5 dicembre 2015
Natale con Bill Murray
Cosa aspettarsi da "A Very Murray Christmas"?
Da superfan di Bill Murray non ho aspettato un secondo per vedere il film (che poi in realtà è un corto) di Bill Murray prodotto da Netflix. L'ho visto senza avere la minima idea di che cosa fosse, e quando c'è di mezzo Bill Murray c'è da aspettarsi di tutto.
Questa volta ha stupito ancora, con la cosa più semplice del mondo. Cos'è il Natale? Facile, le canzoni di Natale.
I primi cinque minuti di film vien voglia di passare ad altro, sono sincero, non si capisce cosa sia e dove voglia andare a parare, ma quando ci si abitua all'idea che non è altro che una carrellata di canzoni di natale legate da una trama ridotta a pochi secondi, A Very Murray Christmas diventa una delle cose più natalizie di tutti i tempi.
La storia è semplice quanto minima: Bill Murray deve condurre uno show per Natale, ma New York è completamente bloccata dalla neve e gli ospiti non ci sono. Da questo pretesto si sviluppa una carrellata di canzoni di Natale, che per quanto detto così possa sembrare una cosa pallosissima alla fine Bill riesce a tirare fuori, non so come, un film che scalda il cuore.
Gli ospiti lo aiutano molto, per citarne un paio, i Phoenix, George Clooney e Miley Cyrus che stranamente non lecca nulla. Anzi, se ancora ci fossero dubbi, fa capire quanto sia maledettamente brava, facendoti rizzare i peli con una Silent Night da paura, ve lo dice uno che non ha mai sopportato molto le canzoni di Natale.
A Very Murray Christmas è un film da mandare in loop dalla vigilia al giorno di Natale, per sentire alcune fra le più belle e meglio eseguite canzoni di Natale di sempre. L'essenza sta tutta nel titolo, Bill Murray vi augura un Natale alla sua maniera, e mai augurio è stato più sincero e caldo come il suo, sembrerà quasi di averlo in casa a pranzare o a cenare con voi.
Dimenticavo, ad accompagnare tutte le canzoni c'è Paul Shaffer al piano, proprio lui, che, nel caso non vi foste accorti durante le migliaia di puntate di Letterman, è un musicista immenso.
20 novembre 2015
Ellis (breve recensione)
Nel pomeriggio di ieri vengo a conoscenza del fatto che a Macao (Milano) proiettano Ellis, un corto di JR con Robert De Niro e colonna sonora di Woodkid e Nils Frahm.
Pur non trovando nessuno che mi accompagni decido di andare comunque, perché essendo un corto potrebbe essere l'unica possibilità di vederlo proiettato in una sala (non una sala professionale ma sempre meglio del televisore di casa).
Ammetto di essere stato attratto più dalla colonna sonora che dal film in sé, che comunque sapevo essere un corto di gran livello.
Sì è rivelata una scelta giusta, perché Ellis è effettivamente un corto di grande intensità.
Il tema, come si può dedurre dal titolo è quello dell'immigrazione, tutto il corto è girato a Ellis Island, all'interno delle stanze che videro transitare circa quattro milioni di italiani nel corso degli anni in cui l'isola era tappa obbligata per chi voleva approdare in America.
Il film si snoda fra una fotografia che lascia senza fiato e la voce fuori campo di Robert De Niro che racconta la "sua" storia di migrante. Mentre la sua voce racconta la storia, l'attore cammina all'interno delle stanze con una valigia, interpretando una sorta di ritorno in un luogo pieno di ricordi che lo hanno segnato. All'esterno è tutto ricoperto di uno spesso strato di neve e il fiato all'interno dell'edificio, si condensa in spesse nuvole. Per tutto il film il Robert attore non parla mai, se non una piccola, commovente, frase che è in sostanza il fulcro di tutto il film.
Ci sono due sequenze che lasciano letteralmente senza fiato: la prima è quando De Niro entra in una stanza molto ampia, sul cui pavimento sono adagiate migliaia di foto di persone, i volti dei migranti, di ogni razza e di ogni colore, la seconda è una sequenza in bianco e nero, molto Woodkidiana, durante la quale esce all'esterno e si incammina nella neve verso il mare grigio.
Visto il tema e il periodo forse un approccio un po' più deciso avrebbe colpito di più, ma la scelta è quella di un lavoro più concettuale che di denuncia, qualcosa che si deposita con delicatezza nella coscienza e rimane lì per crescere. Del resto basta un immagine di Manhattan ripresa da Ellis Island per capire la sofferenza e la frustrazione dei migranti bloccati a un passo da una nuova vita, lì di fronte a loro, vicinissima a patto di passare i controlli sull'isola, altrimenti irraggiungibile.
In tutto questo la colonna sonora è un elemento determinante per l'emotività che il film vuole trasmettere e inaugura una collaborazione che, visti i risultati, mi auguro possa continuare a lungo.
29 aprile 2015
L’ITALICUM E LA PAURA DI DECIDERE
Quello italiano è un popolo abituato a non decidere, a
partire dalla prima guerra mondiale nella sua storia l’Italia è sempre rimasta a guardare, per decidere una volta
delineato il quadro, oppure non decidere affatto.
La situazione interna non è mai stata molto diversa. Il
voto è sempre stato un voto dato ciecamente al partito di appartenenza, chi votata PCI ha
sempre votato PCI, chi votava DC ha sempre votato DC.
Anche dopo la Prima Repubblica, la situazione non è cambiata, l’italiano o votava Berlusconi o
votava chiunque piuttosto di non far vincere Berlusconi, con minimi movimenti verso uno o verso l'altro schieramento. Ma il voto fino ad oggi è sempre stato una mezza scelta. Perché in fondo si sapeva che chi saliva al governo non avrebbe mai
fatto delle scelte nette, non avrebbe mai dato quella svolta nelle riforme per
preparare il Paese al futuro. A nessuno interessava, perché fare scelte
significa inevitabilmente scontentare qualcuno, e i partiti non hanno mai
voluto scontentare nessuno.
In fondo neanche a noi importava che il governo portasse
dei cambiamenti, tutti stavano bene, tutti mangiavano (nel senso negativo del
termine), non c’era selezione naturale, l’importante era vivacchiare, tenersi il
proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, senza fare il minimo sforzo in
più del necessario, o tenere attiva la propria azienda senza la fatica di
immaginare nuovi mercati e nuovi investimenti, senza guardare al domani, ed
evadendo le tasse appena possibile.
Ora non ce n’è più per nessuno e siamo costretti a
decidere, ad agire. Ma questa cosa ci fa una paura fottuta, perché bisogna rischiare,
bisogna immaginare un futuro che non è già scritto, bisogna inventarsi qualcosa
ed essere audaci, propositivi, attivi, intelligenti e pronti a cogliere il
minimo cambiamento. Così si scopre che non tutti sono in grado, non tutti sono
bravi, la selezione naturale fa il suo corso, la meritocrazia inizia a farsi
largo, ma non perché viene calata dall’alto, ma perché adesso siamo soli, non
c’è più il datore di lavoro al quale leccare il culo per tutta la vita, non ci sono più tutte quelle macroaziende parastatali dove ci si rifugiava una volta, magari con la raccomandazione dell'amico o del parente. Se sei
bravo ce la fai, se non sei bravo stai a casa.
In tutto questo quadro di incertezza si inserisce il
lavoro del governo, il primo in vent’anni che applica una semplice regola della democrazia: la maggioranza vince (e decide).
Fino ad ora c’è stata un'interpretazione tossica della
democrazia, che faceva un gran comodo a tutti: la maggioranza vince, ma la vittoria è
interpretabile a proprio piacimento e se la minoranza dice no, allora non
facciamo nulla per non scontentare nessuno.
Se invece la maggioranza vince allora bisogna decidere, bisogna
fare, bisogna cambiare le cose per impostare il futuro, non ha scuse, e se
sbaglia ne pagherà le conseguenze. Fino ad oggi chi ha sbagliato è sempre stato
rieletto, in un modo o nell’altro, con un nome nuovo o con un nuovo simbolo.
Perché oggi non si può più fare a meno di
pensare al domani, siamo già indietro di quarant’anni e ne stiamo pagando le
conseguenze da almeno otto. Il futuro arriva molto più velocemente di
prima e se non si prepara il campo si viene spazzati via.
L’italiano a questo punto è costretto a farsi un’idea anche dopo
le elezioni, a stare attento alla vita politica perché si fanno cose che
incidono pesantemente sul suo futuro, ma non è abituato e quindi fa fatica. Fa
fatica a farsi un’idea partendo dai fatti e allora è più comodo affidarsi agli
slogan, al qualunquismo, alle frasi fatte. È più comodo gridare all’attacco
alla democrazia, al fascismo piuttosto che analizzare i pro e i contro di una
legge.
E’ più comodo ripetere a pappagallo le dichiarazioni spot
di Brunetta o di Salvini, o credere alla minoranza del PD, quella che in
vent’anni non ha mai preso una decisione e non ha mai risposto a una domanda,
piuttosto che andare a guardare cosa c’è dentro la legge.
Questo ai partiti e alle persone che hanno deciso le sorti del paese e hanno
causato crisi di governo con il 3% dei voti fa molta
paura. Fa molta paura abbandonare quell'idea tossica di democrazia, per la quale il 3% degli eletti
possa mandare a monte quello che ha deciso il 30 o 40%.
Inoltre con questa legge elettorale non si può più andare
nell’urna mettendo una croce a caso, o votando lo stesso partito che hai votato
per trent’anni perché tanto poi non combinano nulla.
Bisogna andare a votare
con cognizione di causa e se non siamo in grado di farlo la colpa non può esse
dell’Italicum.
Facile gridare all’attacco alla democrazia, al fascismo,
facile seguire la frustrazione di chi per 20 anni è stato a capo di un partito
non considerando minimamente la minoranza al suo interno e ora si trova a fare
parte proprio di quella minoranza, e dei giovani vecchi pronti per saltare sul
carro del vincitore che si sono ritrovati invece a piedi a minacciare
dimissioni.
Poi ci sono quelli che dicono che in questo momento ci
sono cose più importanti della legge elettorale. C’è sempre qualcosa di più
importante rispetto a quello che stai facendo, io sono qui a scrivere, voi
siete a casa o al lavoro, ma là fuori ci sono delle vite da salvare, che fate
ancora lì?
Una legge che viene rimandata dal
2006, la cui alternativa al momento è stata decisa da un tribunale, che da la
possibilità a chi vince di poter finalmente decidere e agire, non vedo cosa ci
sia di più importante in un paese democratico.
Grazie a Bersani, Vendola, D’Alema, Bindi (mi vengono i brividi a mettere questi nomi in fila) abbiamo vissuto nell’incubo di Berlusconi, con la paura assurda e assolutamente fuori da ogni realtà possibile, della deriva autoritaria e dittatoriale, con lo scopo di portare più voti alla sinistra. Scopo mai raggiunto da loro, come si è visto.
Grazie a Bersani, Vendola, D’Alema, Bindi (mi vengono i brividi a mettere questi nomi in fila) abbiamo vissuto nell’incubo di Berlusconi, con la paura assurda e assolutamente fuori da ogni realtà possibile, della deriva autoritaria e dittatoriale, con lo scopo di portare più voti alla sinistra. Scopo mai raggiunto da loro, come si è visto.
![]() |
Un quadro sintetico e spietato della situazione attuale da parte di Francesco Costa (Il Post) |
Ora si cerca
di gettare la stessa ombra sull’Italicum, diffondendo la paura dell’attacco
alla democrazia e della dittatura. Ieri Chiara Geloni a Otto e Mezzo sosteneva
la teoria della dittatura facendo leva sul fatto che una legge elettorale come l’Italicum non c’è in
nessun paese europeo.
Partendo dal fatto che nessun paese europeo ha una storia
neanche lontanamente paragonabile a quella dell’Italia, e la realtà politica
italiana è indietro di una cinquantina d’anni rispetto agli altri, ma è sempre necessario fare le leggi copiando quelle degli altri paesi?
Quello che
funziona in Francia non è detto che funzioni in Italia, anzi è molto probabile
che non funzioni. Oggi non basta più limitarsi a copiare e adattare le leggi
degli altri, bisogna fare un passo più in là, bisogna rischiare e la fiducia
posta sulla legge elettorale fa parte di questo rischio.
Hanno giocato tutti fino ad ora pensando che come al
solito fosse una farsa, che poi alla fine non si sarebbe fatto nulla, poi una
volta messi di fronte alle proprie responsabilità si sono sfilati ad uno a uno,
prima Forza Italia, poi la minoranza PD e via via gli altri (tutti hanno partecipato attivamente
alla scrittura della legge).
La tattica (palese) era votare sì nelle prime battute per
poi mandare tutto all’aria e rimandare a data da destinarsi. Non è possibile
che dopo le barricate dei giorni scorsi alla prima votazione sulle pregiudiziali
siano diventati tutti agnellini. Renzi, come dovrebbero aver già capito (ma
forse no), non è scemo e li ha messi nell’angolo.
Poi se sarà deriva autoritaria non sarà certo colpa
dell’Italicum ma di quello che si voterà con l’Italicum, quindi sarà comunque
colpa nostra, come sempre. Magari ci darà la possibilità di fare la prima rivoluzione
nazionale e sentirci finalmente un Paese unito, ma nel caso dovesse succedere,
avrete sicuramente qualcosa di più importante da fare e non sarà salvare delle vite.
A prescindere dalla validità o meno della legge, non è l'Italicum che ci fa paura, la paura di chi sta in parlamento e anche di chi si recherà alle urne poi, è che il nostro prossimo voto possa decidere veramente le sorti del nostro paese.
20 febbraio 2015
Cuore e chitarre: i dischi dell'anno.
Sono ormai settimane, mesi che penso a quale possa essere
stato il mio disco del 2014, senza trovarlo. Ho scandagliato le varie
classifiche che sono uscite senza trovare uno spunto che mi potesse dare una
mano. Perché in tutte queste ci sono dei grandi dischi, come quello di The War
on Drugs o St. Vincent (che ci è andata vicino all’essere il mio disco
dell’anno).
Però il ruolo di una classifica secondo me dovrebbe essere
quello di tirare fuori cose inaspettate, oltre a quelli che
oggettivamente sono stati i dischi migliori, bisognerebbe andare a cercare
indietro, scavare in quei dischi dei quali si è parlato poco, o di cui non si è
parlato affatto, perché col tempo la percezione di un disco può essere
cambiata. Che senso ha fare mille classifiche se poi sono tutte identiche,
cambiano solo le posizioni in cui sono messi i dischi?
Mi pare inoltre che il successo di pubblico in alcuni casi
sia una discriminante per l’ingresso in graduatoria. C’è stato un flame pazzesco
sulla classifica di Rolling Stone, accusato di aver messo in prima posizione
gli U2 e in seconda Bruce Springsteen. Il primo posto è esagerato, sicuramente,
ma anche se avessero fatto il disco più bello della storia della musica, non
sarebbe stato comunque inserito in nessuna delle classifiche delle testate meno
popolari (inteso come target).
Quella di RS è stata l’unica dove ho trovato cose più
popolari, mainstream, per quanto questo termine non valga nulla ormai, mischiate a cose più nascoste e meno conosciute. Ho trovato molti più spunti
interessanti nella sua che in molte altre che hanno messo ai primi
posti Kozelek, the War on Drugs e St. Vincent.
Tornando a me, ho cercato di capire il perché di questa
difficoltà a trovare il disco dell’anno. La prima potrebbero essere le
collaborazioni con Rumore e DIYSCO (a proposito avete già dato un occhio al
sito? Ci sono un sacco di band interessanti). Oltre a qualche recensione e
report che scrivo saltuariamente, le rubriche che tengo, GigLife sul sito e In
Arrivo sul cartaceo per Rumore e Banquet per DIYSCO, mi portano ad ascoltare
moltissima roba.
Per quel che riguarda Rumore, pur essendo una rubrica che
segnala i live in arrivo, non è così banale come sembra. Lo scopo che mi sono
prefissato è quello di dare un motivo, di spiegare il perché un live è
segnalato, perché bisogna andarlo a vedere, e segnalare solo quelli che vale la
pena vedere. Così per ogni concerto o tour, a meno che non conosca già la band
o l’artista, devo ascoltare, informarmi, valutare.
Questo mi ha fatto scoprire un sacco di cose nuove, ultimi i
Lonely the Brave che hanno fatto un disco che fa scoppiare il cuore (che ho scoperto troppo tardi, ma sarebbe stato in ballottaggio), ma per
forza di cose ha frammentato un po’ i miei ascolti.
Anche per Banquet su DIYSCO, occupandomi di etichette e
tutto quello che fornisce e produce musica, per ogni puntata vengo a contatto
con una nuova realtà che produce un tot di dischi, di band, e devo ascoltare, capire, vedere chi vale la pena segnalare nell’articolo e anche in questo caso gli
ascolti si frammentano.
In ogni caso consiglio vivamente a chi inizia a scrivere di
musica di tenere una rubrica che lo obblighi a venire a contatto con tante band
in poco tempo, come quelle che curo io, perché ci si fa una cultura ampia e diversificata
in un attimo.
Altro elemento di disturbo è stato Deezer, invenzione meravigliosa
e mai più senza, ma devo ancora farci l’abitudine. Perché in qualche modo rende
ancora più sfuggevole la musica, almeno per come lo uso io. E’ tutto lì a
portata di mano e puoi ascoltare tutto in un secondo, senza dover cercare,
senza scaricare, è lì, devi solo schiacciare play.
Prima ascoltavo un disco intero solo se mi interessava
veramente, se i singoli o i pezzi che trovavo in rete mi soddisfacevano tutti,
ora essendo raggiungibile senza nessuna fatica, credo di aver perso parecchio
tempo quest’anno ad ascoltare dischi che poi alla fine si sono rivelati niente
di che.
Roba da fessi, lo so, ma quando ti piace la musica
ascoltarne il più possibile sembra il modo migliore per soddisfarne la voglia,
ma il più delle volte non è così. Almeno per me.
Nel 2014 poi ho comprato molti vinili e me ne sono stati
regalati, che per me sono il modo migliore per ascoltare musica (per me,
ribadisco, no voglio aizzare la faida), ma pochi sono stati quelli usciti
nel 2014. In ogni caso uno di quelli che ho comprato sarà un disco di cui vi
parlerò.
Allora ho cambiato tattica e ho pensato, qual è il disco che
ho ascoltato di più? Quali sono quelli che ho consumato?. Ecco. A volte,
soprattutto chi ha a che fare spesso con la musica e ancora di più chi ne
scrive, dimentichiamo che al di là di tutto c’è anche il cuore. La musica che
colpisce lì è quella che ci portiamo dietro per tutta la vita. Mi rendo conto
che facendo questo discorso posso sembrare Simona Ventura a X-Factor, ma è così e lo sarà sempre e non è un aspetto da sottovalutare.
Ok l’arrangiamento geniale, il tempo che ti stupisce, il
suono nuovo e la soluzione intelligente che rende la band o l’artista degno di
considerazione e cool, ma ci sono un sacco di dischi che non vengono recensiti
bene, o non vengono neanche considerati, che hanno dentro qualcosa che abbatte
le tue difese ti conquista. La musica è anche cuore, intrattenimento, puro
piacere di ascoltare una bella canzone, altrimenti saremmo solo dei medici legali
che fanno autopsie ai dischi.
In un futuro inevitabilmente fatto di elettronica, nel quale
le band come le abbiamo conosciute fino ad ora avranno sempre meno spazio, così
come le chitarre, ho individuato due dischi e due band uscite l’anno scorso
che hanno avuto la capacità di aprirmi in due come un’accetta. Due band dove le
chitarre sono l’elemento principale e il punto di forza, dove le chitarre non
fanno nulla di clamoroso ma sono lì a fare quello che serve e lo fanno al
massimo. Tanto che non mi capitava di stupirmi per due dischi di matrice punk
(solo la matrice, perché poi sono molto diversi dal punk) da secoli.
Il primo in ordine di uscita è la mia copertina Facebook già
da un po’, ma non è lì per quel motivo, anzi ci è finita piuttosto casualmente,
perché volevo cambiare e non sapevo cosa mettere.
Questo è un disco che è cresciuto piano piano, al primo
ascolto mi è stato quasi indifferente, ma ci ho colto una sofferenza che mi ha
tenuto lì incollato. Perché la sensibilità di chi ha passato qualche brutto
momento è sempre qualcosa di prezioso, una sorta di sesto senso. Quando colgo in qualcosa
questa sensibilità, so che mi devo soffermare un attimo in più rispetto al
resto, perché lì c’è qualcosa che non troverò da nessun’altra parte.
Così è stato per i Nothing, ascolto dopo ascolto mi si è
cucito addosso, è entrato dentro e ha iniziato a scavare. Fino a diventare un
compagno di tutti i giorni. Davvero. L’ho ascoltato ininterrottamente per non
so quanto e ogni volta mi piaceva e mi piace sempre di più.
La cosa che più mi colpisce di Guilty of Everything ogni
volta sono le distorsioni. Non è un disco metal o hardcore, ma
le distorsioni sono così cariche che sembrano esplodere, allo stesso tempo però
sono calde e liquide, le chitarre sanguinano, sono come un’abrasione sulla
pelle.
In questa tempesta di rumore impastato di tristezza, la voce
è un sussurro lontano, caldo, rassicurante.
I testi sono ermetici, brevi, versi di poche parole,
strutturati come poesie e pesanti come macigni.
Spent
summer in a well
Watching
pale moons disappear
Alone
And crucifixion seems noble
When
paradise is hell
Alone
Queste sono le prime parole del disco, il benvenuto:
Passare l’estate in un buco
Guardando lune pallide che scompaiono
Da solo
E la crocifissione sembra nobile
quando il paradiso è un inferno
Da solo
Le foto che accompagnano i testi nell’artwork del disco
(l’artwork, il libretto, per esempio Deezer e Spotify potrebbero dare più informazioni sui
dischi), non lasciano spazio all’immaginazione e alla speranza.
Get Well è quella che colpisce di più, sette versi, massimo
sei parole per ognuno:
It’s easier
to miss
On night as
dark as this
But the
black clouds
Still
follow us around
There’s
gotta be a place
To escape
from the rain
But I can’t find it
Questo è tutto il pezzo:
E’ più facile perdersi
In notti buie come questa
Ma le nuvole nere
Ci stanno ancora inseguendo
Ci deve essere un posto
dove rifugiarsi dalla pioggia
ma non riesco a trovarlo
Di fianco una foto in primissimo piano di un braccio con
laccio emostatico e sirigna conficcata nella vena con l’altra mano.
Oppure Somersault, un pezzo molto drammatico, che inizia con
un accordo sospeso e la voce molto riverberata che sembra nascondersi dietro
al delay della chitarra:
Outside the
door
The world’s
alive
I’ll stay
hide on the other side
I’m spinning
Faster then
the earth
I’m shining
Brighter
than the star
Fuori dalla porta/ il mondo è vivo/ Io starò nascosto dalla
parte opposta/ sto girando più veloce della terra/ sto brillando più luminoso
di una stella.
Di fianco una foto di un carcere.
Qui ci ricolleghiamo al discorso che facevo all’inizio,
della sofferenza e quel tipo di sensibilità che ne deriva e anche al perché di
questo suono particolare.
Il chitarrista e fondatore della band, Domenic Palermo, in
precedenza suonava in una band hardcore, gli Horror Show, ma nel 2002 la band
si deve fermare e non per un motivo banale, Domenic finisce in carcere per due
anni, per un accoltellamento. Scontata la pena rimane lontano dalla musica,
dove torna nel 2011 con questo progetto, incontra brandon Setta, la voce dei
Nothing e danno vita a questo suono insieme a Chris Betts e Kyle Kimball
batterista incredibile e fondamenta solidissime sulle quali si posa la band.
Questa è l’origine di questo disco: hardcore, carcere,
brutte storie.
Su tutto questo ci si mette il sigillo di qualità della
Relapse, che nonostante si occupi principalmente di metal, post-hc, e simili ha deciso
di produrre questo disco, direi che ha fatto gran bene.
A proposito, Relapse quest’anno compie venticinque anni,
VENTICINQUE. Anni in cui non ha mai sbagliato un colpo e durante i quali ha
prodotto dischi che hanno segnato e cambiato il mio modo di ascoltare musica, e
di farla anche.
Il secondo disco che ha segnato il mio anno passato invece
ha avuto un approccio totalmente diverso. Fin dal primo pezzo anticipato in
rete è stato subito chiaro che sarebbe stato un gran disco, così il secondo e
il terzo, creando un’attesa fortissima per l’album completo. Quando è
finalmente uscito, è stato subito amore. Sto parlando di Bloom & Breathe
dei Gates.
Questo è un altro disco nel quale le chitarre sono assolute
protagoniste, in un modo completamente diverso rispetto a Guilty of Everything.
Le distorsioni sono meno invasive, preferendogli una miglior resa melodica e armonica,
e le costruzioni delle trame sono molto più elaborate arrivando in alcuni casi
alla perfezione architettonica.
Questo è un disco che fa alzare in piedi mentre lo si
ascolta, ha sempre una certa sensibilità e una vena di tristezza ma alla fine
c’è sempre dietro un desiderio di rinascita, una speranza, una voglia di andare
oltre.
E’ un disco che si può definire emo, ma con all’interno
molti elementi che caratterizzano il post rock, tanti delay, molti crescendo e
una carica emotiva potentissima.
L’inizio è subito una gran botta, parte con un arpeggio di
chitarra per poi salire in un crescendo carico di tensione e sfociare in un
pezzo incredibile, un continuo saliscendi, dove si perdono i confini fra strofa
e ritornello, un riff complesso ma allo stesso tempo semplice ed efficace.
Subito dopo colpiscono direttamente al cuore, e lì rimangono fino alla fine del
disco e anche dopo.
La ritmica non è mai banale, non c’è mai un quattro quarti
semplice e lineare e questo crea tensione, come nella musica dei The National,
non fa scendere mai l’attenzione.
Se per i primi due pezzi si rimane un po’ sull’attenti, con
l’arrivo di Not My Blood ci si lascia completamente andare, è come un liquido
caldo che entra nelle vene. Il coro finale “WE ONLY LIVE TO BE ALIVE” e la coda
strumentale sono un momento incredibile del disco, e quando arriverete lì non
ci sarà modo di tornare indietro.
Ma non c’è tempo di prendere fiato perché la brevissima
Light the First Page incalza con il suo inizio in crescendo, e una linea vocale
commovente che da il via ad un altro punto fondamentale del disco, con The
Thing that Would Save You.
La voce è sempre sul limite del punto di rottura, fra
melodie pulitissime e l’urlato melodico, riesce a trasferire in modo diretto
un senso di inquetudine, di tristezza, ma con all’interno anche tutta la rabbia
necessaria per superarla.
Verso la fine arriva quella che secondo me dal punto di
vista dei testi, inquadra perfettamente quelle sensazioni delle quali tutto il
disco è impregnato, sto parlando di Marrow. Solo chitarra acustica e voce, è il
classico pezzo che si skippa in un disco del genere, ma una frase è
fondamentale:
I want the pain of loneliness in me again
I want the end I want to know where I begin
Voglio sentire il dolore della solitudine ancora dentro di me
Voglio la fine, voglio sapere da dove inizio
La bellezza di Bloom & Breathe è assoluta, ha una
ricchezza melodica e armonica difficile da trovare da altre parti, con allo
stesso tempo quell’attitudine emo-punk diretta che ti sbatte tutto in faccia
senza troppi filtri senza troppe elaborazioni che poi fanno perdere la matrice
della canzone.
Fa venire voglia di correre nella pioggia, piangere, ridere,
disperarsi e rinascere.
28 gennaio 2015
SMARTREVIEW:
Benjamin Clementine - At Least For Now
Prendete Antony Hegarty (and the Johnsons), mettetelo in una gabbia e tenetelo a digiuno per due mesi. Poi prendete Jonh Legend, chiudetelo in una gabbia e lasciatelo senza figa per due mesi. All'inizio del terzo mese iniziate ad avvicinare le gabbie dategli qualche giorno per studiarsi, e poi...
Quello che otterrete è Benjamin Clementine e un disco bellissimo.
(Istruzioni per l'uso: rubrica semiseria nata all'improvviso e senza futuro certo, allo scopo di sopperire al letargo invernale del blog. Sto pensando da settimane al mio miglior disco del 2014, ballottaggio a tre, appena risolverò la questione, con il consueto ritardo scriverò il post dedicato)