28 gennaio 2013




Oggi a Milano ha nevicato.

Mi è capitato per le mani Old World Romance di Sea Wolf, e non potevo trovare una colonna sonora migliore per un lunedì imbiancato, mentre stai andando al lavoro e i fiocchi si stendono sulla strada davanti ai tuoi piedi.

O forse ancora meglio sarebbe per una domenica innevata.

Quando sei chiuso in casa e hai evidentemente bisogno di recuperare del sonno arretrato.

Questo disco sa di casa. Sa di un posto sicuro in cui puoi esprimere liberamente la tua passione e le tue idee.

Si sente nei suoni, nella pacatezza della voce, nell'uso della batteria che sembra quasi buttata lì a caso (o magari è stata buttata a caso davvero e ha funzionato). Ha quel sound fatto di idee fresche e sincere, non strutturate, non iper prodotte, che ti dice "questo è quello che sono e va bene così".

In questa sua dimensione mi ricorda i Pinback, da una parte un po' low-fi e grezzo, dall'altra invece molto curato, ispirato e arrangiato alla perfezione.

In realtà non c'entra quasi nulla con i Pinback, anche se in "Changing Seasons" "Miracle Cure" "In Nothing", i pezzi  più rock di tutto il disco, la ritmica e le chitarre nelle strofe rimanda ai loro lavori.

Qui siamo più sul cantautorato indieIndie nel suo significato primario, non il quasi dispregiativo che è diventato oggi. O se vogliamo usare una connotazione più di moda in questo periodo, parlerei di indie-folk, anche se guardando bene fra le pieghe, ha più influenze rock che folk.

La cosa che mi stupisce è come si riesca a rendere perfettamente quell'idea di "casalingo" che oggi è molto difficile sentire in un disco, spesso slavata via da produzioni ultra ripulite. Sembra quasi una produzione di fine anni '90 inizio '00, ma nonostante rimandi a quel periodo, nello stesso tempo il disco ha i piedi ben piantati nei nostri giorni.

Non serve che mi metta a descrivere pezzo per pezzo: questo è un disco sincero, scalda, ispira e apre la mente. Bisogna ascoltarlo e scoprire se anche a voi darà le stesse sensazioni.

Quindi mettetevi sul divano e schiacciate playd.

11 gennaio 2013


Riconoscete questa immagine?



Non mi sono mai piaciute le classifiche di fine anno.

Per questo ne faccio una di inizio anno che però fa riferimento all’anno precedente.

Non credo che dopo 365 giorni (366 quest’anno), un non professionista, un blogger, un webzinaro come me e come tanti altri, possa ricordarsi alla perfezione tutti i dischi usciti e ascoltati, possa aver ascoltato un numero sufficiente di uscite per poter avere il quadro più completo e autorevole possibile delle uscite discografiche dell’anno.

E’ un dato di fatto poi, che i dischi usciti nella seconda metà dell’anno sono sempre avvantaggiati rispetto a quelli usciti nella prima.

Ci ho provato in passato a stilare questo tipo di classifiche, ma ho sempre faticato. Ora guardando la libreria di Itunes se è ben organizzata è tutto molto più facile…

Ma per questa volta mi metto di impegno.

Voglio eleggere un disco e un live, che il caso vuole appartengano alla stessa band. Troppo facile?

Vedremo…

Il mio premio come miglior disco dell’anno e miglior live dell’anno va ai:

THE MACCABEES!

Ci sono motivazione ben precise che cercherò di spiegarvi a fondo, cercando di sopperire alla “brevità” della classifica con un’analisi accurata.

Innanzi tutto Given to the Wild è il terzo disco dei Maccabees, il secondo dopo aver raggiunto un minimo di fama e riconoscimenti con il precedente “Wall of Arms”.



Per cui racchiudeva in sé una doppia difficoltà: quella di un secondo difficile disco sotto la lente di ingrandimento del grande circo musicale e di un terzo disco che fosse la conferma del loro valore per i fans con il rischio di scontentare la solita triste fanbase che vorrebbe sempre il solito disco ripetuto all’infinito.

Molti loro colleghi hanno affrontato lo scoglio, limitandosi a inserire qualche tastierino sulla solita formula, o inserendo un po’ di elettronica, o adesso si usa molto fare i “rivoluzionari” inserendo qualche spruzzo di dubstep che fa sempre tanto trendy e tanto gggiovane.

I Maccabees invece si sono giocati tutto. Hanno preso i loro punti di forza: incroci di chitarre, voce algida, ritmiche curate al dettaglio e piene di microsfumature e variazioni e li hanno portati a un livello altissimo. Contestualmente hanno fatto un lavoro grandioso sulle strutture e nella costruzione dei pezzi che poteva essere molto pericoloso.

Given to the Wild non è un disco facile. Ci vuole un po’ per inquadrarlo e per mettere a fuoco i vari pezzi. E’ un album stratificato, dove ci sono vari livelli di ascolto.

Il primo è quello delle canzoni, dei pezzi. Se lo si ascolta distrattamente  si sente un gran disco pop rock, fatto di grandi pezzi con bellissime melodie ben costruite, e molto cristallino nei suoni.

Più si presta l’orecchio ai particolari e più si aprono gli altri livelli e si accede a un mondo vastissimo, fatto di reverberi, echi, delay,   infinite sovraincisioni di chitarre, infinite sovraincisioni di voce, stereofonia sfruttata al massimo, produzione e suoni a livelli che poche volte mi è capitato di sentire. Oltre a questo sono state sì inserite elettronica, sinth e tastiere, e anche fiati, ma è tutto perfettamente inserito, vanno a completare un tessuto sonoro dove tutto è complementare.

Tutti questi elementi rendono il disco diverso ad ogni ascolto a seconda dell’attenzione che si presta a un determinato aspetto o a un altro.

Un altro valore aggiunto è la concezione strumentale del disco, tutti pezzi (ad eccezione del primo singolo forse) sono così completi e ben costruiti che potrebbero stare in piedi benissimo anche senza l’apporto di una voce. Alcuni sono vere e proprie “opere”, con intro, crescendo, momenti di quasi silenzio intervallati ad esplosioni sonore, con delle variazioni di intensità che vanno dal fortissimo, al pianissimo, dove strofa e ritornello perdono i confini.

Il tutto senza aver bisogno di sfondare il tetto dei 5 minuti.

Provate ad ascoltare questo:



Ascoltate bene dal minuto 1.00 al 1.27 (se potete fatelo con il disco e un bell’impianto, su youtube si perde quasi tutto): il modo in cui si rincorrono le chitarre, la cascata di suoni che formano  è un capolavoro. Ascoltato poi con una qualità sonora accettabile, si sentono mille sfumature di suono, sembra che ci siano 20 chitarre che si susseguono entrando e uscendo in continuazione dal campo sonoro.



Anche qui, dal minuto 1.30 a 2.11, non sentivo una parte di chitarra così lunga e articolata su un pezzo pop-rock da non so quanto tempo, protagonista ma non invadente, perfettamente funzionale al pezzo in cui è inserita.

E poi il vero capolavoro di questo disco: 





La delicatezza con cui inizia, il giro di basso, l’apertura della batteria che entra con un pattern spettacolare, la sospensione piena di delay e reverberi prima dell’esplosione,e poi BOOM!


Anche in questo pezzo (da 2.53 a 3.47) le chitarre sono sconfinate, non lasciano respiro, sono in continua rincorsa, non si sa dove finisce una e dove inizia l’altra.

Un discorso a parte meritano basso e batteria, il primo è un vero e proprio strumento a sé, che disegna la tessitura del pezzo, protagonista, sempre originale e ispirato (sentitelo all’inizio di “Forever I’ve Known”) quando le chitarre lasciano spazio, e sempre pronto a dare corpo quando invece le chitarre prendono il sopravvento. La seconda è ricca, piena di particolari, di tocchi, di microvariazioni, non ci sono mai quattro battute uguali ad altre quattro.

Su questo tessuto sonoro così complesso non deve essere stato facile mettere una voce che andasse a completare senza coprire, senza sembrare troppo distaccata, senza sembrare un di più. In questo senso Orlando Weeks ha fatto un lavoro superbo. La sua voce è sempre molto morbida ed eterea, e riesce a riempire gli spazi. Rispetto ai lavori precedenti è più fluida, meno singhiozzata, più curata nell’interpretazione, morbida ed emozionante.

Oltre a questo cambiamento  c’è anche un lavoro fuori dall’ordinario sui cori. La voce non è quasi mai un unico canale, ha sempre sotto un impalcatura costruita in modo da renderla meno “appuntita”, più “larga”, e questo fa sì che non sia sempre al centro, fra gli strumenti, ma diventi più “circolare” e vada ad abbracciare tutti i suoni che le stanno sotto rendendola spesso strumento al pari degli altri, aggiungendo corpo alla stratificazione sonora.

I testi sono un altro punto di forza, molto intimi e personali, sempre in bilico fra disperazione e speranza, con molte frasi brevi reiterate anche più volte. Mi ricordano a tratti i testi di Thom Yorke, meno allucinati però.

Ultimamente mi stufo molto presto dei dischi, perché non hanno segreti, molti sono più o meno standardizzati, le formule bene o male sono quelle, e per chi fa musica e ha avuto esperienze in studio è facile riconosce i trucchi, gli espedienti, le soluzioni e questo rende un disco prevedibile. Questo invece a distanza di tanto tempo e di tantissimi ascolti ancora non riesce a passare in sottofondo, continua a richiedere costante attenzione, continua a colpire.

La prima cosa che si pensa dopo aver sentito a fondo il disco è “sarà impossibile renderlo dal vivo”.

E i Maccabees invece anche qui hanno saputo stupire oltre ogni immaginazione. Non solo riescono a renderlo alla perfezione, ma aggiungono phatos, non si limitano alla sola esecuzione ma cercano di dare qualcosa di più al pezzo, di renderlo vivo, palpabile e di amplificare il gap fra le parti più esplosive e quelle più intimiste.




Li ho visti sia ai Magazzini Generali da headliner che al Palaolimpico di Torino come guest, e li avevo visti anche qualche hanno prima come guest degli Editors.

Nella data ai Magazzini, dopo i primi pezzi la voglia di muoversi è passata, sono rimasto schiacciato da una mole di suoni che mi ha lasciato senza parole, sono rimasto lì fermo immobile a cercare di acquisire ogni singola sfumatura di quello che stavano facendo. E nonostante il posto “suoni di merda”, loro sono riusciti comunque ad avere un suono ai limiti della perfezione.

Anche al Palaolimpico sono stati grandiosi, tanto da vincere la partita contro i Balck Keys per manifesta superiorità (per quei pochi pezzi che ho visto, sono riusciti anche a farmi passare l’incazzatura per essermi perso l’inizio).

Per tutti questi motivi la mia decisione per quest’anno è stata così semplice, netta e senza alcun dubbio.


7 gennaio 2013

Richard Ginori fallisce, i cessi ora si fanno in vetro.

Sabato pomeriggio sono andato in centro con la mia ragazza, a portare a sviluppare dei rullini alla Fnac (vi prego non chiudetela) con le foto, fra le altre, del capodanno passato a Parigi.

Parcheggiate le bici in San Babila ne approfittiamo per farci la classica "vasca", con calma, senza badare alla frenesia dei saldi, solo per il gusto di farsi un giro.

Presi dal "mood turista on" decidiamo di entrare nel Duomo per fare un giro e vedere l'effetto che fa dopo aver visto Notre Dame (e l'effetto è sempre incredibile).

Entriamo e notiamo subito dei cartelli che recitano "Dai valore alle tue foto".

Leggiamo incuriositi e scopriamo che si tratta di un braccialetto, tipo quello per entrare nel pit ai concerti, che serve per fare le foto.

Se compri il braccialetto puoi fare foto all'interno della cattedrale, altrimenti no.

Costo 2 euro.

La Veneranda Fabbrica del Duomo probabilmente non sa che siamo nell'era dell'immagine e del "tutti sono fotografi" e un divieto del genere è quanto di più anacronistico si possa vedere. Inoltre qualsiasi dispositivo elettronico oggi può fare foto, ed è praticamente impossibile controllare all'interno di uno spazio come quello che nessuno ne faccia.

Oltretutto credo che in tutte le cattedrali d'Europa sia permesso fare foto (senza flash) per uso personale, tranne casi particolari, e non si capisce per quale motivo nel Duomo sia vietato. Anche perché  (correggetemi se sbaglio), fino all'avvento di questa brillante idea, mi pare fosse consentito.

Credo sia inutile specificare che non ho visto nessuno dentro con il braccialetto.

E nessuno faceva foto naturalmente...

La prossima mossa sarà sequestare tutti i dispositivi all'ingresso come si faceva ai concerti negli anni '90? I venditori di elicotterini luminosi si inventeranno il business del rosario con all'interno una mini-macchina fotografica?

Attendiamo nuovi sviluppi.

Dopo aver letto il cartello ed esaurita la questione... improvvisamente ho visto la Luce...

Gesù Cristo?

La Madonna?

Sant'Ambrogio?
No.

Questo:



Prima di continuare voglio specificare che la foto non è mia, è stata presa in prestito, non vorrei vedermi recapitato a casa un braccialetto con la sovrattassa.

Quello che in apparenza sembra un temporary store Swarovsky in realtà è un negozio di souvenir che vende rosari e altri accessori per il bravo credente o per il bravo turista.

Mi sono subito chiesto: "ma cos'è quel cesso?" era proprio necessaria una struttura del genere piazzata all'ingresso di una delle più belle cattedrali del mondo (la più bella per il sottoscritto)?

Perché se era proprio necessaria volevo complimentarmi per la sobrietà, la discrezione, e la perfetta armonia con il contesto che la ospita, Frank Lloyd Wright non avrebbe saputo fare di meglio.

La cattedrale già è abbastanza assediata dal cattivo gusto all'esterno, con pannelli pubblicitari di dubbio gusto, e di dubbia legalità, come segnalato più volte da I Hate Milano, con alberi sponsorizzati in modo altrettanto discreto, o ristoranti inguarabili cascati dal cielo sopra la galleria.

Sarebbe "carino" che almeno all'interno del Duomo siano rispettati il "decoro" e  la bellezza di un luogo unico al mondo, evitando di piazzarci in mezzo un cesso di vetro a punta, illuminato come Lady Gaga agli Mtv Award.