Giovedì 22 novembre gli Idles sono sbarcati a Milano per un live di cui si è parlato moltissimo. Non avevo intenzione di scrivere di questo concerto, nessuno me lo ha chiesto e gli Idles non sono una delle mie band preferite, pur piacendomi e riconoscendone il valore artistico. Ma dopo ben quattro giorni (nel momento in cui scrivo), sto ancora pensando a quella serata e allora forse è il caso di scriverne, visto che l’ultima volta che mi è capitata una cosa del genere, avevo visto per la prima volta dal vivo i The National, nel 2010.
I The National non c’entrano nulla con gli Idles, genere completamente diverso, luoghi di provenienza diversi, suoni e approccio alla musica completamente diversi. Ma non sono due band così lontane fra di loro.
Entrambe hanno conosciuto il successo solo dopo molti anni dall’esordio, la band americana è stata addirittura sull’orlo dello scioglimento, prima che Obama usasse la loro “Fake Empire” per la sua campagna elettorale. Allo stesso modo gli Idles hanno aspettato ben sette anni dalla formazione del primo nucleo della band, prima di vedere un album pubblicato da un’etichetta indipendente.
Entrambe le band sono cresciute e diventate grandi al di fuori del music business, hanno vissuto una “vita vera”, quella di tutti noi, fatta di difficoltà a far quadrare i conti, di lavori “normali”, della giovinezza che si trasforma in età adulta mentre ci si costruisce un futuro con la propria ragazza o ragazzo, con tutte le difficoltà del caso e a volte con i brutti colpi che la vita comporta.
Il fatto di diventare famosi da adulti da una forza comunicativa impressionante, se si è capaci di raccontare e di canalizzare le storie che hai vissuto. Perché quello che racconti è molto più vicino a quello che vive e ha vissuto chi ti ascolta, rispetto a chi fin da giovane è stato “costretto” a vivere su un van, o un bus, vivendo la maggior parte dell’anno in tour. Il tour è una cosa che ti fa incontrare migliaia di persone, che ti mette a contatto con realtà molto diverse dalla tua, ti arricchisce, ma è anche una bolla che isola dalla vita normale, che ti tiene lontano da una routine giornaliera che accomuna gran parte del pubblico che ti segue. Se quella routine giornaliera non l’hai mai vissuta, perché da quando hai finito la scuola non hai fatto altro che passare dal palco allo studio di registrazione, ti manca qualcosa.
Perché oggi chi ascolta musica, un certo tipo di musica, chi ha l’età giusta per ricordarsi, anche di riflesso, come funzionavano le cose una volta e ha la consapevolezza per comprendere quanto l’ipocrisia di chi è venuto prima abbia compromesso il futuro di chi è venuto dopo, non vuole ascoltare canzoni d’amore e di pace. Si è stufato di tutto l’immaginario hippie legato alla musica del passato, non vuole ascoltare canzoni di rabbia, perché la rabbia non ha portato a nulla, se non a un peggiorare della situazione. Non vuole neanche più l’immaginario grunge, legato all’emarginazione, alle droghe e al rifiuto di un certo tipo di società. Chi ha quell’età (che va più o meno dai 30 ai 40) fa parte della società, non vuole uscirne, ma è consapevole dei rischi e della difficoltà che questo comporta, vuole ascoltare canzoni di consapevolezza, canzoni che parlino di quello che vive ogni giorno, che lo aiuti a sentirsi meno solo.
La musica (ma non solo quella) è sempre meno un fenomeno di condivisione reale e sempre più un’azione individuale, dettata da algoritmi, da playlist preconfezionate da piattaforme musicali e da dinamiche da social. Non voglio fare come quello che una volta all’anno scrive che il rock è morto, quindi non sto dicendo che ormai la socialità legata alla musica sia morta, è viva e vegeta e ai concerti scambio mille pareri con le persone che conosco, ma è un dato di fatto che il contatto personale è molto meno importante, quando aprendo un’app dal telefono abbiamo 50 suggerimenti ogni giorno su che cosa ascoltare. È innegabile che, se una volta per condividere la musica bisognava essere nella stessa stanza, o incontrarsi per scambiare un disco, oggi la stessa cosa avviene spesso senza neanche scambiare due parole, con l’invio di un link via app.
All’interno di questa nuova esperienza di ascolto, e in un mondo in cui è sempre più difficile aprirsi con gli altri, trovare qualcuno che capisce i tuoi problemi, che ha vissuto le tue stesse esperienze, che racconta la sua vita senza filtri, analizza l’attualità dal tuo stesso punto di vista, non ha paura di condividere con te le sue debolezze, i suoi demoni e le tragedie che lo hanno segnato, è un’esperienza di grande potenza emotiva. Questa potenza può averla solo chi ha vissuto veramente le tue stesse esperienze, chi ha avuto il tuo stesso percorso di vita.
Non è un caso che entrambe le band agli inizi del loro successo, nonostante la loro carriera relativamente breve, hanno raccolto una schiera di fan già grandicelli.
Perché si può dire che gli Idles hanno riportato il punk fra i giovani, ma lo si può dire consapevoli di avere una concezione di gioventù molto ampia e molto italiana.
Al Magnolia erano poche le persone sotto i trenta, pochissime quelle sotto i 25. Quindi usciamo subito da questa visione della band come quella che riporterà ai fasti del passato il punk. Primo perché non sono punk, o almeno non lo sono nello spirito con cui si identifica il punk degli anni ‘70. Secondo perché il loro pubblico non è giovane, ed è giusto che sia così, perché è proprio a quel pubblico non più tanto giovane che loro parlano e lo fanno come nessuno è riuscito a fare negli ultimi anni.
Gli Idles sono forse gli unici che sono riusciti a fare di un disco un manifesto generazionale in Europa (di QUELLA generazione) negli ultimi dieci anni, tralasciando per un attimo il rigurgito di ribellione politica e anti-razzista che l’era Trump ha causato negli Stati Uniti. Joy As An Act Of Resistance non è solo il titolo di un album, è un abbraccio a tutte le persone che si sentono in difficoltà, a tutti coloro che pensano di non poterne uscire, a chi pensa che la sua vita sia una merda, anche a chi non lo pensa, ma non vede margini di miglioramento per sé e per le persone che gli stanno vicino. La soluzione non è la rabbia, non è sfogarsi su chi è più debole o più povero di te, la soluzione è aprirsi, condividere i tuoi problemi e scoprire che sono gli stessi di chi ti sta vicino, nonostante la diffidenza che hai sempre avuto nei suoi confronti.
Anche nel loro modo di condurre lo show non c’è mai rabbia, ci sono sorrisi, c’è condivisione, c’è un rapporto diretto con il pubblico, quasi da stand-up comedy. Il pubblico è parte dello show, ed è di fondamentale importanza che se ne senta parte. La ricerca del contatto è continua, non tanto fisico, ma mentale, le parole che precedono ogni pezzo, il modo in cui Joe Talbot parla ti fa sentire direttamente coinvolto, a volte si rivolge direttamente a persone specifiche all’interno del pubblico, chiede quali pezzi devono suonare, spiega i testi, fa dediche particolari. Anche il suo modo di stare sul palco non è quello di un frontman classico, non ti sbatte in faccia il suo ego e la sua fiducia in sé stesso; coinvolge, occupa lo spazio, ma allo stesso tempo è come se ti dicesse: “Sì, io sono qui e sto facendo il concerto, però mi devi dare una mano, io sono come te e questa cosa la dobbiamo fare insieme, altrimenti non andiamo da nessuna parte”.
Il concerto non ha nulla di particolarmente scenografico, è solo una band che suona, ma la differenza la fa la capacità di comunicare di questa band. La verità è che oggi ci sono troppe band che non hanno nulla da dire, e te ne accorgi proprio quando vedi gli Idles dal vivo.
Erano anni che non vedevo mezzo Magnolia pogare per tutta la durata di un concerto, era tantissimo tempo che una band “nuova” non mi spingeva ad andare sotto il palco a partecipare al concerto, non solo a vederlo e sentirlo.
Non c’è rabbia neanche nell’esecuzione dei pezzi, che spesso vengono rallentati di un paio di bpm (l’iniziale Colossus in particolare), perché le canzoni veicolano un messaggio ed è importante che questo messaggio arrivi al meglio. Rallentare per scandire meglio le parole, per dare il tempo al pubblico di elaborarle, per permettere a Joe Talbot di essere ancora più espressivo e convincente, anche da questo di capisce la maturità di una band.
Alla fine gli unici momenti particolari previsti nello show, sono un crowd surfing del chitarrista, e due ragazze fatte salire a suonare per un pezzo, tutte cose che si sono già viste, buone per le foto su instagram, ma il succo del concerto non sono quelle foto che avete visto su instagram.
Il succo del concerto non sono neanche i pezzi, che se vogliamo dirlo sembrano anche un po’ tutti uguali alla lunga, iniziano tutti alla stessa maniera e finché non arriva il ritornello spesso le differenze sono veramente poche (questa cosa è sì molto punk), il succo è quello che ti rimane quando vai via. Puoi anche non capire bene tutti i testi, puoi anche non sapere l’inglese, ma il messaggio passa lo stesso e ti rimane dentro per giorni a fermentare, finché poi non trovi il modo di farlo uscire. Io l’ho fatto scrivendo questo pezzo, ma sono convinto che molte altre persone che erano presenti al concerto lo hanno fatto in altri modi, condividendo e trasferendo quella positività nella vita di tutti i giorni.
Non erano la mia band preferita, ma probabilmente dopo aver scritto questo pezzo lo diventeranno.