Sono ormai settimane, mesi che penso a quale possa essere
stato il mio disco del 2014, senza trovarlo. Ho scandagliato le varie
classifiche che sono uscite senza trovare uno spunto che mi potesse dare una
mano. Perché in tutte queste ci sono dei grandi dischi, come quello di The War
on Drugs o St. Vincent (che ci è andata vicino all’essere il mio disco
dell’anno).
Però il ruolo di una classifica secondo me dovrebbe essere
quello di tirare fuori cose inaspettate, oltre a quelli che
oggettivamente sono stati i dischi migliori, bisognerebbe andare a cercare
indietro, scavare in quei dischi dei quali si è parlato poco, o di cui non si è
parlato affatto, perché col tempo la percezione di un disco può essere
cambiata. Che senso ha fare mille classifiche se poi sono tutte identiche,
cambiano solo le posizioni in cui sono messi i dischi?
Mi pare inoltre che il successo di pubblico in alcuni casi
sia una discriminante per l’ingresso in graduatoria. C’è stato un flame pazzesco
sulla classifica di Rolling Stone, accusato di aver messo in prima posizione
gli U2 e in seconda Bruce Springsteen. Il primo posto è esagerato, sicuramente,
ma anche se avessero fatto il disco più bello della storia della musica, non
sarebbe stato comunque inserito in nessuna delle classifiche delle testate meno
popolari (inteso come target).
Quella di RS è stata l’unica dove ho trovato cose più
popolari, mainstream, per quanto questo termine non valga nulla ormai, mischiate a cose più nascoste e meno conosciute. Ho trovato molti più spunti
interessanti nella sua che in molte altre che hanno messo ai primi
posti Kozelek, the War on Drugs e St. Vincent.
Tornando a me, ho cercato di capire il perché di questa
difficoltà a trovare il disco dell’anno. La prima potrebbero essere le
collaborazioni con Rumore e DIYSCO (a proposito avete già dato un occhio al
sito? Ci sono un sacco di band interessanti). Oltre a qualche recensione e
report che scrivo saltuariamente, le rubriche che tengo, GigLife sul sito e In
Arrivo sul cartaceo per Rumore e Banquet per DIYSCO, mi portano ad ascoltare
moltissima roba.
Per quel che riguarda Rumore, pur essendo una rubrica che
segnala i live in arrivo, non è così banale come sembra. Lo scopo che mi sono
prefissato è quello di dare un motivo, di spiegare il perché un live è
segnalato, perché bisogna andarlo a vedere, e segnalare solo quelli che vale la
pena vedere. Così per ogni concerto o tour, a meno che non conosca già la band
o l’artista, devo ascoltare, informarmi, valutare.
Questo mi ha fatto scoprire un sacco di cose nuove, ultimi i
Lonely the Brave che hanno fatto un disco che fa scoppiare il cuore (che ho scoperto troppo tardi, ma sarebbe stato in ballottaggio), ma per
forza di cose ha frammentato un po’ i miei ascolti.
Anche per Banquet su DIYSCO, occupandomi di etichette e
tutto quello che fornisce e produce musica, per ogni puntata vengo a contatto
con una nuova realtà che produce un tot di dischi, di band, e devo ascoltare, capire, vedere chi vale la pena segnalare nell’articolo e anche in questo caso gli
ascolti si frammentano.
In ogni caso consiglio vivamente a chi inizia a scrivere di
musica di tenere una rubrica che lo obblighi a venire a contatto con tante band
in poco tempo, come quelle che curo io, perché ci si fa una cultura ampia e diversificata
in un attimo.
Altro elemento di disturbo è stato Deezer, invenzione meravigliosa
e mai più senza, ma devo ancora farci l’abitudine. Perché in qualche modo rende
ancora più sfuggevole la musica, almeno per come lo uso io. E’ tutto lì a
portata di mano e puoi ascoltare tutto in un secondo, senza dover cercare,
senza scaricare, è lì, devi solo schiacciare play.
Prima ascoltavo un disco intero solo se mi interessava
veramente, se i singoli o i pezzi che trovavo in rete mi soddisfacevano tutti,
ora essendo raggiungibile senza nessuna fatica, credo di aver perso parecchio
tempo quest’anno ad ascoltare dischi che poi alla fine si sono rivelati niente
di che.
Roba da fessi, lo so, ma quando ti piace la musica
ascoltarne il più possibile sembra il modo migliore per soddisfarne la voglia,
ma il più delle volte non è così. Almeno per me.
Nel 2014 poi ho comprato molti vinili e me ne sono stati
regalati, che per me sono il modo migliore per ascoltare musica (per me,
ribadisco, no voglio aizzare la faida), ma pochi sono stati quelli usciti
nel 2014. In ogni caso uno di quelli che ho comprato sarà un disco di cui vi
parlerò.
Allora ho cambiato tattica e ho pensato, qual è il disco che
ho ascoltato di più? Quali sono quelli che ho consumato?. Ecco. A volte,
soprattutto chi ha a che fare spesso con la musica e ancora di più chi ne
scrive, dimentichiamo che al di là di tutto c’è anche il cuore. La musica che
colpisce lì è quella che ci portiamo dietro per tutta la vita. Mi rendo conto
che facendo questo discorso posso sembrare Simona Ventura a X-Factor, ma è così e lo sarà sempre e non è un aspetto da sottovalutare.
Ok l’arrangiamento geniale, il tempo che ti stupisce, il
suono nuovo e la soluzione intelligente che rende la band o l’artista degno di
considerazione e cool, ma ci sono un sacco di dischi che non vengono recensiti
bene, o non vengono neanche considerati, che hanno dentro qualcosa che abbatte
le tue difese ti conquista. La musica è anche cuore, intrattenimento, puro
piacere di ascoltare una bella canzone, altrimenti saremmo solo dei medici legali
che fanno autopsie ai dischi.
In un futuro inevitabilmente fatto di elettronica, nel quale
le band come le abbiamo conosciute fino ad ora avranno sempre meno spazio, così
come le chitarre, ho individuato due dischi e due band uscite l’anno scorso
che hanno avuto la capacità di aprirmi in due come un’accetta. Due band dove le
chitarre sono l’elemento principale e il punto di forza, dove le chitarre non
fanno nulla di clamoroso ma sono lì a fare quello che serve e lo fanno al
massimo. Tanto che non mi capitava di stupirmi per due dischi di matrice punk
(solo la matrice, perché poi sono molto diversi dal punk) da secoli.
Il primo in ordine di uscita è la mia copertina Facebook già
da un po’, ma non è lì per quel motivo, anzi ci è finita piuttosto casualmente,
perché volevo cambiare e non sapevo cosa mettere.
Questo è un disco che è cresciuto piano piano, al primo
ascolto mi è stato quasi indifferente, ma ci ho colto una sofferenza che mi ha
tenuto lì incollato. Perché la sensibilità di chi ha passato qualche brutto
momento è sempre qualcosa di prezioso, una sorta di sesto senso. Quando colgo in qualcosa
questa sensibilità, so che mi devo soffermare un attimo in più rispetto al
resto, perché lì c’è qualcosa che non troverò da nessun’altra parte.
Così è stato per i Nothing, ascolto dopo ascolto mi si è
cucito addosso, è entrato dentro e ha iniziato a scavare. Fino a diventare un
compagno di tutti i giorni. Davvero. L’ho ascoltato ininterrottamente per non
so quanto e ogni volta mi piaceva e mi piace sempre di più.
La cosa che più mi colpisce di Guilty of Everything ogni
volta sono le distorsioni. Non è un disco metal o hardcore, ma
le distorsioni sono così cariche che sembrano esplodere, allo stesso tempo però
sono calde e liquide, le chitarre sanguinano, sono come un’abrasione sulla
pelle.
In questa tempesta di rumore impastato di tristezza, la voce
è un sussurro lontano, caldo, rassicurante.
I testi sono ermetici, brevi, versi di poche parole,
strutturati come poesie e pesanti come macigni.
Spent
summer in a well
Watching
pale moons disappear
Alone
And crucifixion seems noble
When
paradise is hell
Alone
Queste sono le prime parole del disco, il benvenuto:
Passare l’estate in un buco
Guardando lune pallide che scompaiono
Da solo
E la crocifissione sembra nobile
quando il paradiso è un inferno
Da solo
Le foto che accompagnano i testi nell’artwork del disco
(l’artwork, il libretto, per esempio Deezer e Spotify potrebbero dare più informazioni sui
dischi), non lasciano spazio all’immaginazione e alla speranza.
Get Well è quella che colpisce di più, sette versi, massimo
sei parole per ognuno:
It’s easier
to miss
On night as
dark as this
But the
black clouds
Still
follow us around
There’s
gotta be a place
To escape
from the rain
But I can’t find it
Questo è tutto il pezzo:
E’ più facile perdersi
In notti buie come questa
Ma le nuvole nere
Ci stanno ancora inseguendo
Ci deve essere un posto
dove rifugiarsi dalla pioggia
ma non riesco a trovarlo
Di fianco una foto in primissimo piano di un braccio con
laccio emostatico e sirigna conficcata nella vena con l’altra mano.
Oppure Somersault, un pezzo molto drammatico, che inizia con
un accordo sospeso e la voce molto riverberata che sembra nascondersi dietro
al delay della chitarra:
Outside the
door
The world’s
alive
I’ll stay
hide on the other side
I’m spinning
Faster then
the earth
I’m shining
Brighter
than the star
Fuori dalla porta/ il mondo è vivo/ Io starò nascosto dalla
parte opposta/ sto girando più veloce della terra/ sto brillando più luminoso
di una stella.
Di fianco una foto di un carcere.
Qui ci ricolleghiamo al discorso che facevo all’inizio,
della sofferenza e quel tipo di sensibilità che ne deriva e anche al perché di
questo suono particolare.
Il chitarrista e fondatore della band, Domenic Palermo, in
precedenza suonava in una band hardcore, gli Horror Show, ma nel 2002 la band
si deve fermare e non per un motivo banale, Domenic finisce in carcere per due
anni, per un accoltellamento. Scontata la pena rimane lontano dalla musica,
dove torna nel 2011 con questo progetto, incontra brandon Setta, la voce dei
Nothing e danno vita a questo suono insieme a Chris Betts e Kyle Kimball
batterista incredibile e fondamenta solidissime sulle quali si posa la band.
Questa è l’origine di questo disco: hardcore, carcere,
brutte storie.
Su tutto questo ci si mette il sigillo di qualità della
Relapse, che nonostante si occupi principalmente di metal, post-hc, e simili ha deciso
di produrre questo disco, direi che ha fatto gran bene.
A proposito, Relapse quest’anno compie venticinque anni,
VENTICINQUE. Anni in cui non ha mai sbagliato un colpo e durante i quali ha
prodotto dischi che hanno segnato e cambiato il mio modo di ascoltare musica, e
di farla anche.
Il secondo disco che ha segnato il mio anno passato invece
ha avuto un approccio totalmente diverso. Fin dal primo pezzo anticipato in
rete è stato subito chiaro che sarebbe stato un gran disco, così il secondo e
il terzo, creando un’attesa fortissima per l’album completo. Quando è
finalmente uscito, è stato subito amore. Sto parlando di Bloom & Breathe
dei Gates.
Questo è un altro disco nel quale le chitarre sono assolute
protagoniste, in un modo completamente diverso rispetto a Guilty of Everything.
Le distorsioni sono meno invasive, preferendogli una miglior resa melodica e armonica,
e le costruzioni delle trame sono molto più elaborate arrivando in alcuni casi
alla perfezione architettonica.
Questo è un disco che fa alzare in piedi mentre lo si
ascolta, ha sempre una certa sensibilità e una vena di tristezza ma alla fine
c’è sempre dietro un desiderio di rinascita, una speranza, una voglia di andare
oltre.
E’ un disco che si può definire emo, ma con all’interno
molti elementi che caratterizzano il post rock, tanti delay, molti crescendo e
una carica emotiva potentissima.
L’inizio è subito una gran botta, parte con un arpeggio di
chitarra per poi salire in un crescendo carico di tensione e sfociare in un
pezzo incredibile, un continuo saliscendi, dove si perdono i confini fra strofa
e ritornello, un riff complesso ma allo stesso tempo semplice ed efficace.
Subito dopo colpiscono direttamente al cuore, e lì rimangono fino alla fine del
disco e anche dopo.
La ritmica non è mai banale, non c’è mai un quattro quarti
semplice e lineare e questo crea tensione, come nella musica dei The National,
non fa scendere mai l’attenzione.
Se per i primi due pezzi si rimane un po’ sull’attenti, con
l’arrivo di Not My Blood ci si lascia completamente andare, è come un liquido
caldo che entra nelle vene. Il coro finale “WE ONLY LIVE TO BE ALIVE” e la coda
strumentale sono un momento incredibile del disco, e quando arriverete lì non
ci sarà modo di tornare indietro.
Ma non c’è tempo di prendere fiato perché la brevissima
Light the First Page incalza con il suo inizio in crescendo, e una linea vocale
commovente che da il via ad un altro punto fondamentale del disco, con The
Thing that Would Save You.
La voce è sempre sul limite del punto di rottura, fra
melodie pulitissime e l’urlato melodico, riesce a trasferire in modo diretto
un senso di inquetudine, di tristezza, ma con all’interno anche tutta la rabbia
necessaria per superarla.
Verso la fine arriva quella che secondo me dal punto di
vista dei testi, inquadra perfettamente quelle sensazioni delle quali tutto il
disco è impregnato, sto parlando di Marrow. Solo chitarra acustica e voce, è il
classico pezzo che si skippa in un disco del genere, ma una frase è
fondamentale:
I want the pain of loneliness in me again
I want the end I want to know where I begin
Voglio sentire il dolore della solitudine ancora dentro di me
Voglio la fine, voglio sapere da dove inizio
La bellezza di Bloom & Breathe è assoluta, ha una
ricchezza melodica e armonica difficile da trovare da altre parti, con allo
stesso tempo quell’attitudine emo-punk diretta che ti sbatte tutto in faccia
senza troppi filtri senza troppe elaborazioni che poi fanno perdere la matrice
della canzone.
Fa venire voglia di correre nella pioggia, piangere, ridere,
disperarsi e rinascere.