queste bici. Bici sugli alberi, bici nel naviglio, bici legate a i pali, chiuse nei cortili. Sembra che tutte le bici del bike sharing siano inaccessibili.
Non fosse però, che la stragrande maggioranza delle biciclette circola liberamente e vengono utilizzate da migliaia di persone ogni giorno. Molte di queste grazie a questi servizi hanno iniziato ad muoversi in bici, creando un circolo virtuoso che con il passa parola coinvolgerà inevitabilmente altre persone.
Questa continua condivisione di fatti deprecabili riguardo al bike sharing contribuisce a disegnarne un'immagine negativa e se continuasse con questi toni e volumi di condivisioni, alla lunga potrebbe anche compromettere il modo in cui il servizio è percepito dal pubblico, diminuendone l'utilizzo.

Il mio pensiero è che in fondo vogliamo che fallisca questo servizio.

Ormai ci sguazziamo nella condivisione delle cose peggiori della nostra società. Pagine come Roma fa schifo, o anche le pagine dei principali quotidiani che puntano allo share selvaggio e altre che spesso mostrano la parte più brutta di noi ci fanno stare bene, perché ci permettono di confrontarci con modelli che stanno ai margini della società e non con la parte migliore di questa.
La condivisione dell'inciviltà estrema ormai è diventato un modo di giustificare le piccole o grandi dimostrazioni di inciviltà di ognuno di noi e un modo di trovare una scusa a tutte le scappatoie che ci creiamo per renderci la vita più comoda a discapito degli altri.
Additare il fatto scandaloso ci da implicitamente il permesso di saltare la coda, parcheggiare sul marciapiede, non fare lo scontrino, perché in confronto a una bici nel naviglio è pur sempre un modo un po' più civile di comportarsi, no?

La riuscita di questo servizio basato sulla civiltà delle persone non ci darebbe più alcuna scusa, ci farebbe uscire dalla mentalità del "eh ma tanto siamo in Italia", quella consuetudine per cui diamo per scontato che cose belle capitano sempre fuori dal nostro paese, perché noi non siamo in grado di farle funzionare.
Questa mentalità giustifica anche i nostri fallimenti, perché se qualcosa non ci va bene è colpa della burocrazia, della gente che ruba o non paga le tasse (che poi è la stessa che si lamenta), dei politici. Se non ce la facciamo è perché siamo in Italia.
La riuscita di questo servizio, che mi duole dirvelo è già un dato di fatto, ci toglierebbe un pezzo di quella foglia di fico che giustifica ogni cosa, perché vorrebbe dire che si può fare qualcosa di bello nel nostro paese, che non è sempre tutto negativo e le persone sono anche capaci di avere rispetto e senso civico.
Se fallisse il bike sharing potremmo rimanere tranquilli nel nostro brodo di mediocrità senza sentirci in colpa, potremmo ancora andare in giro a dire che in Italia non si può fare niente e tutte quelle belle frasi fatte per sentirci bene nel nostro non far nulla per migliorare le cose e giustificare ogni nostra debolezza.

Oltre all'aspetto della condotta civile però ce n'è anche un altro che riguarda le nostre abitudini quotidiane sulla mobilità.
Il bike sharing ci da molte meno giustificazioni sull'uso dell'auto in città e inoltre legittima la bici come mezzo ideale per muoversi a Milano. I moltissimi detrattori del mezzo a due ruote e gli haters cronici dei ciclisti si vedono accerchiati da biciclette in ogni angolo e in un modo o nell'altro saranno costretti ad accettare che le nostre strade non sono solo divise fra mezzi a motore e pedoni, ma ci sono altre utenze che chiedono sempre di più spazio e hanno tutto il diritto di averlo.
Anche per chi "odia" la bici o è un irriducibile dell'auto in città, il bike sharing rappresenta una minaccia, del tutto ingiustificata, alla propria libertà di movimento. Un fallimento di questo servizio sarebbe una freccia in più all'arco di quelle persone che non riescono ad abbandonare una concezione ormai obsoleta e dannosa, per la nostra salute e per il nostro spazio, della mobilità cittadina.