28 novembre 2012


Ieri sera è passato a Milano il nuovo, per modo di dire, talento del country americano.



“Country”… non so a chi sia venuto in mente di incastrare questo ragazzo in una definizione così limitante.

Come giustamente diceva un articolo di Rolling Stone è una definizione che in America fa vendere anche i sassi, ma all’estero ha l’effetto contrario, relegando l’oggetto in questione alla curiosità dei pochi cultori del genere.

Perché sentire la parola country, ancor peggio di “folk”, fa venire subito in mente cappelloni, stivaloni, banjo e slide guitar, come dicevo nel precedente articolo sui Band of Horses/ Bon Iver. Soprattutto se il personaggio in questione arriva anche dal Texas.

Ieri sera di country puro se ne è sentito veramente poco.

Sì è sentito blues, forse qualcosa di garage, e un po’ di folk. Tant’è che nell’ultimo disco, “Tomorrowland” in alcuni pezzi si sentono sonorità più simili ad Afghan Whigs e Screaming Trees che a Sonny James o a Johnny Cash.

Ryan sale sul palco insieme alla sua band, e che band, senza troppe menate, arrivano tutti insieme, salutano e attaccano a suonare.

Tutta la serata sarà caratterizzata da un atteggiamento molto pacato, semplice e professionale. Poche parole, qualche grazie, qualche annuncio del pezzo successivo, e alcuni incitamenti al pubblico molto pacati nei modi ma efficaci nel risultato. Se dovessi scegliere una parola per descrivere questo concerto sceglierei “professionalità”.

Il cantautore è relativamente giovane (classe ’81) ma ha già molta esperienza alle spalle e si vede in ogni suo gesto, in ogni sua nota. Si vede nella scelta della band (nuova). 3 musicisti incredibili, con uno stile pulito e personale. Non i soliti turnisti, ma persone che provano ad arricchire i pezzi con la loro personalità.

Bassista (donna) dal tocco delicato ma sempre incisivo e carico di ritmo; batterista molto dritto, senza orpelli, gran botta quando serve e grande atmosfera quando invece i pezzi sono più tranquilli. Il vero valore aggiunto della band però era il chitarrista, sempre con l’effetto e il suono perfetto in ogni occasione, anche cose che per il genere (country?!) sono marziane, come l’octaver per esempio. Sempre pronto ad impreziosire ogni passaggio senza mai strafare.

L’esperienza e la professionalità si vede nell’andamento del concerto e nella scaletta. All’inizio un po’ di blues, con alcune dilatazioni, poi i pezzi un po’ più rock e diretti, poi una brevissima pausa per tornare da solo con la chitarra acustica e poi la parte finale con il vero apice di rock n’ roll attitude della serata.

Con questo andamento sono riusciti ad accompagnare il pubblico esattamente dove volevano e sono riusciti a  a far crescere il calore e la passione dopo ogni pezzo. Arrivano all’apice dell’entusiasmo poco prima del rietro di Ryan da solo con la chitarra acustica. A quel punto, il pubblico, non avendo più pezzi movimentati dove sfogarsi, ed emozionato per la fantastica esecuzione dei pezzi voce e chitarra è andato in delirio con applausi a scena aperta, urla e fischi prolungati anche per molto, che costringevano Ryan ad attendere più del previsto per iniziare il pezzo successivo.

Questo non è un caso, ma vuol dire avere il polso della situazione e la consapevolezza di quello che dai al tuo pubblico e di come questo può rispondere. Vuol dire essere capace di portarlo esattamente lì dove e quando vuoi.

Quell’entusiasmo strabordante è stato poi la benzina sul fuoco dell’ultima parte del concerto che si è chiuso con una versione scartavetrata di Bread and Water.

A mio avviso gli episodi più riusciti, come accade spesso per i solisti e i cantautori, sono quelli dove la voce sabbiosa di Bingham ha più spazio per esprimersi, ovvero quelli più rock o d’atmosfera. Non è un caso che il pubblico abbia apprezzato particolarmente i pezzi eseguiti da solo, fra cui una splendida The Weary Kind, e un’ancora più splendida Hallelujah.

Anche alcuni pezzi del nuovo disco sono stati veramente notevoli, come una commovente Flower Bomb, e una fantastica Never Far Behind con dei suoni veramente grandiosi, grazie al grande gusto del chitarrista.

L’unico gradino su cui è un po’ inciampato è il primo singolo estratto da Tomorrowland: “Guess who’s knocking”. Onestamente non ha reso come mi sarei aspettato, un pezzo quasi garage rock che però sul palco è rimasto molto sommesso, peccato. Ma è veramente l’unico neo in mezzo a un grandissimo concerto.

Un’ultima considerazione vorrei farla sul luogo che ha ospitato il concerto, un luogo di riferimento per la musica dal vivo a Milano che offre sempre concerti di qualità:

La Salumeria della Musica di Milano.

Forse però si chiama “salumeria” perché ogni volta che entri devi lasciarci una fetta di culo:

25 euro di biglietto (che sarà anche bravo, ma rispetto per esempio ai 32 di Black Keys+Maccabees mi sembra un po’ eccessivo) , 10 euro i cocktail, 6 le birre e 5 le bibite.

A mio avviso sarebbe più giusto cambiargli il nome in “Oreficeria della Musica”.

15 novembre 2012


Ieri c’è stata la prima (credo) grande protesta organizzata a livello europeo, con annesso sciopero europeo.


Oggi i commenti sui giornali e sui blog si sprecano, chi analizza e contesta l’azione delle forze dell’ordine chi analizza il lato sociale della protesta, chi accusa i cosiddetti “centri sociali” o “black bloc”, ecc.

Io però voglio analizzare un aspetto delle proteste che non viene quasi mai preso in considerazione:

Il giorno dopo questa grande mobilitazione, questa sommossa popolare, questa “rivoluzione” cos’è cambiato, cosa si è ottenuto?

NULLA.

I Greci cosa hanno ottenuto in questi anni di manifestazioni e guerriglia?

NULLA.

Gli spagnoli con il movimento degli Indignados cosa hanno ottenuto dopo le innumerevoli manifestazioni, e dopo la grande mobilitazione contro il parlamento di qualche settimana fa?

NULLA.

Il movimento Occupy Wall Street cos’ha ottenuto?

NULLA.

Queste immagini sono la perfetta rappresentazione dell'efficacia delle manifestazioni in questi anni:



Si sente spesso parlare di rinnovamento, nella politica, nelle istituzioni, nel sistema finanziario, ma come si può chiedere un rinnovamento con forme di protesta di un secolo fa, come si può fare una rivoluzione con metodi che di rivoluzionario non hanno più nulla ormai, con slogan e schemi che hanno inventato proprio le persone a cui sono indirizzati?

Le manifestazioni, la guerriglia, lo sciopero sono forme di protesta senza più segreti per le istituzioni.

Sanno benissimo come combatterle, soprattutto sanno benissimo che non possono durare in eterno.

Sanno che la peggiore delle manifestazioni, dopo una giornata passata a prendersi lacrimogeni, manganellate, dopo arresti, fermi, scontri corpo a corpo, sarà destinata a diminuire di intensità e a disperdersi.

Anche la gigantesca manifestazione contro il parlamento spagnolo del 25 settembre che sembrava destinata a durare in eterno, si è spenta dopo poco più di una giornata.

Ormai il gene della rivolta nel mondo occidentale è morto, non siamo più abituati a combattere per prenderci quello che vogliamo, sono più di 50 anni che viviamo nell’illusione del benessere, che abbiamo tutto senza lottare neanche un secondo. Nessuno, e di questo ne sono più che certo, di quelli che sono scesi in piazza in questi ultimi anni è mai stato disposto a grandi sacrifici per ottenere quello per cui sta lottando e questo fa la differenza. A volte bisogna essere disposti anche a perdere la vita per la causa in cui si crede.

Anche gli scioperi ormai, sono una forma di protesta superata, tranne qualche categoria particolare e privilegiata che ha la possibilità di interrompere servizi fondamentali o di far perdere centinaia di migliaia di euro incrociando le braccia, gli altri non hanno forza sufficiente per mettere in difficoltà un paese. Anche in questo caso le istituzioni sanno che anche il peggior sciopero possibile è destinato a perdere di forza in poco tempo (categorie forti a parte, naturalmente).

Gli unici in Europa che sono ancora portatori sani del gene della rivolta sono i Francesi, ma anche per loro è un gene ormai sopito. Prima con Sarkò che faceva incazzare tutti un giorno sì e uno no, qualcosa si muoveva. Adesso con Hollande, che nonostante i messaggi bufala che sono circolati su Facebook non ha fatto ancora praticamente nulla, sono tutti più indulgenti.

Le manifestazioni e la guerriglia hanno funzionato per la Primavera Araba, ma in quel caso c’è una situazione economico-sociale che corrisponde alla nostra di 80 anni fa. Lì c’è gente che non ha più nulla da perdere, che non ha il pane e neanche le brioches, lì c’è la vera disperazione di chi deve lottare tutti i giorni per vivere, questo fa la differenza e i governi di quei paesi non si erano mai trovati ad affrontare una manifestazione, una rivolta organizzata e compatta e numerosa contro di loro. Di questo ho già parlato.

Le istituzioni in “occidente” stanno bene attente a non andare mai oltre la soglia del “non ho più niente da perdere”. Stanno attente a dare il giusto sfogo al popolo, o a cercare di non farlo pensare ai problemi reali, stanno bene attente ad arginare i “fiumi in piena” che stanno per esondare. La dimostrazione di forza, e violenza, delle forze dell’ordine nelle manifestazioni di ieri, appoggiata unilateralmente dal nostro ministro della giustizia in un modo che credo di non aver mai visto prima, è un chiaro segnale: “State attenti a quello che fate perché non abbiamo vincoli”. Nonostante questo possa aizzare ancora di più le folle, sotto sotto insinua molta paura nei manifestanti giovani e pacifici (il vero motore della rivolta e quelli più disposti a scendere in piazza e a protestare).

Come se non bastasse ogni manifestazione è resa vana dal solito problema da cui non se ne uscirà mai: se non ci sono scontri nessuno ne parla, se ci sono scontri parlano solo di quelli e tutto diventa un gigantesco “porno”, in cui sono tutti a caccia dell’immagine della manganellata, della condotta scorretta, dell’infiltrato.

Così il tutto si trasforma in rabbia contro lo scudo delle istituzioni, invece che contro le istituzioni stesse.

E' come se l'esercito medievale, una volta sfondate le porte del castello, si accanisse sulla porta stessa e si dimenticasse di entrare a conquistarlo.

Così facendo si invalida tutto il movimento di piazza. Per tutti diventa una manifestazione contro le forze dell’ordine, non contro chi ci governa politicamente ed economicamente. Le forze dell’ordine diventano il flusso canalizzatore della protesta, la caccia al colpo scorretto diventa un motivo di distrazione, di gossip, né più né meno dell'ultima dichiarazione della Minetti o della moviola su Juve-Inter che focalizza tutte le discussioni del day-after, in cui tutti discutono dell’episodio isolato, del fotogramma estrapolato, della conseguenza, ma nessuno si domanda i perché, nessuno discute sulla causa di quella manifestazione.

Per questi motivi secondo me è arrivato il momento di ideare nuove forme di protesta, adatte ai nostri tempi e che non forniscano memoria storica alle istituzioni per combatterle.

Forme di protesta che possano essere perpetrate per molto tempo e divenire efficaci sul lungo periodo, che vadano a colpire il cuore della causa scatenante.

Ci vogliono gli elefanti di Annibale e 15 anni di battaglie per penetrare nel nuovo Impero.

Chissà, forse una forma futuristica di protesta sarà una sorta di hackeraggio user-friendly.

Dopo lo sdoganamento della fotografia (tutti sono fotografi), lo sdoganamento del giornalismo (tutti sono giornalisti con un blog), chissà se sarà la volta del “tutti sono hacker”?

Le azioni di Anonymous per esempio hanno avuto grande risalto, e sono stati dei grandi colpi ad effetto perché hanno colto totalmente impreparate le loro vittime . Anche quelli non hanno risolto nulla, ma sono un esempio dell’effetto sorpresa che può avere una (relativamente) nuova forma di protesta (prima era utilizzato solo come sabotaggio, come esercizio per nerd o come ufficio di collocamento per aspiranti Steve Jobs).

Provate a pensare all’impatto che potrebbe avere una manifestazione pacifica e totalmente silenziosa, durante la quale non si bloccano solo le strade, ma tutti i dispositivi e tutti i sistemi nelle vicinanze.

Ma questa è solo una mia visione fantascientifica senza nessuna conoscenza tecnico-tattica. (a proposito di questa tematica di protesta/fantascienza ci sarebbe anche da discutere sull'impatto che ha avuto un film/fumetto come V sui movimenti di protesta, veramente notevole anche solo a livello di immagine).

Come suggerisce il titolo e molte altre citazioni presenti in questo blog, nelle canzoni di Elio c'è sempre una risposta a tutto:



"E Supergiovane da' fuoco a uno spinello col quale affumica il governo, che, all'istante, passa all'uso di eroina e muore pieno di overdose . "

Può sembrare stupido, ma  Supergiovane affronta il governo con qualcosa che il governo non conosce e non si aspetta, e addirittura lo porta all'autodistruzione: questo è il segreto della sua vittoria.



Concluderò dicendo qualcosa di impopolare. L'unica forma di protesta,rivoluzionaria ed efficace,  che mi viene in mente ora, soprattutto nei paesi latini dell’Europa, sarebbe anche la più semplice: RISPETTARE LE REGOLE a tutti i livelli e farle rispettare, e non mi rivolgo ai politici, ma a noi cittadini.

Ma questa è un’altra storia…

5 novembre 2012

In questi giorni Milano e in particolar modo l’Alcatraz ha ospitato due fra i più grandi nomi del nuovo folk americano.

E’ curioso come in pochi giorni lo stesso posto abbia ospitato due realtà accomunate da una base storico-musicale molto simile, ma dagli sviluppi diametralmente opposti.

Bon Iver è un progetto molto particolare. Spacciato come gruppo, forse per incontrare i gusti del popolo indie poco abituato ad appassionarsi ai solisti, in realtà è tutta farina di Justin Vernon. Un uomo con una voce baritonale stupenda, che si è suicidato inventandosi dei falsetti soppalcati. Falsetti che però gli hanno procurato un successo inaspettato, attirando l’attenzione di moltissimi (anche insospettabili, come Kanye West) per le trame musicali molto particolari che riesce a creare con le sue voci sovrapposte.

Le voci sovrapposte sono anche una delle caratteristiche dei Band of Horses, ma nel loro caso si tratta di un rimando alla tradizione folk americana, dove le (almeno) due voci armonizzate sono d’obbligo. L’esercizio di stile ai ragazzi riesce alla grande, difatti la resa è ottima, perché l’incredibile voce di Ben Bridwell è supportata in maniera egregia da Ryan Monroe e quando serve anche dagli altri della band.

Forse Justin Vernon ha voluto prendere questa caratteristica, esasperarla e portarla a un nuovo livello, che lo ha proiettato nel futuro di questo genere, andando a mischiarsi anche con l’elettronica e usanze, come la “macchinetta per la voce”, alias vocoder, che sono diventate marchio di fabbrica di tutt’altro genere, Kanye West per l'appunto ne sa qualcosa.

Dicevamo il futuro, perché se Mr. Vernon ha il merito di aver portato il folk nel futuro, i BOH hanno avuto (qualche anno prima di Giustino) il merito di riportarlo nel presente, dando una nuova spinta a questo genere, soprattutto negli ambienti indie e underground.

Se il merito di Bon è di essere riuscito a mescolare il folk con l’rnb e il pop più commerciale e di essere riuscito a portarlo negli ambienti patinati e snob dove non sapevano neanche cos'era; quello di Ben (e soci) è quello di aver mescolato il genere con il rock e con dinamiche moderne senza renderlo sofisticato, hanno preso la filosofia “grandi spazi-zero scazzi” del folk l’hanno mescolata con un po’ di distorsioni e ritmi serrati e si sono ritrovati in mano un genere fresco e nuovo. Hanno inoltre il merito di aver preso un genere che ormai sapeva solo di bovari, concime e sale da ballo in mezzo al nulla piene di stivaloni e cappelli da cow boy, e di averlo reso appetibile nei piccoli club delle grandi città, nelle sale prova, nelle cantine, in quei luoghi umidi e bui dove fino a qualche tempo fa se non avevi una distorsione che scartavetrava i muri eri uno sfigato.

Queste due realtà appartenenti allo stesso genere, ospitate dallo stesso luogo a distanza di pochi giorni hanno offerto due concerti che dire diversi è dire poco. Chi ha offerto il migliore?

Dal punto di vista scenografico oggettivamente vince a mani basse Bon Iver, ma la semplicità del set dei BOH ha il suo perché e funziona alla perfezione.

Justin si è portato sul palco qualcosa come una decina di musicisti, due batterie, fiati, polistrumentisti, tutti o quasi i componenti della band impegnati come coristi per riprodurre le mille sovrapposizioni di voce che lo contraddistinguono.

Una scenografia studiata nei minimi dettagli, con brandelli di un simil-vecchio sipario a incorniciare il palco, lumini a luce variabile appoggiati a paletti che attraversavano il palco formando una sorta di onda luminosa, proiezioni che andavano a colorare e animare i brandelli di sipario.

La Banda dei Cavalli invece si propone con un set fottutamente rock ‘n roll, luci semplicissime, palco spoglio e poche menate. Unica concessione al lato visivo dello spettacolo un telo dietro il palco sul quale venivano proiettate foto e timelapse, alcune prese dai loro dischi e altre molto suggestive (fra cui il Duomo di Milano e la chiesa di San Fedele) che imprimevano sempre l’atmosfera adeguata al momento senza distogliere l’attenzione dalla musica.





Dal punto di vista musicale, anche qui oggettivamente vince Bon Iver, ma la carica dei 5 di Seattle supera ogni aspettativa e ogni tecnicismo.

Al concerto di Bon Iver ho visto per la prima volta nella mia vita ( dopo aver assistito a numerosi tentativi inutili e finalizzati unicamente a fare scena) due batterie usate con criterio, arrangiate alla perfezione per arricchirsi a vicenda in ogni passaggio. In più il tocco dei fiati, soprattutto del sax basso che riempiva il suono in un modo sublime, e di tutti gli strumenti perfettamente arrangiati ha reso il concerto un vero spettacolo sonoro, che mira a riprodurre fedelmente quello che è stato fatto in studio.

Dall’altra parte però c’è una band che suona di brutto, che si diverte, che ha un pathos e una carica incredibili, che pensa a divertirsi, sciolta, distesa, che si concede anche qualche fuoriprogramma, che vive il palco con naturalezza, senza pose, senza “costumi”, solo loro e la loro musica. In più Ben appartiene a una categoria pericolosamente e tristemente in via d’estinzione, ovvero quella dei cantanti che fumano sul palco, che non c’entra nulla con la musica, ma da l’idea della naturalezza e della tranquillità con cui vive il concerto questa band.

Oltretutto i pezzi sono arricchiti, sono più pieni, acquistano una dimensione diversa dal disco, prendono vita, corpo e anima, diventano enormi e riempiono ogni spazio (purtroppo la pioggia non li ha aiutati a riempirlo) dell’Alcatraz e (concedetemi il sentimentalismo) ogni cuore presente in sala.

Per quanto riguarda la setlist e lo sviluppo del concerto, in questo caso vincono i BOH.

Bon Iver ha lo svantaggio di avere solo due dischi all’attivo, ma onestamente (nonostante sia stato un gran concerto) verso la metà qualche sbadiglio di troppo me l’ha strappato. Poi comunque si è ripreso alla grande sul finale, ma non ha cancellato il ricordo di quel calo, come invece mi accade di solito se il finale è in crescendo.

I BOH sono stati un flusso di emozioni continuo, non hanno mai perso un colpo, nonostante la ventina di pezzi in scaletta, non hanno mai avuto un calo, un pezzo che non rendeva al meglio, un errore, niente di niente. Sempre alla grande, un grande concerto suonato a bomba per tutta la sua durata.

In conclusione il concerto di Bon Iver è stato un grandissimo concerto, spettacolare, un vero piacere per le orecchie e un grande insegnamento per quel che mi riguarda dal punto di vista della produzione e arrangiamento dei pezzi. Lui è un artista gigantesco, con delle idee che sono fra le più originali e belle degli ultimi anni. Però non è riuscito a regalare quelle grandi emozioni che i suoi pezzi sono sicuramente in grado di dare. Finito il concerto non mi ha lasciato l’onda lunga che ti fa venir voglia di parlarne di sentirne ancora, di dire “non vedo l’ora che torni”.

Quello dei Band of Horses, è stato cuore e sincerità allo stato liquido, vedendoli e sentendoli sul palco arrivi a volergli bene per come si danno, per le risate e i sorrisi che si cambiano, per l’assenza assoluta di atteggiamenti artefatti, per come si divertono e per come riescono a trasmettere questo loro piacere di suonare insieme al pubblico. L’onda lunga del loro concerto rimane e anche bella grossa. Nonostante sia la seconda volta che li vedo, tornerò sicuramente anche la prossima volta; perché quello che ti danno è merce sempre più rara  e bisogna fare scorta ogni volta che ce n’è possibilità.

Il loro concerto è tutto racchiuso nelle parole dette da Ben Bridwell prima di iniziare a suonare “We are Band of Horses and this is Music”. Niente di più semplice, niente di più sincero, niente di più bello.