14 settembre 2020



Nutro una specie di allergia verso le serie TV spagnole. "Non hai visto La Casa Di Carta??" "No". Quante volte ho dovuto rispondere a questa domanda. "Ma se non l'hai vista come fai a saperlo?". Ho visto qualche pezzo di episodio e ho capito che non è roba per me. In generale qualsiasi cosa che arrivi dalla Spagna ha sempre quel retrogusto di Paso Adelante che non riesco a digerire.

Non The Head però.

Erano già alcune settimane che cercavo qualcosa da guardare, ma le produzioni di Netflix negli ultimi tempi sono diventate il corrispettivo digitale della Fininvest degli anni '80, intrattenimento puro, leggero e popolare, che per carità non c'è nulla di male, ma non è quello che cerco. Prime invece come al solito mantiene un profilo un po' più "alto" ma non ha la potenza di fuoco del suo concorrente, quindi non si trovano spesso novità. Inoltre quando ne trovi, imbarcarti in una serie con puntate da un'ora, se non ti convince a pieno la sinossi, è abbastanza impegnativo, anche se di solito poi premia sempre.

Erano un po' di settimane che passavo sopra a The Head, pensando che fosse un po' un pacco, una serie a basso costo con attori di seconda/terza fascia buona per rimpolpare il catalogo di Prime e poco più. Ma difficilmente Prime fa operazioni del genere, quindi dopo lo scetticismo iniziale, complice qualche mattinata libera ho preso coraggio e mi sono buttato nelle sue sei puntate da circa un'ora.

Probabilmente non l'avrei fatto se avessi saputo che era una serie spagnola.

La storia è molto semplice: una stazione di ricerca nel mezzo dell'Antartide, l'inverno con la sua l'oscurità costante, nove persone dal profilo psicologico non proprio integro e una tragedia comune alle spalle, cosa mai potrà andare storto?

The Head è quello che in gergo si chiama survival thriller, ma fin da subito manifesta un'altra caratteristica forse più adatta a descriverlo ed è quella del thriller psicologico. La serie scava dentro la mente dei suoi protagonisti, dove sotto una superficie apparentemente chiara e liscia si scoprono via via crepacci piccoli o grandi nei quali l'oscurità regna sovrana, fino a scoperchiare veri e propri buchi neri che inghiottiscono tutto.

L'inizio è dei più classici, una festa per salutare l'ultimo giorno di luce, tutti felici e contenti, in armonia. Sorrisi, balli, iniziazioni per i nuovi arrivati, ovvero la visione di The Thing di Carpenter (ma nella serie non c'è nulla di "paranormale") per impressionarli e la più classica prova di forza: passare seminudi dalla sauna all'esterno e affrontare un'escursione termica di 50 gradi. Subito però qualcosa si incrina, apparentemente per una banale questione, ma in realtà è un primo segnale di quello che sta covando sotto la superficie. Non posso andare nello specifico perché qualsiasi descrizione più accurata con il succedersi delle puntate potrebbe farvi intuire qualcosa e rovinarvi la sorpresa.

Fin dalle prime immagini la serie riesce a trasmetterti una tensione costante, palpabile, la sensazione che da un momento all'altro possa succedere di tutto, cosa che puntualmente poi accade. 

Su due cose però ci avevo preso, effettivamente non è una produzione faraonica, è girata quasi interamente nella stazione di ricerca, ricostruita all'interno di un grande edificio a Tenerife e in Islanda per le poche scene in esterna. Inoltre gli attori non sono nomi di alta fascia, ma risultano molto adatto nel loro ruolo. Anche l'espediente narrativo non è dei più originali, basato sui flashback dei sopravvissuti, ma tutto funziona alla perfezione e la serie sa tenerti incollato con una attenta ricostruzione degli eventi che non rivela nulla di più di quello che serve, fino alla fine.

Riguardo agli attori, nonostante il più citato sia Alvaro Morte (sì quello de La Casa Di Carta), i veri protagonisti sono altri. Il ruolo più difficile è affidato a John Lynch (forse unico attore con esperienze di livello nel cast), il Paul Hill di Nel Nome del Padre o il marito di Gwyneth Paltrow in Sliding Doors, oltre a molti altri ruoli da non protagonista. Ma la cosa più curiosa è che Lynch è già stato recentemente prigioniero dei ghiacci per interpretare John Bridgens nella serie capolavoro The Terror.

Insomma per una volta l'effetto Paso Adelante non solo non si è fatto sentire, ma mi tocca proprio ricredermi sulle produzioni spagnole: The Head è un thriller forse non perfetto tecnicamente ma dove tutto è al posto giusto e fa quello che deve fare un thriller: tenerti costantemente con il fiato sospeso.

E comunque no, non guarderò La Casa Di Carta.



21 luglio 2020




L'8 maggio usciva l'ultimo album di Mark Lanegan... Sembra l'anno scorso vero?
Questa impressione di salto temporale degno di Dark lascerà molti dischi in soffitta fra quelli usciti prima, durante o subito dopo l'esplosione della pandemia. Per questo mai come quest'anno sarà utile tornare su dischi non proprio nuovissimi, per riascoltarli con una condizione psicologica migliore, oppure anche solo per dargli un'altra possibilità.
Straight Songs Of Sorrow è uno di quelli che merita un'altra possibilità e non solo per la pandemia. Uscito in concomitanza con la sua autobiografia, presentato (sbagliando, a mio parere) come una sorta di appendice musicale al racconto della vita al limite dell'ex cantante degli Screaming Trees, è un disco del quale si è discusso parecchio, ma forse si è ascoltato poco.
Probabilmente è stato soffocato dai moltissimi estratti del libro, fra aneddoti su Kurt Cobain e problemi con i suoi ex compagni di band che oggettivamente erano pezzi di storia della musica mai venuti alla luce. Non ha giocato a suo favore neanche l'uscita ravvicinata a Somebody's Knocking, uscito solo l'anno scorso, cosa che automaticamente l'ha fatto percepire come una raccolta di outtake del precedente. Niente di più sbagliato.
Ad aggravare ancora di più la posizione di questo sfortunato album, il quadro non proprio edificante che viene fuori dall'autobiografia (poi confermato in alcune interviste dallo stesso Lanegan: "Sono stato uno stronzo"), un personaggio scontroso, scostante, scorretto con gli amici, soprattutto ai tempi in cui c'era di mezzo l'eroina. Tant'è che questo quadro poco edificante ha provocato sui social anche una sorta di #metoo del fan "maltrattato", con alcuni racconti di questi ultimi e addetti ai lavori delusi dal suo comportamento, che l'hanno dipinto come, guarda un po', uno stronzo.
Sinceramente a me che sia uno stronzo o meno poco importa, anzi, forse preferisco gli artisti come lui, che non si mostrano per forza come dei santi scesi in terra, sempre sorridenti e accomodanti anche con chi spesso è maleducato e pretende attenzioni che non gli sono dovute, ma che hanno i loro momenti "no" come tutti, durante i quali non bisogna rompergli i coglioni.
Smarcata la questione caratteriale, Straight Songs Of Sorrow è stato non del tutto apprezzato dalla critica, e poco apprezzato anche dal pubblico, che nella stragrande maggioranza dei casi l'ha liquidato come un disco senza spina dorsale, svogliato, di un artista che ormai è ben lontano dalla sua forma migliore. Molti hanno attaccato con la solita litania del "dopo i primi due dischi il nulla", "dove sono le chitarre", ma non consideriamoli neanche.




La verità è che questo disco è molto di più di quello che sembra. Anche io all'inizio, dopo un paio di ascolti l'ho liquidato malamente. Abituato al solito Lanegan, ho dato per scontato che l'ascolto ideale fosse in auto, o con gli auricolari mentre giravo per la città. Niente di più sbagliato. Si tratta di un album riflessivo, da ascoltare in casa, la cui forse condizione ideale è l'ascolto su vinile, un disco al quale manca quasi completamente la componente ritmica oltre alle chitarre. È un difetto? Assolutamente no, anzi. Ritengo che la voce di Lanegan oggi abbia una componente molto più dark rispetto al passato e si sposi meglio con i synth più che con le chitarre, fatta eccezione per le chitarre acustiche, che ancora oggi sono sue compagne ideali e infatti non mancano neanche in questo capitolo della sua discografia. Perché sì, la sua voce è più o meno sempre la stessa, ma l'evoluzione del suo suono negli ultimi anni è stata decisa. Decisa ma allo stesso tempo discreta, non ha mai voluto dare un taglio netto col passato, ma piano piano, spesso senza neanche farlo notare, ha staccato tutti gli ormeggi dal suo vecchio porto e Straight Songs Of Sorrow è il mare in cui sta navigando ora. Un mare scuro, al cui orizzonte si vedono ancora i nuvoloni che lo hanno da poco spazzato, ma che al momento è placido, una liquida tavola nera.
Per spezzare una lancia a favore dei detrattori c'è da dire che la traccia di apertura non è delle più facili. I Wouldn't Want To Say è un pezzo senza struttura, nè strofa, nè ritornello, un salmodiare su un loop di batteria incessante e un basso sintetizzato, un pezzo ipnotico, un testo buio in cui si racconta, una dichiarazione di intenti che mette subito in chiaro le cose: "Dici che cadrò e cadrò ancora più in basso... il mio cuore è nero come la notte... il soffocamento non può uccidermi, c'è questa scala che sto salendo, nell'oscurità non puoi trovarmi".
Subito dopo questo tuffo nell'oscurità si apre un lampo di luce, brevissimo, un minuto e 55 di chitarra acustica e voce, che riporta all'elemento liquido di cui parlavo prima, ma in questo caso fluviale: blues. Quel blues che ha sfiorato e abbracciato per tutta la sua carriera solista qui emerge cristallino, non tanto nella forma che pure si trova in alcuni pezzi, ma nelle atmosfere, fluviali appunto, acqua che scorre, come le note arpeggiate della chitarra suonata da Mark Morton dei Lamb Of God, che scorrono veloci, una cascata leggera, così è Apples From a Tree.




Gli ospiti, quegli amici, collaboratori, compagni che lo hanno accompagnato tutta la vita, ma anche musicisti che in qualche modo gli hanno reso omaggio, e nuovi ingressi, come sua moglie Shelley Brein alla voce (che firma con lui altri due pezzi) nella splendida This Game Of Love, e se la "collaborazione" con lei dura da tanti anni forse non è così stronzo dai. Qui tutto ciò che associamo a Lanegan scompare, rimane solo una leggera batteria elettronica e un tappeto di synth, le due voci fanno il resto, ed effettivamente non c'è bisogno di molto altro.
Ketamine vede la presenza alla voce di Wesley Eisold dei Cold Cave, in quello che forse è il pezzo più "Laneganiano" del disco, puro blues notturno che passeggia lento entrando e uscendo di coni di luce dei lampioni: "Dio dammi la ketamina, così posso stare bene, piantare la bandiera su spiagge lontane e trascinarmi attraverso la notte."


Con Churchbell, Ghosts, Lanegan prende in alcuni tratti le sembianze di Roger Waters, nella sacralità di un canto gospel disperato, con la voce spezzata e tremolante per poi cambiare ancora veste in Internal Hourglass Discussion. Forse il pezzo più inusuale di tutta la sua discografia, a tratti vicino alle sonorità di Kid A o Amnesiac dei Radiohead. Ritorna il salmodiare del pezzo di apertura questa volta su una base electro con elementi dissonanti. Un pezzo che se non fosse per la voce riconoscibile non sembrerebbe neanche suo.



E poi arriva la chiave di volta di tutto l'album, una doppietta che vale tutta la tracklist: Stockholm City Blues e Skeleton Key. La prima una ballata chitarra acustica, voce e violino,  cristallina, perfetta nella sua semplicità, la seconda una lunga suite blues di sette minuti, basata anche questa su tappeti di synth, ma questa volta con basso e battteria. Una progressione in leggero crescendo che lascia senza fiato ad ogni elemento che si aggiunge: "Brutto, sono così brutto, Sono brutto, dentro e fuori, non si può negare, Amami, perché mai mi ameresti? Nessuno mi ha mai amato ancora, bella bambina, Il passe-partout non si aprirà, Non aprirà alcun blocco che ho in me, Arrugginito, piegato e arrugginito... Ti canterò una dolce, schietta canzone di dolore, Canto a tutti voi una dolce e schietta canzone di dolore". Onestamente e oggettivamente questa accoppiata, che diventa un trittico con un'altra ballad chitarra acustica e voce come Daylight In The Nocturnal House è una delle cose migliori che abbia mai fatto Lanegan.


Sulla seconda parte del disco poi arriva l'artiglieria, John Paul Jones al mellotron in Ballad Of a Dying Rover e Warren Ellis al violino in At Zero Below per una seconda parte che ricalca la prima, fra ballate e pezzi fuori dagli schemi, com'è appunto quello con il bassista dei Led Zeppelin.
Straight Songs Of Sorrow è uno di quei dischi che arriva "dopo", uno di quei dischi che ti colpisce dritto nel petto quando meno te lo aspetti, e soprattutto quando credevi che non fosse più capace di farlo. Lanegan è riuscito a mettere tutto sé stesso qui dentro, e con l'aiuto dei suoi ospiti si è costruito una casa, un rifugio dove finalmente sentirsi al sicuro dopo tanto navigare in acque burrascose, per  lasciarsi alle spalle i limiti fisici e mentali infranti nel passato, che hanno lasciato segni sul suo corpo e sul suo cuore, capace di trasformare il dolore in bellezza. Straight Songs Of Sorrow è un disco da mettere accanto ai suoi migliori e sarà un disco che nei prossimi anni diventerà un classico della sua carriera.