29 novembre 2018




Giovedì 22 novembre gli Idles sono sbarcati a Milano per un live di cui si è parlato moltissimo. Non avevo intenzione di scrivere di questo concerto, nessuno me lo ha chiesto e gli Idles non sono una delle mie band preferite, pur piacendomi e riconoscendone il valore artistico. Ma dopo ben quattro giorni (nel momento in cui scrivo), sto ancora pensando a quella serata e allora forse è il caso di scriverne, visto che l’ultima volta che mi è capitata una cosa del genere, avevo visto per la prima volta dal vivo i The National, nel 2010.
I The National non c’entrano nulla con gli Idles, genere completamente diverso, luoghi di provenienza diversi, suoni e approccio alla musica completamente diversi. Ma non sono due band così lontane fra di loro.
Entrambe hanno conosciuto il successo solo dopo molti anni dall’esordio, la band americana è stata addirittura sull’orlo dello scioglimento, prima che Obama usasse la loro “Fake Empire” per la sua campagna elettorale. Allo stesso modo gli Idles hanno aspettato ben sette anni dalla formazione del primo nucleo della band, prima di vedere un album pubblicato da un’etichetta indipendente.
Entrambe le band sono cresciute e diventate grandi al di fuori del music business, hanno vissuto una “vita vera”, quella di tutti noi, fatta di difficoltà a far quadrare i conti, di lavori “normali”, della giovinezza che si trasforma in età adulta mentre ci si costruisce un futuro con la propria ragazza o ragazzo, con tutte le difficoltà del caso e a volte con i brutti colpi che la vita comporta.



Il fatto di diventare famosi da adulti da una forza comunicativa impressionante, se si è capaci di raccontare e di canalizzare le storie che hai vissuto. Perché quello che racconti è molto più vicino a quello che vive e ha vissuto chi ti ascolta, rispetto a chi fin da giovane è stato “costretto” a vivere su un van, o un bus, vivendo la maggior parte dell’anno in tour. Il tour è una cosa che ti fa incontrare migliaia di persone, che ti mette a contatto con realtà molto diverse dalla tua, ti arricchisce, ma è anche una bolla che isola dalla vita normale, che ti tiene lontano da una routine giornaliera che accomuna gran parte del pubblico che ti segue. Se quella routine giornaliera non l’hai mai vissuta, perché da quando hai finito la scuola non hai fatto altro che passare dal palco allo studio di registrazione, ti manca qualcosa.
Perché oggi chi ascolta musica, un certo tipo di musica, chi ha l’età giusta per ricordarsi, anche di riflesso, come funzionavano le cose una volta e ha la consapevolezza per comprendere quanto l’ipocrisia di chi è venuto prima abbia compromesso il futuro di chi è venuto dopo, non vuole ascoltare canzoni d’amore e di pace. Si è stufato di tutto l’immaginario hippie legato alla musica del passato, non vuole ascoltare canzoni di rabbia, perché la rabbia non ha portato a nulla, se non a un peggiorare della situazione. Non vuole neanche  più l’immaginario grunge, legato all’emarginazione, alle droghe e al rifiuto di un certo tipo di società. Chi ha quell’età (che va più o meno dai 30 ai 40) fa parte della società, non vuole uscirne, ma è consapevole dei rischi e della difficoltà che questo comporta, vuole ascoltare canzoni di consapevolezza, canzoni che parlino di quello che vive ogni giorno, che lo aiuti a sentirsi meno solo.




La musica (ma non solo quella) è sempre meno un fenomeno di condivisione reale e sempre più un’azione individuale, dettata da algoritmi, da playlist preconfezionate da piattaforme musicali e da dinamiche da social. Non voglio fare come quello che una volta all’anno scrive che il rock è morto, quindi non sto dicendo che ormai la socialità legata alla musica sia morta, è viva e vegeta e ai concerti scambio mille pareri con le persone che conosco, ma è un dato di fatto che il contatto personale è molto meno importante, quando aprendo un’app dal telefono abbiamo 50 suggerimenti ogni giorno su che cosa ascoltare. È innegabile che, se una volta per condividere la musica bisognava essere nella stessa stanza, o incontrarsi per scambiare un disco, oggi la stessa cosa avviene spesso senza neanche scambiare due parole, con l’invio di un link via app.
All’interno di questa nuova esperienza di ascolto, e in un mondo in cui è sempre più difficile aprirsi con gli altri, trovare qualcuno che capisce i tuoi problemi, che ha vissuto le tue stesse esperienze, che racconta la sua vita senza filtri, analizza l’attualità dal tuo stesso punto di vista, non ha paura di condividere con te le sue debolezze, i suoi demoni e le tragedie che lo hanno segnato, è un’esperienza di grande potenza emotiva. Questa potenza può averla solo chi ha vissuto veramente le tue stesse esperienze, chi ha avuto il tuo stesso percorso di vita.
Non è un caso che entrambe le band agli inizi del loro successo, nonostante la loro carriera relativamente breve, hanno raccolto una schiera di fan già grandicelli.
Perché si può dire che gli Idles hanno riportato il punk fra i giovani, ma lo si può dire consapevoli di avere una concezione di gioventù molto ampia e molto italiana.
Al Magnolia erano poche le persone sotto i trenta, pochissime quelle sotto i 25. Quindi usciamo subito da questa visione della band come quella che riporterà ai fasti del passato il punk. Primo perché non sono punk, o almeno non lo sono nello spirito con cui si identifica il punk degli anni ‘70. Secondo perché il loro pubblico non è giovane, ed è giusto che sia così, perché è proprio a quel pubblico non più tanto giovane che loro parlano e lo fanno come nessuno è riuscito a fare negli ultimi anni.
Gli Idles sono forse gli unici che sono riusciti a fare di un disco un manifesto generazionale in Europa (di QUELLA generazione) negli ultimi dieci anni, tralasciando per un attimo il rigurgito di ribellione politica e anti-razzista che l’era Trump ha causato negli Stati Uniti. Joy As An Act Of Resistance non è solo il titolo di un album, è un abbraccio a tutte le persone che si sentono in difficoltà, a tutti coloro che pensano di non poterne uscire, a chi pensa che la sua vita sia una merda, anche a chi non lo pensa, ma non vede margini di miglioramento per sé e per le persone che gli stanno vicino. La soluzione non è la rabbia, non è sfogarsi su chi è più debole o più povero di te, la soluzione è aprirsi, condividere i tuoi problemi e scoprire che sono gli stessi di chi ti sta vicino, nonostante la diffidenza che hai sempre avuto nei suoi confronti.



Anche nel loro modo di condurre lo show non c’è mai rabbia, ci sono sorrisi, c’è condivisione, c’è un rapporto diretto con il pubblico, quasi da stand-up comedy. Il pubblico è parte dello show, ed è di fondamentale importanza che se ne senta parte. La ricerca del contatto è continua, non tanto fisico, ma mentale, le parole che precedono ogni pezzo, il modo in cui Joe Talbot parla ti fa sentire direttamente coinvolto, a volte si rivolge direttamente a persone specifiche all’interno del pubblico, chiede quali pezzi devono suonare, spiega i testi, fa dediche particolari. Anche il suo modo di stare sul palco non è quello di un frontman classico, non ti sbatte in faccia il suo ego e la sua fiducia in sé stesso; coinvolge, occupa lo spazio, ma allo stesso tempo è come se ti dicesse: “Sì, io sono qui e sto facendo il concerto, però mi devi dare una mano, io sono come te e questa cosa la dobbiamo fare insieme, altrimenti non andiamo da nessuna parte”.
Il concerto non ha nulla di particolarmente scenografico, è solo una band che suona, ma la differenza la fa la capacità di comunicare di questa band. La verità è che oggi ci sono troppe band che non hanno nulla da dire, e te ne accorgi proprio quando vedi gli Idles dal vivo.
Erano anni che non vedevo mezzo Magnolia pogare per tutta la durata di un concerto, era tantissimo tempo che una band “nuova” non mi spingeva ad andare sotto il palco a partecipare al concerto, non solo a vederlo e sentirlo.
Non c’è rabbia neanche nell’esecuzione dei pezzi, che spesso vengono rallentati di un paio di bpm (l’iniziale Colossus in particolare), perché le canzoni veicolano un messaggio ed è importante che questo messaggio arrivi al meglio.  Rallentare per scandire meglio le parole, per dare il tempo al pubblico di elaborarle, per permettere a Joe Talbot di essere ancora più espressivo e convincente, anche da questo di capisce la maturità di una band.
Alla fine gli unici momenti particolari previsti nello show, sono un crowd surfing del chitarrista, e due ragazze fatte salire a suonare per un pezzo, tutte cose che si sono già viste, buone per le foto su instagram, ma il succo del concerto non sono quelle foto che avete visto su instagram.



Il succo del concerto non sono neanche i pezzi, che se vogliamo dirlo sembrano anche un po’ tutti uguali alla lunga, iniziano tutti alla stessa maniera e finché non arriva il ritornello spesso le differenze sono veramente poche (questa cosa è sì molto punk), il succo è quello che ti rimane quando vai via. Puoi anche non capire bene tutti i testi, puoi anche non sapere l’inglese, ma il messaggio passa lo stesso e ti rimane dentro per giorni a fermentare, finché poi non trovi il modo di farlo uscire. Io l’ho fatto scrivendo questo pezzo, ma sono convinto che molte altre persone che erano presenti al concerto lo hanno fatto in altri modi, condividendo e trasferendo quella positività nella vita di tutti i giorni.
Non erano la mia band preferita, ma probabilmente dopo aver scritto questo pezzo lo diventeranno.


7 novembre 2018




Ci sono voluti 8 anni, fra scioglimento, reunion e dischi abortiti. 8 anni in cui il mondo è cambiato radicalmente, ma ha ancora un estremo bisogno di band come i Daughters.
Perché You Won’t Get What You Want non è solo un disco, è un manifesto, un macigno lanciato in una sala d’attesa gremita, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze.
Il noise-rock fatto di chitarre abrasive di un tempo è morto e al loro posto si sentono le fiamme dell’inferno e le urla di anime dannate. Ma non è l’inferno dantesco, è quello post-industriale in cui viviamo tutti i giorni e in mezzo alle anime che urlano, se facciamo attenzione, possiamo riconoscere la nostra voce. Un’opera audace, difficile, che porta il noise ad un nuovo livello e segnerà il futuro di un genere che prima di questo disco non ne aveva.




20 settembre 2018



In Italia la musica indipendente è ormai intrappolata dentro due macro categorie indissolubili: da una parte l'indie-it-electro-pop-cantautorale, dall'altra l'emo-post-qualsiasicosa. Due contenitori già sovraffollati da anni, nei quali però si trova sempre spazio per l'ennesima uscita uguale a tutte le altre venute prima, salvo alcune eccezioni. È facile in fondo. Ci si affida a un pubblico settoriale, con canali ben delineati, ci si appoggia un po' a tutto ciò che è venuto prima, prendendo un po' da uno e un po' dall'altro, ci si conosce tutti, ma soprattutto si è tutti parte di un "sistema", prima o poi tutti organizzano un concerto, tutti avviano un ufficio stampa o una booking, tutti scrivono di musica, tutti fanno un disco, tutti fanno foto, le persone che ascoltano e basta si contano sulle dita di una mano, quindi a pochi conviene esporsi con giudizi negativi su una band o un artista se sono già entrati nel giro. Così va a finire che si galleggia a distanza di sicurezza dalla mediocrità, nessuno fa cagare, ma allo stesso tempo nessuno fa la differenza. Questo succede anche a causa di una costellazione di microetichette, microbooking, micro uffici stampa, dotate di buona volontà e buone intenzioni, ma che in molti casi non hanno i mezzi per permettere a una band o a un artista di crescere.
Difficilmente qualcuno che faccia qualcosa di originale, che mischi le carte, qualcuno che segua un percorso personale e fuori dagli schemi trova spazio, perché invece di premiarlo si tende a isolarlo, perché altrimenti si devono creare canali che non ci sono, bisogna creare un pubblico nuovo ma si tende a rimanere nel proprio orticello: è più semplice e si raggiungono gli stessi risultati con meno sforzi.
Per riuscire a farsi spazio un artista con le caratteristiche sopra elencate, deve essere veramente bravo, anzi deve essere molto, ma molto più bravo di quelli che solitamente lo occupano quello spazio, e per prenderselo la sua qualità deve essere incontrovertibile.

Questo è accaduto nel 2015 con l'esordio degli Any Other, grazie (davvero, grazie) a un'etichetta che (guardacaso) era un po' fuori da tutti i giochi di ruolo di cui sopra, essendo nuova: la Bello Records di Massimo Fiorio e Rossana Savino.



La musica di Adele Nigro non è mai stata facilmente catalogabile, mi stupii molto vedere quanto circolò all'inizio Silently, Quietly, Going Away, quanto se ne parlò (più perché l'etichetta era gestita da un gatto che per il disco, se vogliamo dirla tutta, ma è stata una mossa intelligente), perché era chiaro che era un qualcosa che rompeva gli schemi, ma ancora non potevamo immaginare quanto.
Il primo album degli Any Other non era né cantautorale, né emo, né electro, né punk. Andava a pescare in quell'indie anni '90, un po' Built To Spill, un po' Courtney Barnett, un po' Speedy Ortiz, che in Italia non ha mai avuto una vera scena e oggi men che meno. Non era un disco difficile però: si basava principalmente su accordoni di chitarra con un leggero crunch e su un impianto di basso e batteria molto semplice e funzionale ai pezzi, ma si sentiva subito che aveva qualcosa di speciale.
Le linee vocali di Adele erano già molti gradini sopra la media italiana, il suo modo di cantare era ed è totalmente slegato dagli stilemi della canzone popolare italiana, cosa rarissima, perché volenti o nolenti l'abbiamo tutti nel nostro dna e si sente anche nel disco più hardcore che abbiate mai fatto.
Nonostante questo però, non ha avuto lo spazio che si meritava.





Silently ecc. però era solo un passaggio, forse obbligato, una piattaforma solida su cui poggiare una rampa di lancio, perché ad ascoltare il nuovo Two Geography, il precedente disco sembra un esercizio, un gioco. La ragazza è cresciuta musicalmente molto più che anagraficamente in questi tre anni.
L'impianto della band classica, chitarra basso batteria, viene lasciato da parte per fare spazio a strumenti nuovi e ad arrangiamenti di matrice più acustica, la chitarra elettrica quasi sparisce, ed entrano nello spettro, violini, fiati, pianoforti e Rhodes. Quella che prima sembrava una band vera e propria ora suona come un gruppo di turnisti al servizio della cantante. C'è molto più spazio per far risaltare le doti di Adele, che non si lascia pregare e sfrutta quello spazio come nessun'altra sarebbe in grado di fare.



La cosa che lascia piacevolmente spiazzati sono gli arrangiamenti: quando serve si cerca sempre la soluzione diagonale, inaspettata, i pattern di batteria caratterizzano in modo particolare l'andamento dei pezzi, con soluzioni che oserei definire "nationaliane" (in questo senso il cambio di batterista è stato fondamentale), come si può sentire già al primo impatto con il singolo Walkthrough. Tutto questo senza però esagerare, perché il disco ha due anime, una possiamo definirla "jazz", dove le soluzioni citate sono la caratteristica principale, oltre alle linee vocali sorprendenti, e un'altra folk, dove, con molta intelligenza, si va verso il minimalismo, lasciando la chitarra acustica in primissimo piano, impreziosita solo da alcuni interventi discreti, che siano violini, o batteria spazzolata (o anche nulla) come in Breastbones, che profuma molto di Sufjan Stevens.
È come giocare a uno sparatutto, in cui tu punti principalmente verso il centro dello schermo, perché la maggior parte dei cattivi da uccidere arrivano da lì, invece quando meno te l'aspetti ne salta fuori uno dall'angolo in basso a sinistra ed è GAME OVER.
Gli arrangiamenti di Two Geography sono così, ti mandano sempre in game over.
Già l'apertura del disco non è il solito pezzo "confortevole", quello che serve a convincere l'ascoltatore a proseguire, è una pennata continua di chitarra acustica, che ricorda il Josh T. Pearson di Last Of The Country Gentlemen, un momento di attesa, di sospensione, che poi "esplode" nel finale. Tutto l'album è una continua alternanza fra pezzi "difficili" e ballate acustiche. L'unico pezzo che ricorda da lontano i vecchi Any Other è Perkins, dove la chitarra elettrica torna protagonista sul finale e si risente una batteria con un 4/4 classico. Il resto è una piccola grande rivoluzione.
Sul finale poi, dopo un probabile singolo (giuro di averlo scritto prima che uscisse) come Capricorn No arriva forse il pezzo più audace, in cui gli strumenti formano un tappeto elastico, di quelli un po' sgualciti, sui quali è poggiato uno leggero strato d'acqua dopo un temporale. Un tappeto fatto di lunghi accordi e vibrazioni di fiati e batteria che increspano l'acqua, sopra al quale la voce di Adele rimbalza e si diverte con evoluzioni a corpo libero, per poi finire un una nebbia sonica di feedback acustico e ripetizioni ossessive e psych.



Un disco eterogeneo ma con un forte carattere, che testimonia una crescita e una maturità sorprendenti, oltre a una voglia di migliorarsi e di sperimentare che nei prossimi anni spero possa portare il progetto ad essere una realtà internazionale consolidata.
Perché gli Any Other non hanno bisogno di spazio in Italia, la partecipazione al Primavera Sound non è un caso, così come non lo è il tour europeo intrapreso ancora prima di presentare il disco in Italia (cosa che succederà quest'inverno). Siamo noi che abbiamo bisogno di Adele Nigro e soci e di molti altri come loro per far crescere tutto l'indie italiano. Per dimostrare a tutti che si può e si deve fare spazio anche a chi non ha un contenitore prefustellato, perché se progetti come questo trovano spazio ne guadagnano tutti, si creano nuovi canali, si arriva a persone nuove, creando un piccolo ma indispensabile ricambio nel pubblico che segue i concerti e le uscite discografiche di un certo tipo. Serve ossigeno nuovo in un ambiente che tende troppo spesso a chiudersi su sé stesso e gli Any Other sono una bombola di ossigeno da 20 litri.
Con largo anticipo, questo sarà per me il miglior disco italiano del 2018 e uno dei migliori in assoluto dell'anno, non tanto per il valore assoluto, perché il percorso è appena iniziato e ha comunque alcuni piccoli difetti che però lo rendono fresco, stimolante, ma perché esprime un potenziale enorme.
Sembrerà un azzardo ma qui siamo di fronte a una nuova Fiona Apple, o, essendo la chitarra acustica il suo strumento principale, a una nuova Ani Di Franco. Ma non la nuova Ani Di Franco italiana, la nuova Ani Di Franco e basta.



29 maggio 2018



È da poco uscito Evergreen di Calcutta e subito, ma anche prima dell’uscita, si sono sprecati i commenti e le recensioni lampo. Non ho mai capito come si fa a recensire un disco il giorno stesso dell’uscita, dopo mezzo ascolto fatto su un tram mentre si chatta su Telegram o si controlla Facebook.
Ultimamente poi con questa usanza e questa voglia inutile di essere i primi a sparare una sentenza, si sono stroncati dischi bellissimi sulla base di nulla, come è capitato a inizio 2017 con I See You degli XX.
Il problema principale è che giudichiamo i dischi per quello che vorremmo che fossero e non per quello che sono. Bisogna dare tempo al disco di rivelarsi per quello che è e dare tempo a noi, per capirlo. Un disco è come una persona, ci sono persone con cui al primo sguardo si va d’accordo subito, ci sono quelle che bisogna litigarci per scoprire di essere amici e invece poi ci sono i cavalli che sono delle brutte persone. La stessa cosa vale con i dischi.
Tutta questa manfrina, per dire che quello che sto andando a fare non è una recensione, ma è l’esigenza di fissare le prime impressioni su un disco che sarà forse ancora più importante del suo predecessore.
Con tutti i singoli usciti, si poteva pensare che Evergreen fosse un disco pieno di ritornelli killer, leggero, di facile presa, uno di quelli che non fai altro che cantarlo senza pensare troppo a quello che c’è sotto, io per primo lo pensavo, e tutto sommato l’idea non mi dispiaceva, perché è anche un po’ quello che vuoi da un personaggio così, fra mille ascolti “difficili” ogni tanto in macchina di notte, ci vuole un po’ di Calcutta.
Quando poi il disco si è rivelato e ho avuto la possibilità di ascoltarlo tutto sono rimasto un po’ spiazzato.
Perché sì Evergreen è un disco pieno di ritornelli killer, ma non solo. Qui stiamo parlando non di un disco con due lati, ma di un disco con due strati e forse anche di più.
In questi giorni di Giro d’Italia, mi immagino l’album come una tappa di montagna, dove i gpm (gran premi della montagna, le cime dei monti) formano una linea immaginaria che è il primo strato del disco, le parti più emozionanti, i singoli, gli scatti fulminanti come quello di Froome sul Colle delle Finestre, i ritornelli, quelli che colpiscono di più lo spettatore distratto. Invece il secondo strato è formato dalle valli, dai tratti in piano, dai sali-scendi, quelli più noiosi per lo spettacolo, ma dove si costruisce l’ossatura del giro e del gruppo, dove si decidono le tattiche, dove si “tira” e ci si può permettere di fare qualcosa di inusuale, come mandare una dedica alla moglie o pisciare in corsa a lato strada senza fermare la bici.
Sono rimasto un po’ spiazzato perché la partenza, naturalmente, è dalla valle, dalla pianura, e Briciole è pezzo atipico, almeno se rapportato a Mainstream.
Ma prima di parlare del secondo strato, volevo analizzare il primo:

Paracetamolo, Pesto, Hubner, Orgasmo, Kiwi.

Questi cinque pezzi formano uno strato compatto, tanto che al primo ascolto quasi ti dimentichi dell’altro. Parole semplici, dirette, messe al punto giusto e con la giusta metrica, che ti si stampano in testa. Parole semplici, ma non banali. Perché mettere in un ritornello un insulto come “Ue deficiente” non è banale, è come la fontana di Duchamp, è una “cazzata”, ma devi avere l’idea per farla e quello che fa la differenza.
Che poi ue deficiente è proprio un bell'insulto. Perché nel momento in cui la lingua italiana viene stuprata ogni giorno, soprattutto dai "nuovi" politici e l'analfabetismo ormai è motivo di vanto, un insulto che contiene una regola base di grammatica come la "i" in mezzo alla "c" e alla "e" è a suo modo rivoluzionario.
Stesso discorso vale per “Lo sai che la tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000”, la prima reazione è “che coglione”, ma ci vuole anche coraggio per dire chissenefrega, e iniziare un pezzo con una frase così assurda. Perché il Paracetamolo è una cosa che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, con i farmaci equivalenti, prima era solo una delle tante parole che conoscevano solo i farmacisti e per noi una valeva l’altra. È una parola che a suo modo identifica una generazione.
Stesso discorso vale per Dario Hubner, anche quello all’inizio ti strappa un sorriso, ma è un nome che identifica una generazione ben precisa, un tipo di calcio che oggi non c’è più e che solo alcune persone identificano come “poesia”, perché Hubner è poesia, non scherziamo.
Anche con un semplice nome Calcutta sa rievocare un mondo, un’appartenenza, come il Frosinone in serie A di Mainstream.



Ma non è fatto solo di parole e ritornelli killer il primo strato, perché azzeccare una melodia capita a tutti una volta, ma la bellezza e la qualità di una canzone pop con la struttura canonica, la si riconosce dallo special, e Paracetamolo come altre di Calcutta, ha uno special che è una canzone dentro la canzone. In questo special (da 1:40 nel video) è incluso, come una sorta di yin e yang, un piccolo pezzo del secondo strato, una sorta di canzone nella canzone, che in mezzo a un singolo spacca classifica mette psichedelia, california, acidi, riverberi, dilatazioni, tutto concentrato in pochi secondi.
Ma ogni pezzo del primo strato ha dentro qualcosa del secondo, che non sto qui ad elencarvi perché altrimenti diventerebbe un libro e con gli ascolti è come sfogliare un carciofo fino ad arrivare al cuore, dove c’è il fiore.

Il secondo invece è quello più sorprendente, quello che indica la direzione in cui probabilmente andrà Calcutta:

Briciole, Saliva, Dateo, Nuda Nudissima, Rai.

La prima, di cui accennavo più sopra è uno spartiacque, è messa lì come avvertimento, ad indicare che qui una volta era tutto un Cosa Mi Manchi a Fare, ma adesso ci sono cemento e palazzi. Sembrerà strano, ma io ci sento un po’ di Cremonini, perché Edoardo, oltre al cantautorato italiano dagli anni sessanta ad oggi, va a pescare anche nella vena pop-psichedelica dei Beatles o dei Beach Boys. Infatti nonostante sia spiazzante e insieme a Saliva, sia profondamente diversa dai pezzi del primo strato è ancora nulla rispetto a quello che verrà.
Il punto focale dell’album è la doppietta Nuda Nudissima, Rai. È qui che si apre un mondo, che era forse presente in qualche modo nel primissimo disco (Forse…), come idea ma non nella forma.
La prima inizia con una chitarra che sembra un banco di nebbia artica, di quelle che ti bruciano gli occhi, con un flanger tirato a cannone che fa perdere i confini della distorsione e rimane nel sottobosco del pezzo per tutta la durata. Qui la forma canzone si sgretola, non c’è un ritornello vero, la successione di accordi si fa meno netta e più liquida, acida. Qui gli ultimi anni ‘60 si sentono fortissimo, si perde la dimensione cantautorale, per tuffarsi a bomba nel pop psichedelico, si sente dai coretti, dai sinth che puntellano tutto il pezzo con interventi sghembi, diagonali. Nuda Nudissima è il classico pezzo che non piace a nessuno, quello che dal vivo ha una resa pessima e manda tutti a prendere la birra, ma è qui che bisogna cercare il vero Calcutta, è qui che viene fuori la capacità di un autore che non scrive solo singoli buoni per vendere.


Perché il problema dell’indie vs mainstream è tutto qui, finché scrivi pezzi “difficili” ma non ti fai capire dal pubblico rimani nel tuo orticello e non vai più in là. Non è tutto, può anche non interessarti, ma poi non te la devi prendere con chi riesce a fare quel passo, usando come scusa la mancanza di qualità. Non tutti vivono la musica come una passione, la maggior parte della gente la vive come un passatempo, un riempitivo, e non è dicendogli “guarda che io sono più bravo e quello che ascolti tu è tutta una merda” che la convinci a fare un passo in più, verso la musica più nascosta e forse di maggiore qualità, ma quello è tutto da vedere.
Ti devi aprire a quel mondo, devi farti capire, devi convincere qualcuno di cui non gli interessa un cazzo di quello che fai che potrebbe interessargli. L’ha capito anche Manuel Agnelli a 50 anni, che per entrare in un certo mondo devi giocare nel loro campo, non puoi portarlo nel tuo con la pretesa di essere migliore di loro. Tutto questo dopo aver buttato nel cesso un’occasione d’oro a Sanremo, presentando un pezzo inascoltabile per la maggior parte delle persone abituate a vederlo (era il 2011 ed era molto diverso da oggi), completamente fuori contesto, senza un ritornello vero e con una resa sonora pessima in tv. Pretendendo che quelle stesse persone andassero a comprare una compilation diversa da quella di Sanremo per sentire il loro pezzo e quello di altre band del panorama indie. Pensate se gli Afterhours avessere presentato un pezzo tipo Quello Che Non C’è, o Voglio Una Pelle Splendida, quanta gente avrebbe comprato quella compilation e quanti avrebbero scoperto molte altre band.



Invece ci è voluto X- Factor per rompere quel muro e far capire ad Agnelli che non è tutta merda il mainstream e ci si può mettere le mani senza sporcarsi, per poter portare il tuo mondo dentro a quello, con Ossigeno.
Ecco, Mainstream di Calcutta era il corrispettivo, probabilmente inconsapevole, di X-Factor per Agnelli, invece Evergreen è il suo Ossigeno.
Dopo questa divagazione che non so più da dov’è partita, l’ultimo punto fondamentale del disco è appunto Rai. Giuro che è stato inconsapevole questo rimando.
Rai è un’altra trappola, perché parte come un classico singolone di Calcutta, piano e voce, ma poi prende una sorta di scala di Escher e non si capisce più dove vada a finire. Cresce, cambia, sembra quasi un pezzo solista di Morgan, parte da un punto per finire da tutt’altra parte, non c’è una ripetizione per tutto il pezzo, è pura fantasia, estro, è una specie di operetta pop, inusualmente piena di arrangiamenti complessi, violini, sinth, rhodes, scale di chitarra simili a quelle di un clavicembalo (particolarmente amato da Morgan).



E alla fine si torna a casa con Orgasmo, ma anche lì non è tutto mainstream quello che luccica.
È un disco che avrà bisogno ancora di molti ascolti per rivelare tutti i suoi segreti, ma come dicevo all’inizio è ben lontano dall’essere una semplice raccolta di singoli per l’estate, sarà a mio avviso un disco importante, che riporterà la barra del cantautorato indie verso un salto di qualità. Cantautorato indie che ora è strenuamente impegnato a cercare il successo che prima diceva di non volere, con canzoncine e nomi tutti uguali, per cercare la reiterazione dei due (Calcutta e Paradiso) che hanno smascherato l’ipocrisia di un ambiente troppo impegnato a pisciarsi sulle scarpe, invece di farlo in corsa a lato strada, senza fermare la bici.

Ah, se sei arrivato fin qui e ti stai chiedendo cosa c'entra il titolo, niente, non c'entra niente. O forse no.

24 marzo 2018



- Il giorno precedente all'elezioni dei presidenti delle Camere, i media si affrettavano a dare la coalizione di centro-destra per finita e Silvio Berlusconi ormai archiviato, in favore di una leadership rafforzata di Salvini.

- Quest'ultimo dopo una prima fase di stallo nelle votazioni esce all'improvviso con la "Mossa Mattarella", ovvero tira fuori dal cilindro una votazione in blocco per la Bernini, che nessuno si aspetta, esattamente come fece Renzi con Mattarella durante l'elezione del Presidente della Repubblica.

- La Bernini è stata considerata frettolosamente lo scacco matto a Berlusconi che, fino a quel momento e oltre ha continuato a proporre Romani come presidente del Senato.

- Tuttavia la faccenda è stata sempre trattata dal punto di vista dei vincitori delle elezioni, Di Maio e Salvini, facendoci credere che fossero loro a dare le carte.

- Nel giorno delle elezioni dei presidenti però, Di Maio si affretta a dire che Fraccaro in realtà non era la loro prima scelta ma solo un bluff per poi far eleggere Fico, quasi a voler forzare una lettura favorevole per loro.

Se invece il bluff  l'avesse fatto il vecchio Silvio?
Proviamo a guardare tutta la faccenda dal suo punto di vista.

- Tutti sanno che i 5 stelle non accetterebbero mai di votare un condannato a presidente del Senato (o della Camera) e Berlusconi invece cosa fa? Propone esattamente un condannato (per peculato): Paolo Romani.

- Così facendo costringe i cinque stelle a giocare in difesa, partendo già con una mossa da scacco matto. Il Movimento non può accettarlo, altrimenti andrebbe contro a ogni suo dogma, ma in questo modo è costretto a scendere a patti con il diavolo in persona.

- L'accordo presto è fatto ma non è così semplice come Di Maio vuol farlo sembrare.

- Fraccaro è un fedelissimo del capo dei 5 stelle, difficile pensare che Di Maio preferisse Fico a lui.

- Da tempo il nuovo presidente della Camera è l'elemento destabilizzante del Movimento, è uno dei pochi che pensa con la sua testa e si permette di contraddire i vertici e la sua rivalità con Di Maio fatica a rimanere sotto traccia. La sua esclusione dalle candidature per l'elezione del possibile premier per i 5 Stelle è stata emblematica.

- Berlusconi ha vissuto un'esperienza simile nel suo passato: Gianfranco Fini, uomo forte dell'antica coalizione di centro destra, da Presidente della Camera ha consumato lo strappo finale con Silvio, proprio per l'impegno e l'imparzialità con cui ha svolto il suo compito.

- Costringendo i 5 stelle a porre condizioni sulla candidatura del presidente del Senato, si è messo nella posizione di poter fare lo stesso per la Camera.

- Se nella notte di venerdì tutti davano la coalizione di centrodestra definitivamente archiviata e Silvio definitvamente battuto da Salvini, il risveglio di sabato ci ha presentato una situazione totalmente ribaltata.

- La coalizione di centro destra è ancora in piedi e Silvio ha piazzato come presidente del Senato una delle sue donne più fedeli: Maria Elisabetta Alberti Casellati.

- Contemporaneamente ha costretto i 5 stelle a mettere come presidente della Camera uno dei meno allineati alla legge di Casaleggio: Roberto Fico.

-L'esperienza con Fini gli ha insegnato che proprio quel ruolo alla lunga potrebbe essere il punto di rottura definitivo di Fico con i 5 stelle, che perderebbero uno degli uomini più importanti e autorevoli del Movimento.

Ancora una volta forse, il Berlusconi dato per morto troppo presto è riuscito a ribaltare la situazione a suo favore e forse gli unici veri sconfitti di tutta questa storia sono proprio Di Maio e Salvini. Soprattutto quest'ultimo tentando il grande strappo, forse ha fatto il passo più lungo della gamba.


2 marzo 2018



Domenica si gioca una partita importante, che determinerà il destino dell'Italia: definitivamente fuori dalla crisi o, probabilmente, una brusca frenata se non addirittura un'inversione a U.
Un aspetto della partita che mi tocca da vicino è quello della Lombardia, ed è da qui che vorrei iniziare.
Milano sta vivendo un periodo di rinnovamento, che dura ormai da anni. Anni in cui si è imposta a livello europeo e mondiale, come città culturale, attrattiva, dinamica e pronta ad accogliere sia studenti che lavoratori e aziende. In questo momento storico, in cui la Brexit toglierà inevitabilmente a Londra la maglia di città leader in Europa, Milano ha un'occasione imperdibile per poter attirare i capitali che emigreranno dalla City, per diventare a sua volta una piccola, grande "city".
Questo è stato possibile grazie a 15 anni di governo lungimirante, che ha guardato al futuro, che ha progettato, che ha immaginato e ha avuto un'idea di città e si è mosso in quella direzione. Moratti (senza la quale non avremmo avuto Expo e Area C), Pisapia che ha impostato le linee guida e ha rinnovato Milano dalle fondamenta e Sala.
Quest'ultimo è quello che ha dato l'accelerazione finale, trasformando Milano in una locomotiva, cogliendo occasioni impensabili fino a qualche anno fa, come EMA (anche se poi è andata come andata). Come dicevo in un precedente post: "Un Sindaco che oltre ad avere avuto esperienze nell'amministrazione pubblica, è stato vicino al mondo corporate e alle aziende. Una persona che ha vissuto nelle stanze dove si prendono decisioni che muovono capitali, che sa come si spostano e sa come cogliere le occasioni per portarli a Milano, insieme ai tanti posti di lavoro che inevitabilmente prendono vita da questi capitali. Una cosa di cui Milano ha bisogno come l'aria per affermare la sua leadership in Europa".
In questo momento la Lombardia ha bisogno di trasferire la spinta di Milano su tutta la regione e per farlo ha bisogno di una persona che abbia un'esperienza simile a quella di Sala. Una persona che sappia parlare la lingua delle aziende che vogliono investire, che sappia attirare capitali, che sappia muoversi con autorevolezza, pacatezza e decisione, senza parole fuori posto e abbia esperienza nell'amministrazione pubblica.
C'è solo una persona che risponde a questo identikit ed è Giorgio Gori.

Gori è la persona giusta al momento giusto, un amministratore che ha fatto benissimo a Bergamo (è uno dei sindaci più apprezzati in Italia) e, insieme a Sala, formerebbe una squadra che lancerebbe Milano e la Lombardia verso una leadership europea e mondiale.
La scelta è fra la destra estrema e Gori, non ci sono altre possibilità, il resto per quanto possiamo stare qui a fare congetture, conta poco. 
La scelta è fra un moderato, serio, preparato, educato e quelli che scrivevano sul Pirellone "Family Day", lanciando da un palazzo istituzionale di Milano, la città dei diritti, dell'accoglienza e della solidarietà, un messaggio discriminatorio e divisivo.
La scelta è fra una persona che ha girato la Lombardia per mesi (100 tappe) per conoscere ogni angolo della regione e tutte le problematiche infrastrutturali, oltre che di gestione del welfare e di sviluppo, ascoltando le persone e stilando un programma serio e realizzabile, oppure quello che ha tappato il buco lasciato da Maroni all'ultimo momento, affermando la supremazia della razza bianca.
Credo veramente che ci sia una sola domanda da fare: avete visto il rilancio di Milano di questi anni? Avete passeggiato in centro negli ultimi mesi e avete avvertito quell'atmosfera nuova, internazionale, giovane e dinamica? Avete notato quante aziende hanno scelto Milano in questi ultimi anni, lasciando altre città e quanti posti di lavoro hanno portato? Se volete che lo stesso avvenga in Lombardia, Gori è l'unica persona che lo può fare.
Questo è un voto per cambiare, ma anche per continuare quello che è stato fatto a Milano.

Ma la partita non finisce qui. Si gioca anche a livello nazionale un match importantissimo.
In questi anni, mentre c'era chi attirava tutte le antipatie e gli attacchi su di sé, c'è stata una squadra di governo che ha lavorato silenziosamente (forse troppo), per cercare di risollevare il Paese. Calenda, Martina, Pinotti, Franceschini, Delrio, Padoan, Fedeli, sono oggettivamente e al di là delle tifoserie politiche, fra i più validi e competenti ministri che l'Italia abbia avuto negli ultimi due decenni. Uno su tutti Calenda, che ancora in questi giorni, mentre in campagna elettorale si sprecavano annunci e promesse, ha lavorato senza sosta per salvare importanti aziende e molti posti di lavoro sul territorio. Oltre al fatto che nel momento di maggior difficoltà sono stati capaci di tirare fuori un presidente del consiglio (Gentiloni), accolto con scetticismo ma che ha saputo prendere con grande responsabilità il suo compito per poi risultare uno dei migliori che si poteva avere.
Domenica non si va a votare per Renzi, Di Maio o Salvini. Domenica si va a votare per una squadra che sia in grado di scegliere le persone giuste da mettere nei posti chiave.
E, salvo qualche errore, chi ha guidato questa legislatura ha dimostrato di saper scegliere le persone giuste da mettere nei ministeri più importanti.
Non prendiamoci in giro. Non si possono fare miracoli. Abbiamo un debito che strozza qualsiasi provvedimento. L'abolizione della Fornero è pura fantascienza, anzi quella legge era stata fatta su previsioni future che non si stanno verificando, quindi, al momento è addirittura una legge che andrebbe ritoccata al rialzo. Servono persone che abbiano il polso della situazione e prendano provvedimenti misurati, sapendo benissimo che lo spazio di manovra è poco. Chi si presenta per cambiare tutto, sa benissimo che non è possibile. Chi si presenta basando tutto il suo programma sulla remota possibilità che ci venga concesso di superare il rapporto deficit/pil del 3% nella situazione in cui siamo, sa già che non farà nulla ed è già pronto a dare la colpa all'Europa per quello che non saprà fare. Chi si presenta promettendo pensioni minime a mille euro e dentista gratis, è irresponsabile.
Chi si presenta gridando "prima gli italiani", giurando sul vangelo, parlando di Frozen e ideologia gender, dicendo che espellerà 600.000 immmigrati, vive in un mondo che non esiste più. Basta andare davanti a una scuola per capirlo. I bambini che oggi vogliono discriminare saranno gli italiani di domani e questo è inevitabile, o lo accetti o mi spiace sei fuori dal mondo e non puoi governarlo.
Chi presenta una assurda squadra di governo, prima ancora di essere eletto, sta solo mistificando e svilendo il processo democratico che porta dalle elezioni alla formazione di un governo (una delle cose più belle della democrazia). Gli stessi fantaministri che, prima ancora di esserlo accettano di andare in televisione e di essere esibiti come quarti di bue in una macelleria, che serietà possono avere? Chi ha denigrato con parole durissime e offensive il governo dei professori di Monti e ora ne presenta uno inventato, fatto solo di professori che serietà può avere?
Chi vuole essere eletto senza citare l'evasione fiscale nel suo programma e la lotta al problema più grande del nostro paese, che serietà può avere?
Il marcio c'è dappertutto, nessuno è onesto per volere divino e le vicende delle liste di questi giorni ci hanno dato una prima dimostrazione. Non è sulla presunta onestà che si può valutare un candidato. Sì, loro li espellono, ma buttandoli fuori dal partito non si assumono la responsabilità di averli scelti, se porti in parlamento un ladro o un mafioso, anche se lo butti fuori dal tuo gruppo, la responsabilità della scelta è sempre tua e il ladro o il mafioso resta comunque nelle istituzioni, perché ce l'hai portato tu.
Se portassi un cane in casa vostra e cagasse sul vostro divano nuovo, cosa fareste se dopo vi dicessi: "Da questo momento il cane non è più mio, non è mia responsabilità, io vado, ciao, adesso è vostro"?

Tralasciando il confronto fra le parti, in questi cinque anni è stato avviato un progetto. Per una volta, forse, i provvedimenti sono stati fatti con un'idea in mente, con un'idea di futuro, basato sulla cultura, sui diritti, un'idea di Italia moderna ed europea. La stessa idea che ha mosso Milano in questi anni, ma molto più difficile e lenta da attuare su scala nazionale, naturalmente. I governi in questa legislatura non hanno lavorato per avere un consenso immediato e per capitalizzare il voto di domenica, sono dei governi  che hanno iniziato cercando di dare una scossa, accelerando, facendo anche alcuni errori. Poi hanno pensato ad aiutare chi quella accelerazione non poteva sostenerla, e infine hanno stabilizzato.
Ora, essendo un progetto a lungo termine, come dovrebbe essere sempre un progetto di governo, ha bisogno di una fase due, e io vorrei che quella fase due sia attuata per non rendere inutile tutto quello che è stato fatto in questi cinque anni, ed è stato fatto molto, come potete vedere qui.
Questo è un voto per continuare, ma anche per cambiare e superare la costante instabilità del nostro Paese.



28 febbraio 2018

Quest'anno, contro ogni previsione, ho messo in fila dieci dischi per Rumore.
Non è stato semplice, ma neanche così difficile come pensavo. Come saprete se avete letto in passato le mie cose, non credo che le classifiche di chi come me non scrive per mestiere, siano molto valide. La quantità di dischi che ascolto in un anno non danno neanche lontanamente una visione veritiera di quello che possono essere le migliori uscite. Ma volendo dare il mio contributo al classificone di fine anno, ne ho stilata una personale.
Dato che fare un elenco senza spiegare il perché  questi dischi sono finiti in classifica (come invece era stato fatto per il classificone di fine anno), rimane un esercizio simpatico ma un po' limitante per ovvie ragioni di mancanza di spazio, ho pensato di fare come gli altri anni. Su queste pagine eleggevo uno o due dischi dell'anno e ne entravo in profondità, farlo per dieci non mi permetterà di spiegarli così bene, ma almeno spiegherò il motivo per il quale li ho scelti.
Purtroppo, nonostante le più rosee aspettative, questo pezzo ha dormito qui per un mese con solo le prime 4 posizioni spiegate, cercando di trovare il tempo di proseguire nella descrizione dei restanti album. Arrivati però al 27 febbraio: ora o mai più.





1. THE NATIONAL - SLEEP WILL BEAST
Non è un mistero che la band in questione sia una di quelle che più ho apprezzato in questi ultimi anni, ma questo disco va al di là del gusto personale. Sleep Will Beast è un disco enorme, per produzione, songwriting, arrangiamenti, testi. Inoltre rappresenta un svolta importante per la band, che finalmente e definitivamente buca quel muro che li voleva relegare per sempre a band di nicchia, per diventare uno delle band più importanti dell'indie statunitense e mondiale; al pari di Vampire Weekend, Strokes, Interpol, pur mantenendo un profilo molto più basso.
In Sleep Will Beast la band abbandona le strutture e l'impianto compositivo che da sempre l'ha caratterizzata. Abbandona l'impalcatura delle chitarre, per costruire molti pezzi al piano o su trame di sinth e batteria elettronica. Allo stesso tempo però da molta più importanza alle chitarre stesse, ritagliando spazi per assoli, interventi di noise e feedback, quasi riportando lo strumento alle sue radici punk, inserendola tuttavia in un contesto che punta più verso il cantautorato. Se vogliamo fare un paragone, è un po' quello che fa Warren Ellis con le trame colte e austere di Nick Cave.
Oltre a questo smonta anche tutto l'impianto ritmico, rinunciando ai pattern complessi e contorti, che fino a ieri davano un'impronta inconfondibile ai loro pezzi.
Spogliandosi di tutto ciò che ha caratterizzato le loro composizioni fino a qualche anno fa, sono riusciti a ripartire da zero, non perdendo però nulla del loro stile. Hanno usato la stessa materia primordiale per costruire in modo diverso: così facendo sono riusciti a dare sfogo a quel nervosismo, quella carica repressa e latente che caratterizzava tutti i loro pezzi. Quella carica che rimane compressa durante i loro live, per poi crescere e investire il pubblico con un onda che si propaga anche per i giorni successivi. Sono riusciti a convogliare questa energia, questa rabbia, che si avverte da sempre nei loro dischi, dargli un senso, uno scopo: scomporla in disperazione e rassegnazione, ma anche romanticismo, amore e speranza, nonostante la negatività dei testi di Matt Berninger.
Un pezzo su tutti che testimonia questa trasformazione è Guilty Party, un capolavoro assoluto e un classico che rimarrà negli anni.




2. ALGIERS - THE UNDERSIDE OF POWER
Erano già il mio disco dell'anno nel 2015, perché al giorno d'oggi vedere nascere un nuovo genere rappresentato da una sola band capace di esprimerlo non capita spesso. Gli Algiers questo hanno fatto. Hanno inventato il loro genere musicale, mettendo insieme il gospel, il blues e lo spiritual con l'elettronica, l'industrial e il post-punk.
Quando però ti muovi in bilico fra diversi generi è un attimo cadere, perdere la propria peculiarità o perdere in forza espressiva. Gli Algiers sono invece riusciti a mantenere l'equilibrio e, non contenti, hanno marcato confini  ancora più netti rispetto al precedente capitolo. Spesso però nel secondo disco le band perdono la capacità di scrivere pezzi efficaci e i singoli che hanno accompagnato il successo più o meno grande del primo diventano solo un lontano ricordo. Gli Algiers, invece, anche in questo caso sono stati capaci di mantenere alto il tiro, piazzando un paio di pezzi che sono già diventati capisaldi della loro produzione, come la title track e Mme Rieux, una ballata dove Franklin James Fisher ha totale libertà di movimento e viene fuori con tutta la sua voce: una voce importante del nostro tempo, che si porta dentro la storia di un popolo e di un genere nato per alleviare la sofferenza degli oppressi.
Gli Algiers hanno anticipato i tempi, portando la musica di rivolta nuovamente al centro dell'attenzione, ora quella rivolta la guidano con fermezza e autorità.



 3. GAYTHEIST - LET'S JAM AGAIN SOON
Dischi così ne escono pochi ultimamente. Quella botta, quella violenza, quel viaggiare sempre sul punto di rottura, il modo in cui le chitarre irrompono fuori dalle casse. Solo altre due volte negli ultimi anni mi è capitato di sentire un disco con l'urgenza di Let's Jam Again Soon: nel 2011 con Ruiner degli Whores e nel 2012 con l'esordio dei Metz.
I Gaytheist hanno messo insieme un disco che è un susseguirsi di rasoiate, veloci, letali. Non c'è respiro, sembra che non riescano a contenere la violenza che sfogano sugli strumenti e sul microfono. Continui stop and go, tempi dispari, cambi di tempo, la batteria che riempie ogni buco sotto le chitarre e sembra non volersi fermare mai, la voce che è continuamente sul punto di strapparsi e basso e chitarra che tritano qualsiasi cosa, come un compattatore di rifiuti.



4. SORORITY NOISE - YOU'RE NOT AS____AS YOU THINK
L'uno-due con cui parte questo disco basterebbe da solo per finire in questa classifica. Il riff iniziale di No Halo, con il suo ritornello che sembra fatto apposta da gridare in macchina; il ritornello strumentale di A Protrait Of, che ci vuole poco per ritrovarsi con una lacrima sulla guancia. Ma non è tutto qui. You're Not As... è un disco che sfonda i confini dell'emo, per portare il genere in una fase più matura, accostarlo al cantautorato e all'art rock.
Non è un caso se dopo il già citato uno-due iniziale, si tira subito il freno con una "lettera" pacata e sussurrata, che fa coppia con la traccia n.8, rispettivamente First Letter From St. Sean e Second Letter From St. Julien. Il tema della morte, sul quale si basa tutto il disco, viene fuori nudo e crudo sulla prima, con un ritornello che recita: "When your best friend dies and your next friend dies, and your best friend's friend takes his life". La seconda invece è un crescendo che esplode sul finale con un coro che è forse il punto più alto di tutto il disco: "And if there's a god, do I make him proud? Put a smile on her face? And if you're with god, am I making you proud, by waking up each day?".
Ma anche qui nonostante i testi pesino come un macigno, c'è sempre un velo di speranza e di redenzione nelle note dei Sorority Noise. Le frasi sussurrate, quasi recitate, miste a cori urlati e disperati, creano un saliscendi che fa scoppiare il cuore e viene voglia di urlare insieme a loro. 
In fondo, se i The National facessero emo, sarebbero i Sorority Noise.



La classifica completa:



23 febbraio 2018



La vicenda EMA è ormai ampiamente di dominio pubblico. Come tutti sanno, Milano, per l'assegnazione dell'Agenzia del Farmaco, era favorita fin dal principio, ma al voto finale è arrivata a pari merito con Amsterdam che ha vinto poi al sorteggio, come da regolamento.
Successivamente è sorto più di un dubbio sulla capacità di Amsterdam di soddisfare i requisiti e sono venuti fuori documenti secretati, sedi provvisorie che non erano quelle presentate inizialmente, dubbi sul crono programma dei lavori, sia per la sede provvisoria che di quella definitiva e non ultimo un aumento dei costi d'affitto. Insomma una vicenda non del tutto trasparente, tenuta nascosta molto probabilmente con la complicità di qualcuno che avrebbe dovuto valutarne la candidatura e che ora si è dimesso (il funzionario della Commissione Europea responsabile della procedura).

Dopo un primo periodo di incertezza, perché forse nessuno si sarebbe aspettato che l'Olanda usasse il gioco delle tre carte come un'italiano qualsiasi, il Comune di Milano e il Governo stanno spingendo forte per far sì che il verdetto, viziato da una condotta probabilmente scorretta, venga ribaltato.

Le speranze sono poche, ma quello che sta accadendo va al di là della sola assegnazione dell'Agenzia e si ricollega in parte al discorso che facevo sulle biciclette in condivisione.

Quello che sta accadendo è che l'Italia, guidata da Milano, un paese in cui l'Europa ripone pochissima fiducia nella capacità di mantenere il rigore e rispettare le regole, si trova in una posizione che fino ad oggi non aveva mai occupato. Sta dando lezioni di correttezza e legalità ad Amsterdam, all'Olanda e all'Europa tutta.

Andando a fondo nella questione, il Comune di Milano e il Governo stanno dimostrando che l'Italia non è più (o non solo) quella dei furbi e del malaffare, ma è quella che pretende che gli altri siano corretti come lo è stata lei in questa vicenda. Questo significa che oggi può competere, se non addirittura essere migliore di una paese del Nord Europa, se la scorrettezza di Amsterdam venisse confermata.
Come giustamente ha detto Sala: "Pensate se fossimo stati noi a fare una cosa del genere...".

Comunque andrà, molto probabilmente male, questa vicenda ci avrà fatto guadagnare un'immagine rinnovata e una credibilità che forse non abbiamo mai avuto.

Tutto questo, a mio avviso, è stato possibile principalmente grazie a un Sindaco che oltre ad avere avuto esperienze nell'amministrazione pubblica, è stato vicino al mondo corporate e alle aziende. Una persona che ha vissuto nelle stanze dove si prendono decisioni che muovono capitali, che sa come si spostano e sa come cogliere le occasioni per portarli a Milano, insieme ai tanti posti di lavoro che inevitabilmente prendono vita da questi capitali. Una cosa di cui Milano ha bisogno come l'aria per affermare la sua leadership in Europa.
Il capoluogo lombardo, con le opportunità aperte dalla Brexit, ha la possibilità di diventare una nuova piccola "city" e questo è solo il primo passo di una partita importantissima, che dipende anche da quello che uscirà dalle urne in Regione, il 5 marzo.
Ma su questo ci tornerò in un altro momento (spero di riuscire a farlo prima del 4 marzo).

27 gennaio 2018



Il fascismo, il nazismo, l'olocausto ci sembrano sempre delle cose lontane, che sono capitate in un periodo buio e non possono capitare più. Queste piccole pietre invece, più di ogni altra cosa ti fanno capire che il nazifascismo era molto più vicino a noi di quello che sembra, nella nostra vita di tutti i giorni.

Solo nel mio quartiere, Piola, Città Studi a Milano ce ne sono quattro, una in Via Stradella, una in Via Plinio, una in Via Lombardia e una in Via Spontini.

A due passi da casa mia le persone venivano portate via e non tornavano più a casa, neanche in una bara.

Lì dove spesso andiamo a prendere una pizza (il primo "Spontini" in Via Spontini), che dicono sia la più buona di Milano ma non è vero, almeno non più, hanno portato via una persona, un italiano, una persona che è nata e vissuta qui, solo perché la pensava diversamente, o perché era di origine ebrea, rom, sinti, omosessuale, disabile. Ieri erano gli ebrei, oggi i migranti, domani saranno le persone con gli occhi azzurri, dopo domani sarai tu. La paura ingiustificata e l'ignoranza trovano sempre uno sfogo se non sono combattute.

La pietra nella foto è stata posata qualche giorno fa in Via Lombardia e la notte stessa è stata sfregiata, molto probabilmente dagli stessi vigliacchi che qualche mese fa hanno vandalizzato un'altra pizzeria, Little Italy in Via Tadino, solo perché è una pizzeria gay friendly.

Hanno marchiato la vetrina e i muri, proprio come si faceva poco tempo prima che le persone iniziassero ad essere portate via per non tornare più.

Per questo, così come quella volta ho pubblicato l'articolo sulla pizzeria su Facebook, dicendo a tutti di andarci, perché è quella la vera pizza al trancio più buona di Milano, ora pubblico la foto di questa pietra. Vi invito ad andarle a cercare, sono molto importanti per capire cos'è stato e cosa potrebbe essere ancora se abbassiamo la guardia.

Perché ogni volta che qualcuno cerca di cancellare o dimenticare la storia noi dobbiamo impegnarci affinché le persone intorno a noi mantengano viva quella memoria.







10 gennaio 2018



Il copione di Di Battista in TV ormai è abbastanza prevedibile.
Quando non sa cosa rispondere, o deve dare una risposta troppo netta che possa scontentare una parte dell'ampio e nebuloso bacino elettorale dei 5 Stelle, butta lì un "reddito di cittadinanza" a caso, accusa gli altri di rubare e nel mentre alza il tono di voce per chiamare l'applauso.
Ieri sera a Dimartedì ad un certo punto questo giochino si è inceppato. Così è andato in scena uno scambio di battute surreale e imbarazzante, sulle coperture finanziarie dell'eventuale abolizione della Legge Fornero. A volte solo trascrivendo una conversazione se ne può capire il senso, ma in questo caso ciò che viene fuori è un vuoto spaventoso, che chi si propone di governare il nostro Paese (i 5 Stelle, non Di Battista) non si può permettere.

FLORIS: Quanto può essere la spesa affrontabile per il percorso di riforma della Fornero dal punto di vista dei 5 stelle....

DI BATTISTA:  Il Movimento non ha mai avuto a disposizione il bilancio dello stato, quel che ha avuto a disposizione è un'esperienza...

FLORIS: Beh, sono 20 miliardi...

D: un'esperienza....

FLORIS: Sono venti miliardi... venti miliari ogni anno nella...

D: Un'esperienza nell'opposizione di discussione di provvedimenti finanziari che c'è stata in commissione bilancio...

F: Beh ma di venti miliardi, quanti ne pensate di coprire e in che modo per riformare a questo punto gradualmente la Legge Fornero?

D: Le ho già risposto in questo momento. Noi...

F: Sì due miliardi... (si riferisce alla legge anticorruzione)

D: L'intervento sul reddito di cittadinanza consente chiaramente e oltretutto di intervenire sulle pensioni, aumentando le pensioni minime a 780 euro al mese. E questo è un altro modo...

F: No questa è un'altra uscita, parliamo delle entrate...

D: Certo, però è un modo di intervenire...

F: Si somma ai 20 miliardi.

D: ... In una problematica che è quella relativa alle pensioni minime in Italia che è complessivamente...

F: Sì però questa è una spesa ulteriore ai 20 miliardi...

D: che le coperture le abbiamo trovate...

F: Ok, invece parliamo della Fornero.

D: Già le ho detto, con delle leggi che sono passate nel dimenticatoio di questa campagna elettorale, che sono la legge relativa al conflitto di interesse, legge relativa al...

GIANNINI: ma quelli non sono soldi, mi scusi...

D: Assolutamente sì, perché nel momento in cui tu contrasti, e mi meraviglio di lei che con Repubblica ha fatto vent'anni di battaglie, con la legge sul conflitto di interessi crei competitività e fai sì che il potere non sia accentrato nelle mani di pochi, lei lo sa perfettamente, rifacendo ripartire chiaramente...

GIANNINI: Quelle sono risorse dei privati, mi perdoni, qui stiamo parlando di denaro pubblico, per le pensioni serve denaro pubblico.


Intorno a questo scambio serrato, Di Battista parla come al solito di banche, si prende lo spazio per rifiatare, raccontare la situazione attuale e cercare di uscire dall'imbarazzo. Parla di legge anticorruzione e di sistemi piuttosto empirici di recupero dei soldi, senza mai dare cifre, senza indicare mai un provvedimento chiaro. Dice che bisogna avere il bilancio in mano per trovare le spese da tagliare, ammettendo implicitamente che non ha idea di dove siano quei 20 miliardi.
Indica anche provvedimenti sul lavoro e sul precariato come rimedio (indispensabili per facilitare l'ingresso al lavoro dei giovani), che però impiegano anni a far vedere risultati concreti e di certo non raggiungono i fatidici 20 miliari, neanche mettendoli insieme al recupero di denaro derivante da norme anticorruzione (altro provvedimento indicato in modo abbastanza confuso e senza avere idea delle cifre).
Qui trovate il video originale così potete valutare.

Ricordo che la Manovra finanziaria Monti, una delle più dure e contestate della storia, che fra le altre cose comprendeva anche tagli ai costi della politica, arrivava a 30 miliardi: 20 per coprire il deficit e 10 per interventi di crescita. Qui si parla di venti miliardi l'anno solo per coprire i costi, praticamente una manovra Monti all'anno alla quale si sommano le risorse per il reddito di cittadinanza.