4 settembre 2025

The Assessment è uno di quei film che considerando la media dei voti non guarderesti mai, perché come lui ce ne sarebbero mille altri. Ma ormai anche su una piattaforma come Prime, che una volta aveva una certa cura del catalogo e ora invece affossa i suoi migliori prodotti (vedi La Ruota Del Tempo e The Peripheral), film come questo si perdono nel marasma di commedie romantiche e titoli d'azione a budget ridotto,  perché il pubblico è cambiato radicalmente negli ultimi anni, ed è diventato al pari di una tv generalista, stando alla alla top ten dei film e delle serie più viste. 

The Assessment - La Valutazione (Prime Video)


La Valutazione (titolo italiano) è uno di quei gioiellini di fantascienza in cui la fantascienza è solo un pretesto per creare uno scenario che spinge lo spettatore a una riflessione filosofica senza neanche rendersene conto.

Un "nuovo mondo" senza alcuna connotazione geografico/spaziale è rappresentato quasi unicamente dalla casa vicino al mare (oceano?) di una coppia sotto a una "cupola atmosferica". Un vecchio mondo lasciato sullo sfondo della narrazione, dove presumibilmente la vita non è più possibile a causa del cambiamento climatico. Nel nuovo mondo le regole sono rigide per garantire la sopravvivenza di tutti, soprattutto sulla procreazione, per la quale solo allo 0,1% dei migliori fra quelli che si candidano ad avere un figlio, viene concessa una valutazione di idoneità. Chi vuole avere figli, come Mia (Elizabeth Olsen, la terza sorella delle gemelle Olsen ed Emmy Award per Wanda Vision) e Aaryan (protagonista in Yesterday e nel ruolo di Mahir in Tenet) deve essere sottoposto a una rigida valutazione da parte di un'incaricata che deve valutare ogni aspetto della loro vita (e quando dico ogni aspetto intendo proprio tutto) e per farlo si deve stabilire per una settimana a casa dei candidati. 

L'incaricata, interpretata da Alicia Vikander, è meticolosa e spietata e si insinua come un cancro nella quotidianità della coppia mettendoli duramente alla prova e cercando di incrinare la loro solidità come persone e come coppia, per vedere come reagiscono. 

Il film è diviso in sette capitoli come i giorni di valutazione e dal momento in cui entra in scena Alicia Vikander si entra in una spirale di angoscia, suspence e tensione erotica, impresse con grande efficacia da un'interpretazione maestosa dell'attrice, che mette in scena comportamenti a tratti disturbanti. 

Più che una valutazione sembra una demolizione dal punto di vista psicologico, un gioco al massacro nel quale l'unica a uscirne vincitrice apparentemente è proprio Virginia, la valutatrice. Sembra quasi solo un pretesto per poter insinuarsi nella vita delle persone e distruggerla. 

L'architettura della casa gioca un ruolo importante nel trasmettere questo senso di angoscia. Minimal, con linee geometriche nette in stile razionalista, così come gli interni, austeri, dai colori decisi e con pochi elementi di arredamento, fra i quali spicca subito una zona pranzo opprimente, dalla quale sembra impossibile uscire (e non a caso), con un tavolo incassato in una geometria fatta di scale e livelli sfalsati. Completano il quadro (scusate il gioco di parole) le finestre in stile Mondrian dalle quali non si vede l'esterno. Ulteriori elementi di "disturbo" sono lo studio virtuale di Aaryan e la serra di Mia sulle quali però non mi dilungo per non svelare altri elementi. 

Il cast ristretto inoltre imprime un senso di isolamento e abbandono della coppia: conta solo 13 attori e nessuna comparsa, ma per il 90% del film gli attori coinvolti sono solo tre. L'impressione è che siano rimasti gli ultimi esseri umani sulla terra, una sorta di Adamo ed Eva ai quali però viene impedito di procreare da un'entità superiore, in questo caso il governo. 

Mentre va in scena la valutazione in 7 atti, la coppia sembra completamente abbandonata a sé stessa e in balia della valutatrice, e nel momento in cui entrano in gioco altri attori invece di alleggerirla, l'atmosfera diventa ancora più pesante e opprimente. 

Altro elemento molto importante è la componente sonora del film. La colonna sonora di Emilie Levienaise-Farrouch (già al lavoro sul meraviglioso All Of Us Are Strangers, Estranei nella versione italiana) è un piccolo capolavoro che mette subito le cose in chiaro fin dal primo fotogramma e ti spinge a forza nella tensione del film con un mix di sospiri, archi, parti vocali e corali e percussioni. La compositrice riesce a mischiare musica sacra, classica contemporanea e drone con una maestria che lascia senza respiro per tutta la durata del film. Il climax dal punto di vista sonoro avviene con "la danza" (per la quale anche in questo caso non entro nei particolari), un brillante affresco rumoristico di musica sperimentale contemporanea applicato al cinema.

Ma alla fine qual è la riflessione che ci porta questo film? Non è una riflessione sulla genitorialità come si potrebbe immaginare dal tema trattato, o almeno lo è solo in modo marginale. La valutazione mette a nudo le fragilità psicologiche dei due e le ferite lasciate dal passato che inevitabilmente si rifletterebbero nell'educazione del bambino/a. Tutti fanno un figlio immaginando di potergli offrire tutto il meglio o quello che loro non hanno mai avuto, ma poi la realtà spesso è diversa proprio a causa di fratture irrisolte nella crescita personale.  

Il grande tema su cui ruota il film però è il valore della vita. 

In un mondo in cui diventa tutto sempre più standardizzato, in cui il cambiamento climatico obbliga a scelte di sacrificio il film s'interroga su dove sia il limite fra la difesa estrema della vita e vivere a pieno la vita. Nella società attuale la vita delle persone ha acquisito un valore altissimo rispetto al passato, le regole a cui siamo sottoposti quotidianamente hanno il ruolo primario di difenderla ad ogni costo o quasi. Ma a che prezzo? A quante libertà siamo disposti a rinunciare per vivere in un mondo in cui la società prosperi, dove tutto è praticamente perfetto e il rischio quotidiano è ridotto allo zero? Siamo disposti a rinunciare alle nostre comodità, allo status quo, alla sicurezza, siamo disposti a metterci in pericolo per vivere per davvero? Per riconquistare un nostro diritto primario? Quanto siamo disposti a spingere il limite sempre più in là per riavere qualcosa che abbiamo perso? 

The Assessment non dà risposte, non esprime giudizi morali. Il film diretto da Fleur Fortuné apre una piccola breccia nelle ferree convinzioni dello spettatore, qualsiasi siano le sue idee, come Virginia fa con Mia e Aaryan. 


20 luglio 2025



C’è un filo che lega la morte di Carlo Giuliani ai fatti di Gaza di questo ultimo anno e mezzo. 
Una riflessione che faccio da anni ma che non ho mai condiviso, perché l’argomento accende troppo gli animi e non si riesce mai a parlarne senza essere o bianchi o neri. Così come quando si parlava di Berlusconi ai tempi, o era il male assoluto o era un eroe. Ma in fondo la polarizzazione del pensiero di quegli anni fa quasi tenerezza a confronto con quella di oggi, in cui la violenza verbale è pane quotidiano, quindi tanto vale esporsi e fregarsene.

Quel giorno a Genova.

Quel giorno arrivò a seguito di manifestazioni mai viste prima a Seattle, Praga, Napoli, contro la cosiddetta “globalizzazione”, un concetto che in realtà era un aggregatore di sentimenti “anti”, contro i politici, contro il capitalismo, le multinazionali, contro lo strapotere di alcuni in contrapposizione con la povertà di molti. Se vogliamo dirla tutta forse molti di quelli che manifestavano non avevano neanche un motivo preciso, ma la bellezza di quel movimento era proprio la partecipazione, un esercizio di democrazia altissimo. C’era un sentimento di rivalsa, di libertà, di unità e anche di rabbia, una sana rabbia, ben distinta da quella che guidava i soliti noti che distruggevano tutto. Un sentimento che scorreva libero ed era talmente forte da portare tantissime persone in strada anche molto diverse fra loro. Un sentimento alimentato anche da un libro, No Logo di Naomi Klein, che diventò un manifesto politico, andando a creare una nuova consapevolezza sulle metodologie delle suddette multinazionali e sui rapporti con i governi.

La manifestazione di Genova si caricò oltremodo (o meglio venne caricata volontariamente oltremodo) di significati. Fin dai giorni precedenti si avvertiva un’aria di guerra, ma se vogliamo chiamarla davvero con il suo nome, bisognerebbe dire che si avvertiva aria di repressione, vera. E così fu. Durante e dopo la manifestazione. Ed è tutto scritto nelle sentenze: fu repressione violenta, non si può e non si deve chiamarla in altro modo.

Ma ci fu un messaggio che quella repressione lanciò ai manifestanti, ai militanti e in generale a tutti quelli della mia generazione.

Più che un messaggio fu una domanda precisa.

Con l’omicidio di Carlo Giuliani ci chiesero senza giri di parole:

“Siete disposti a morire per i vostri ideali?”

La risposta che abbiamo dato è stata un secco “NO”.

La verità è che avevamo troppo da perdere nelle nostre vite agiate.

Perché dopo quell’omicidio, il movimento, invece di alzare il tiro si sciolse, impaurito, smarrito, destabilizzato.

Così la consapevolezza che nessuno di noi fosse disposto a morire per i propri ideali, ha dato carta bianca a tutto quel sistema che il movimento No-Global contestava.

Quella risposta, quel “NO”, detto senza neanche pensarci un secondo, ha portato poi al mondo in cui viviamo oggi. Quel mondo in cui la ricchezza è sempre più un privilegio per pochissimi, in cui la Corte Penale Internazionale viene ridicolizzata e nessuno fa nulla, in cui tutti gli organi di controllo della democrazia sono vittime di tentativi di sabotaggio, spesso riusciti, e rimaniamo a guardare, in cui in Ucraina ammazzano civili indiscriminatamente da tre anni e molti di noi si schierano con il potente che sgancia le bombe su bambini e famiglie.

Quel “no”, quella paura, quello smarrimento, ha portato inconsciamente anche molti di noi a stare dalla parte del potere (negandolo), perché ci hanno mostrato cosa succede a stare dall’altra.

Così come quello che sta accadendo a Gaza, quella consapevolezza di poter fare tutto ciò che vogliono, è l’escalation lenta e inesorabile di quella risposta che abbiamo dato nel 2001.

La consapevolezza che nessuno, sebbene tanti si siano schierati attivamente contro il massacro, sia disposto a rischiare la vita per loro, sia disposto a superare la propria linea rossa.

La consapevolezza che oggi ancora più di ieri le nostre comodità quotidiane contano più di ogni altra cosa e non siamo disposti a perderle.

Anzi, abbiamo paura che ci vengano rubate da chi subisce ogni giorno quello che noi abbiamo solo assaggiato.

Non si può neanche scaricare la responsabilità sulla classe dirigente, che siano politici, banche, o fantomatici poteri forti. Perché la classe dirigente di oggi è l’espressione di più di vent’anni di nostre X sulle schede elettorali e di nostre scelte.

L’immobilismo della politica di oggi è la diretta espressione del nostro.