20 settembre 2018



In Italia la musica indipendente è ormai intrappolata dentro due macro categorie indissolubili: da una parte l'indie-it-electro-pop-cantautorale, dall'altra l'emo-post-qualsiasicosa. Due contenitori già sovraffollati da anni, nei quali però si trova sempre spazio per l'ennesima uscita uguale a tutte le altre venute prima, salvo alcune eccezioni. È facile in fondo. Ci si affida a un pubblico settoriale, con canali ben delineati, ci si appoggia un po' a tutto ciò che è venuto prima, prendendo un po' da uno e un po' dall'altro, ci si conosce tutti, ma soprattutto si è tutti parte di un "sistema", prima o poi tutti organizzano un concerto, tutti avviano un ufficio stampa o una booking, tutti scrivono di musica, tutti fanno un disco, tutti fanno foto, le persone che ascoltano e basta si contano sulle dita di una mano, quindi a pochi conviene esporsi con giudizi negativi su una band o un artista se sono già entrati nel giro. Così va a finire che si galleggia a distanza di sicurezza dalla mediocrità, nessuno fa cagare, ma allo stesso tempo nessuno fa la differenza. Questo succede anche a causa di una costellazione di microetichette, microbooking, micro uffici stampa, dotate di buona volontà e buone intenzioni, ma che in molti casi non hanno i mezzi per permettere a una band o a un artista di crescere.
Difficilmente qualcuno che faccia qualcosa di originale, che mischi le carte, qualcuno che segua un percorso personale e fuori dagli schemi trova spazio, perché invece di premiarlo si tende a isolarlo, perché altrimenti si devono creare canali che non ci sono, bisogna creare un pubblico nuovo ma si tende a rimanere nel proprio orticello: è più semplice e si raggiungono gli stessi risultati con meno sforzi.
Per riuscire a farsi spazio un artista con le caratteristiche sopra elencate, deve essere veramente bravo, anzi deve essere molto, ma molto più bravo di quelli che solitamente lo occupano quello spazio, e per prenderselo la sua qualità deve essere incontrovertibile.

Questo è accaduto nel 2015 con l'esordio degli Any Other, grazie (davvero, grazie) a un'etichetta che (guardacaso) era un po' fuori da tutti i giochi di ruolo di cui sopra, essendo nuova: la Bello Records di Massimo Fiorio e Rossana Savino.



La musica di Adele Nigro non è mai stata facilmente catalogabile, mi stupii molto vedere quanto circolò all'inizio Silently, Quietly, Going Away, quanto se ne parlò (più perché l'etichetta era gestita da un gatto che per il disco, se vogliamo dirla tutta, ma è stata una mossa intelligente), perché era chiaro che era un qualcosa che rompeva gli schemi, ma ancora non potevamo immaginare quanto.
Il primo album degli Any Other non era né cantautorale, né emo, né electro, né punk. Andava a pescare in quell'indie anni '90, un po' Built To Spill, un po' Courtney Barnett, un po' Speedy Ortiz, che in Italia non ha mai avuto una vera scena e oggi men che meno. Non era un disco difficile però: si basava principalmente su accordoni di chitarra con un leggero crunch e su un impianto di basso e batteria molto semplice e funzionale ai pezzi, ma si sentiva subito che aveva qualcosa di speciale.
Le linee vocali di Adele erano già molti gradini sopra la media italiana, il suo modo di cantare era ed è totalmente slegato dagli stilemi della canzone popolare italiana, cosa rarissima, perché volenti o nolenti l'abbiamo tutti nel nostro dna e si sente anche nel disco più hardcore che abbiate mai fatto.
Nonostante questo però, non ha avuto lo spazio che si meritava.





Silently ecc. però era solo un passaggio, forse obbligato, una piattaforma solida su cui poggiare una rampa di lancio, perché ad ascoltare il nuovo Two Geography, il precedente disco sembra un esercizio, un gioco. La ragazza è cresciuta musicalmente molto più che anagraficamente in questi tre anni.
L'impianto della band classica, chitarra basso batteria, viene lasciato da parte per fare spazio a strumenti nuovi e ad arrangiamenti di matrice più acustica, la chitarra elettrica quasi sparisce, ed entrano nello spettro, violini, fiati, pianoforti e Rhodes. Quella che prima sembrava una band vera e propria ora suona come un gruppo di turnisti al servizio della cantante. C'è molto più spazio per far risaltare le doti di Adele, che non si lascia pregare e sfrutta quello spazio come nessun'altra sarebbe in grado di fare.



La cosa che lascia piacevolmente spiazzati sono gli arrangiamenti: quando serve si cerca sempre la soluzione diagonale, inaspettata, i pattern di batteria caratterizzano in modo particolare l'andamento dei pezzi, con soluzioni che oserei definire "nationaliane" (in questo senso il cambio di batterista è stato fondamentale), come si può sentire già al primo impatto con il singolo Walkthrough. Tutto questo senza però esagerare, perché il disco ha due anime, una possiamo definirla "jazz", dove le soluzioni citate sono la caratteristica principale, oltre alle linee vocali sorprendenti, e un'altra folk, dove, con molta intelligenza, si va verso il minimalismo, lasciando la chitarra acustica in primissimo piano, impreziosita solo da alcuni interventi discreti, che siano violini, o batteria spazzolata (o anche nulla) come in Breastbones, che profuma molto di Sufjan Stevens.
È come giocare a uno sparatutto, in cui tu punti principalmente verso il centro dello schermo, perché la maggior parte dei cattivi da uccidere arrivano da lì, invece quando meno te l'aspetti ne salta fuori uno dall'angolo in basso a sinistra ed è GAME OVER.
Gli arrangiamenti di Two Geography sono così, ti mandano sempre in game over.
Già l'apertura del disco non è il solito pezzo "confortevole", quello che serve a convincere l'ascoltatore a proseguire, è una pennata continua di chitarra acustica, che ricorda il Josh T. Pearson di Last Of The Country Gentlemen, un momento di attesa, di sospensione, che poi "esplode" nel finale. Tutto l'album è una continua alternanza fra pezzi "difficili" e ballate acustiche. L'unico pezzo che ricorda da lontano i vecchi Any Other è Perkins, dove la chitarra elettrica torna protagonista sul finale e si risente una batteria con un 4/4 classico. Il resto è una piccola grande rivoluzione.
Sul finale poi, dopo un probabile singolo (giuro di averlo scritto prima che uscisse) come Capricorn No arriva forse il pezzo più audace, in cui gli strumenti formano un tappeto elastico, di quelli un po' sgualciti, sui quali è poggiato uno leggero strato d'acqua dopo un temporale. Un tappeto fatto di lunghi accordi e vibrazioni di fiati e batteria che increspano l'acqua, sopra al quale la voce di Adele rimbalza e si diverte con evoluzioni a corpo libero, per poi finire un una nebbia sonica di feedback acustico e ripetizioni ossessive e psych.



Un disco eterogeneo ma con un forte carattere, che testimonia una crescita e una maturità sorprendenti, oltre a una voglia di migliorarsi e di sperimentare che nei prossimi anni spero possa portare il progetto ad essere una realtà internazionale consolidata.
Perché gli Any Other non hanno bisogno di spazio in Italia, la partecipazione al Primavera Sound non è un caso, così come non lo è il tour europeo intrapreso ancora prima di presentare il disco in Italia (cosa che succederà quest'inverno). Siamo noi che abbiamo bisogno di Adele Nigro e soci e di molti altri come loro per far crescere tutto l'indie italiano. Per dimostrare a tutti che si può e si deve fare spazio anche a chi non ha un contenitore prefustellato, perché se progetti come questo trovano spazio ne guadagnano tutti, si creano nuovi canali, si arriva a persone nuove, creando un piccolo ma indispensabile ricambio nel pubblico che segue i concerti e le uscite discografiche di un certo tipo. Serve ossigeno nuovo in un ambiente che tende troppo spesso a chiudersi su sé stesso e gli Any Other sono una bombola di ossigeno da 20 litri.
Con largo anticipo, questo sarà per me il miglior disco italiano del 2018 e uno dei migliori in assoluto dell'anno, non tanto per il valore assoluto, perché il percorso è appena iniziato e ha comunque alcuni piccoli difetti che però lo rendono fresco, stimolante, ma perché esprime un potenziale enorme.
Sembrerà un azzardo ma qui siamo di fronte a una nuova Fiona Apple, o, essendo la chitarra acustica il suo strumento principale, a una nuova Ani Di Franco. Ma non la nuova Ani Di Franco italiana, la nuova Ani Di Franco e basta.



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