Oggi se n'è andato uno dei più grandi grafici, designer e autori di copertine musicali della storia.
Pink Floyd -Wish You Were Here (1975)
Storm Thorgerson lo ricordano tutti "banalmente" come l'autore delle copertine dei Pink Floyd e, su tutte, di "The Dark Side of the Moon".
Ma la sua opera è molto vasta e ha dell'incredibile. Ha realizzato oltre trecento copertine di dischi, senza contare i poster, video, documentari, loghi, copertine di libri.
Vedere le copertine dei dischi che ha realizzato una dietro l'altra è come entrare in un altro mondo. Un mondo fatto di illusioni ottiche, di reale che si mischia con il fantastico, di suggestioni che si insinuano sottili nel nostro cervello e vi rimangono radicate in profondità.
Biffy Clyro - Only Revolutions (2009)
Le sue sono immagini che colpiscono e stupiscono senza impressionare, senza essere mai "esagerate", ma sempre efficaci e acute, sempre e meravigliosamente in bilico fra realismo e surrealismo.
Tutti prima o poi sono venuti in contatto con il suo immaginario, consciamente o inconsciamente. Le sue opere sono scolpite nella nostra mente, nella nostra cultura.
Nell'era moderna in cui le forme d'arte non esistono quasi più singolarmente, ma sono sempre contaminate con altre, lui è stato uno dei primi a "immaginare la musica" e a caratterizzare con le sue visioni dischi fondamentali della nostra cultura. Le sue copertine hanno la stessa potenza immaginifica dei videoclip pur essendo statiche.
Cranberries - Wake Up and Smell the Coffee (2001)
Basta vederle di sfuggita una volta, per poi riconoscerle sempre al primo sguardo.
Nella mia personale esperienza, il lavoro di Storm Thorgerson mi ha sempre colpito molto, partendo dai suoi primi (e più famosi) lavori fino ad oggi.
La copertina di Animals dei Pink Floyd per esempio ha sempre avuto un potere suggestivo incredibile per me, nonostante non abbia mai avuto questo disco originale in casa. Mi è bastato vederla di sfuggita con il suo maiale fluttuante in mezzo alle ciminiere per rimanere colpito "a morte". La prima volta che sono stato a Londra e ho visto la Battersea Power Station quasi non ci credevo: ero dentro a una copertina dei Pink Floyd.
Pink Floyd - Animals (1977)
Ho perso il conto delle ore che ho passato in fissa sulla copertina di "The Division Bell" facendo passare in continuazione il punto focale del mio sguardo dai due profili distinti al viso che formano insieme.
Pink Floyd - The Division Bell (1994)
Storm ha accompagnato con le sue immagini me e tutti gli appassionati di musica anche nella musica di oggi, prestando le sue opere alle copertine dei dischi che più mi hanno appassionato e alle band più significative dei nostri giorni.
Su tutti Deloused in the Comatorium dei Mars Volta e Absolution dei Muse.
The Mars Volta - De-Loused the Comatorium (2003)
The Mars Volta - De-Loused the Comatorium - jellyhead version
Muse - Absolution (2003)
Vorrei anche ringraziarlo per aver rifilato la sua opera più brutta ai Dream Theater...
Dream Theater - Falling Into Infinity (1997)
Ma non si può ridurre il suo lavoro a queste poche copertine, vale veramente la pena spendere qualche minuto della vostra giornata su www.stormthorgerson.com per ammirare tutta la sua vastissima produzione.
Domani è il Record Store Day, non potrebbe esserci occasione migliore per andare in un negozio di dischi, rendere omaggio a Storm e andare a scovare in mezzo ai vinili le sue copertine per poterle ammirare.
Già che ci siete comprate anche qualche disco che male non fa, anzi.
So che il titolo fa ridere e farà inorridire i fan del Reverendo, ma in Italia purtroppo siamo a questi livelli.
Mi riferisco a questo.
C'è ancora qualcuno che ha paura di Fabri Fibra?
C'è ancora qualcuno che vede Fabrizio Tarducci come simbolo di trasgressione?
C'è ancora qualcuno che pensa che sia un violento, uno scorretto? Evidentemente ed incredibilmente sì.
Quando ho scritto la recensione pensavo seriamente e ottimisticamente che fosse finalmente sdoganato (insieme al genere che rappresenta), che fosse passato nell'immaginario collettivo dalla "controcultura" alla cultura.
Che ormai l'Italia avesse fatto un passo avanti, si fosse emancipata dalla percezione trasgressiva dell'hip hop, e che non si facesse più spaventare da versi buttati lì tanto per far rima e per fare effetto.
Rime che nessuno, con un minimo di senso dell'ironia prenderebbe in considerazione. Evidentemente no.
Non voglio sembrare l'avvocato difensore di Fibra o del rap, poteva essere chiunque e di qualunque genere musicale.
Ma evidentemente c'è ancora qualcuno che non ha capito nulla, che vive in un mondo parallelo, nonostante l'hip hop sia costantemente nei primi dieci posti delle classifiche, nonostante il 90% delle radio spenda buona parte della loro programmazione per questo genere.
C'è chi si attacca al testo di una canzone hip hop di dieci anni fa per accusare un "cantante" di scrivere testi contro le donne e di creare un "humus da cui si genera violenza".
Sì, siamo nel 2013 e avete letto bene: "hu-mus-da-cui-si-ge-ne-ra-vio-len-za".
Oltre a lanciare un'accusa inesistente, ottiene anche due effetti collaterali, mettendo la lente di ingrandimento su due canzoni che non si era mai filato nessuno e che sicuramente non avrebbe mai fatto al concerto del primo maggio. Inoltre da ancora lustro alla figura di Fibra nel panorama più underground dell'hip hop dove ormai è considerato troppo mainstream e, per dirla alla Malesani, "mollo".
Si strumentalizza la partecipazione di un artista a una manifestazione musicale, compromettendolo e censurandolo preventivamente, per far parlare di un argomento che nulla ha a che spartire con il cantante in questione. Lo si utilizza come capro espiatorio, come causa o concausa, di una questione che ha radici piantate in tutt'altro terreno.
Fibra in Italia viene trattato come Marilyn Manson negli USA, il quale ogni volta che negli Stati Uniti succede una disgrazia in cui c'è di mezzo un'arma da fuoco e dei ragazzi, viene sempre tirato in mezzo insieme alle solite accuse sulle sue canzoni che fomenterebbero l'odio, la violenza e l'autodistruzione. Quando invece tutti sanno che la causa è ben diversa e sotto gli occhi di tutti.
Ormai Brian Hugh Warner è un "rispettabile" signore di 45 anni che non fa paura neanche a un gattino, ma è comunque sempre visto come l'"anticristo" (ogni volta che sento questa parola accostata a MM non so se ridere o piangere) dai cristiani integralisti, dai "matusa" per dirla alla Elio, dai bigotti e ignoranti in generale.
Allo stesso modo, ma rapportato alla nostra penisola molto più provinciale e bigotta, Fibra, ormai rispettabile "adulto" che va per i 40, non fa più paura neanche al Papa, ma nell'immaginario collettivo rimane il "cattivo". Così come è stato dipinto dai media in quelle due o tre occasioni in cui si è parlato di lui a livello nazionale e viene usato alla stregua di un Manson nostrano, come capro espiatorio per vicende in cui non c'entra nulla.
Questo succede perché alle persone non interessa di sapere come è "il reale", gli basta la proiezione che viene data da televisioni e giornali in quelle due o tre occasioni in cui questi nomi vengono accostati a fatti con i quali non hanno nulla a che vedere.
Certi simboli di cattiveria e odio fanno sempre un gran comodo all'immaginario collettivo, sono le nuove streghe da mettere al rogo, per nascondere sotto i carboni ardenti e la cenere i veri problemi.
In una intervista di qualche tempo fa Tarducci disse che, nonostante fosse stato invitato più volte, non ha mai voluto andare a Sanremo perché consapevole del fatto che la sua figura verrebbe strumentalizzata, e sarebbe invitato solo per fare "scandalo" e non per quello che fa in musica.
Probabilmente non immaginava che il concerto del primo maggio,un carrozzone tale e quale al Festival di Sanremo, potesse essere anche peggio. Una manifestazione dove l'ipocrisia regna sovrana e l'immagine di facciata conta di più di qualsiasi altra cosa, dove la musica sta all'ultimo posto nella scala delle priorità.
Dove non esiste libertà di espressione.
Dove si pratica la censura preventiva con effetto immediato senza ascoltare la controparte e senza dare possibilità di difendersi.
Non dimentichiamo negli anni passati la differita con beneficio di censura del 2004, e la liberatoria anti referendum del 2011. Visto così il concerto del primo maggio sembra un concerto organizzato dalla Stasi.
Questa vicenda getta ancora di più nel mondo dell'assurdo un evento che negli anni ha fatto di tutto per diventare il festival mondiale del grottesco, oltretutto dopo la pubblica derisione ad opera di Elio con il suo pezzo dedicato al "concertone" dove ha messo nero su bianco tutte le assurdità e gli stereotipi che da anni infestano questa manifestazione.
In un periodo storico in cui la voce sembra essere tutto, in cui la musica stessa è rappresentata dalle voci, in cui tutti sono esperti di intonazione, vibrato, corde vocali, riscaldamento, diaframma, acuti, in cui tutti sono degli affermati giudici di cantanti in erba, andare a vedere un gruppo "rock" senza cantante per gli spettatori di X-Factor, Amici e The Voice sembrerà pura follia.
In realtà esiste un forte e ampio movimento di gruppi strumentali in quel sottobosco sconosciuto ai più, ma capace di regalare band incredibili come ad esempio 65daysofstatic, And So I Watch You From Afar, e molte altre di stampo metal, nettamente superiori a mille altre band "classiche" ultraosannate.
I Maserati fanno parte di questo piccolo gruppo di eletti, di questo olimpo.
Ieri nonostante il fuorisalone, nonostante Sasha Grey abbia cercato di fagocitare tutto il pubblico di Milano, nonostante non siano un gruppo famosissimo in Italia (anche se in realtà sono in giro da dieci anni), sono riusciti a portare un discreto numero di persone al Magnolia. E questo senza alcun tipo di pubblicità se non il passaparola di chi magari li ha visti nel 2011 o li ha conosciuti per sentito dire grazie a quel concerto e il coraggio, la passione e l'orecchio lungo di chi porta gruppi così a suonare in Italia.
L'ultimo disco dei Maserati: VII
I Maserati sono un gruppo tutto sommato basico, duechitarrebassobatteria + qualche loop.
Il loro sound è fatto di delay a cascata, cassadritta+charlie in trentaduesimi e basso tagliente. La loro peculiarità dal vivo è la batteria messa al centro della scena, fonte palco (come i Battles) e quando iniziano a suonare si capisce che il batterista non è solo al centro del palco ma è al centro della loro musica, è il pilastro su cui si fonda tutta la band.
C'è poco da spiegare, poco da raccontare, vanno ascoltati, vanno visti per capire.
Le chitarre disegnano una mitragliata di suoni cristallini, misti a distorsioni morbide e rotonde, i suoni sono perfetti, uno dei due esce da da un Fender Deluxe (se non ho visto male) con una Tele, con suoni più mediosi, corposi, per dare un po' di impasto sonoro al tutto, l'altro esce da una testa Hiwatt+cassa Orange con una Jazzmaster con suoni più aperti e incisivi che generalmente disegnano la melodia portante dei pezzi aiutato da ben tre e dico TRE pedali delay e un reverb. Alle spalle, il bassista esce da un inevitabile "frigorifero" Ampeg.
Il batterista picchia fortissimo, tant'è che da sotto il palco si sente di più la sua botta sul rullante che quella che esce dalle casse, ha un tiro incredibile, le sue dinamiche sul vanno dal "forte" al "fortissimo" al "metti la testa qui sotto che te la spappolo a colpi di bacchette".
Il basso dietro è rotante, continuo e gigantesco, e insieme alla batteria crea una percussione costante sul cervello, sulle costole e sui timpani, la sensazione che si ha alla fine è quella di essere stati percossi per un'ora.
Ci sarebbe anche a "ballare" un po' sulla loro musica, ma la potenza che esprimono live ti schiaccia e non puoi far altro che rimanere immobile e farti investire.
Il loro concerto è una macchina che viaggia velocissima dalla quale è impossibile scendere, il loro nome non è una casualità, perché la sensazione che ho descritto è proprio quella che esprime la loro musica: veloce e filante, non come la mozzarella ma come una bella auto.
Forse il loro difetto, ma anche il loro punto di forza è quello di non essere molto vari, ma quello che fanno è una musica che si riconosce al primo tocco e non è banale oggi trovare una band così unica e riconoscibile, perché non ne esistono altre che possano essere accostate a loro. Trovatene di gruppi così.
I Maserati sono una di quelle band che dimostra quanto la voce sia uno strumento reso ingiustamente indispensabile nella musica di oggi.
Ieri è andato in scena lo show di Woodkid al Teatro Franco Parenti di Milano.
Parlo di "show" perché quello che ci ha regalato Yoann Lemoine è molto di più di un concerto, ma analizzerò più avanti questo aspetto.
Woodkid si presenta con una "band" di 7 elementi. Band fra virgolette perché non si tratta di una band come siamo abituati ad intenderla: un tastierista, un "paddista" (lo chiamo paddista anche se è bruttissimo, perché ha suonato su un pad per tutto il concerto), due percussionisti (badate bene: percussionisti, non batteristi) e 3 fiati, fra cui una tromba, un inconsueto bassotuba, e un trombone.
La disposizione è molto ampia e simmetrica (come tutto lo show): in fondo al palco ai due angoli opposti i percussionisti, ognuno con la sua grancassa sospesa (da suonare con le mani), messa di fianco rispetto al pubblico, in modo che suonandole si vedano i movimenti sincronizzati dei due, con un semplice ed efficace effetto scenico.
Sul fronte del palco, all'angolo sinistro (guardando il palco) il tastierista e il "paddista" e all'angolo destro i 3 fiati. Al centro naturalmente, lui.
Il concerto inizia con un intro sinfonico molto drammatico e pomposo, sembra quasi di assistere all'inizio di un concerto di musica classica, la musica mette tensione e l'eccitazione del pubblico sale fino ad esplodere in un boato quando entra l'artista francese.
Il primo pezzo della serata è preso dal suo primo ep, "Baltimore's Fireflies", un pezzo molto evocativo e d'atmosfera, che traccia la direzione di questa prima parte di concerto, che infilerà una tripletta molto tranquilla, per calare il pubblico con delicatezza nel mondo di Woodkid. Dopo questa prima parte iniziano a tuonare le grancasse e da questo momento in poi il concerto inizia la sua ascesa fino a diventare un rito collettivo, una danza tribale.
Il finale di "The Golden Age" inizia a far friggere il pubblico con le percussioni in terzine e le perfette armonizzazioni di fiati che creano un'attesa e una tensione perfetta per introdurre il primo stadio della trasformazione del concerto, che è il suo ultimo singolo "I Love You".
Il pubblico salta, canta a memoria, la musica di Woodkid è capace di far esplodere la sala. Le sue armonizzazioni molto drammatiche ed emozionali, i fiati che rendono tutto molto "solenne", la costruzione orchestrale e sinfonica della sua musica, unita ai ritmi cadenzati, che vanno a pescare a piene mani nel tribale, scanditi da tom e grancasse molto profondi, uniscono due anime incise nel nostro dna apparentemente molto lontane, ma che entrambe hanno dato un imprinting molto forte alla nostra società di oggi. Una è la nostra tradizione classica europea, con Mahler, Stravinnkij, Strauss, e tutti i grandi della musica classica, e l'altra è la tradizione ancestrale, delle tribù, dei villaggi, dei barbari, la collisione fra queste due anime così radicate in noi e così potenti crea una reazione esplosiva, i cui effetti ieri sera sono stati incredibili per un artista semisconosciuto e con relativamente poca esperienza alle spalle.
Oltretutto su un pubblico, quello dell'Elita, molto "fighetto" e più di curiosi e presenzialisti, che di fans.
Yoann è visibilmente felice e sorride nel vedere come il pubblico lo segue e canta con lui il suo singolo.
Dopo il delirio di "I Love You" è di nuovo la volta di un momento più raccolto.
Il concerto è stato caratterizzato da questa contrapposizione, così come tutta la sua musica ha queste due anime, una più "danzereccia" e l'altra molto intima. "Brooklyn" è leggera e cantata con evidente emozione permettendo alle coppie presenti di limonare duro un ultima volta prima del rush finale.
Ancora una manciata di pezzi, fra cui lo strumentale "Shadows" e il pomposo "Sabat Mater" che vanno a creare la tensione giusta per gli ultimi tre pezzi carichi di grancasse e percussioni che manderanno in totale delirio il Franco Parenti prima dell'encore.
Il primo è "Conquest of Spaces" che con il suo loop ipnotico e il suo ritmo incalzante, ma non troppo sostenuto, inizia a far muovere le teste prima del suo finale epico che porta il pubblico verso il boato.
Poi è la volta di "Iron" e qui si vede tutta la potenza della musica di Woodkid, la gente salta, urla, batte le mani, il pavimento del teatro inizia ad ondeggiare, l'effetto è incredibile, perché si sente fisicamente la potenza della musica trasferita alle persone che al loro volta la trasferiscono al pavimento e il pavimento la rimanda indietro alle persone, che praticamente saltano anche se restano ferme.
Il finale di Iron viene trasformato in un dj-percussion set di tribal-house con i due percussionisti che picchiano fortissimo sui tom, e il teatro che letteralmente salta insieme a Yoann Lemoine.
"Volete ancora saltare?" chiede alla fine del pezzo, la risposta è scontata e si riparte con "The Great Escape" ed è ancora, e sempre di più, delirio.
E' il momento di una pausa e il pubblico inizia a scandire "Wod-kid-Wod-kid-Wod-kid-Wod-kid-", lui rientra e ci prende gusto e alimenta un altro giro di cori da stadio, dopo di che scatta anche un "Run! Boy! Run! Run! Boy! Run! Run! Boy! Run! Run! Boy! Run!" sembra quasi di essere al concerto degli Iron Maiden con il pubblico che chiedere "Fear of the Dark".
Il pubblico chiede, Wookdid risponde attaccando con "Run Boy Run" e il rito collettivo raggiunge il suo apice, il teatro salta letteralmente in aria, e il concerto si chiude con un'altra scarica di percussioni che trasforma il Franco Parenti in un dancefloor.
C'è ancora tempo per un saluto finale con "The Other Side" poi le luci si accendono e si ritorna al mondo reale.
Il mondo di Woodkid è però anche video,grafiche e show, come dicevo all'inizio.
Avrebbe potuto sfruttare tutto il suo enorme talento registico per il suo concerto. Invece molto intelligentemente ha deciso di tenere i suoi video fuori dal set, limitandosi a proiettare grafiche ipnotiche e simmetriche (sempre in bianco e nero come vuole la sua tradizione), molto suggestive ed efficaci nella loro semplicità.
Quello che apparentemente può sembrare una mancanza o una leggerezza è invece un punto di forza perché dei filmati troppo elaborati avrebbero distolto l'attenzione e avrebbero compromesso la partecipazione del pubblico.
Infatti in determinati momenti le proiezioni venivano anche spente quando il pezzo necessitava attenzione, oppure nelle parti più movimentate dove il pubblico poteva sfogarsi senza distrazioni. Questo denota un'attenzione maniacale per la riuscita dello show, e una preparazione meticolosa.
Anche Yoann, sapientemente, chiedeva attenzione e partecipazione in determinati momenti, probabilmente consapevole dell'effetto iptonico e "paralizzante" che può avere la sua musica così carica abbinata alle proiezioni, non ha mai lasciato sprofondare il pubblico nel "suo mondo" sognante e ancestrale, ma ha cercato di tenerlo sempre sulla corda e sempre partecipe e pronto a rispondergli.
Anche la gestione delle luci è stata una parte fondamentale dello show, con una decina di fasci bianchi, e tre strobo, sono riusciti a creare un gioco di luci veramente suggestivo, e l'attenzione estrema ai particolari si è vista in un preciso momento quando i fasci di luce passavano velocemente dall'illuminare la sala all'incrociarsi su Woodkid formando una "stella" e le sue braccia si aprivano e si chiudevano a X sul petto, in contemporanea con il movimento delle luci.
Quello di ieri è stato un vero e proprio evento unico nel suo genere, realizzato da un artista con una visione moderna e innovativa del fare musica, video e arte in generale.
Quello di ieri è stato un evento del quale fra dieci anni si potrà dire "Io c'ero".
Mercoledì i Blackmail sono passati da Milano insieme ai Waines.
Quello che hanno offerto è stato un concerto tirato e convincente, confermando le impressione che mi avevano già dato con il loro disco.
Prima dei Blackmail voglio però spendere due parole per la band palermitana, perché se le meritano... anche molte più di due.
Si fa spesso un gran parlare di band indie italiane che vengono indicate come imperdibili, solo perché hanno il giusto "appeal del top", come direbbe Crozza-Briatore, si vestono bene o perché nei testi hanno un paio di frasi simpatiche. Gruppi che puntualmente si rivelano un pacco, e finiscono nel dimenticatoio nel giro di mezzo disco.
I Waines sono l'esatto opposto, fanno un blues-garage solido e molto convincente da tempi non sospetti, non fanno porno-sugar-pop, non hanno testi simpatici in italiano per far cantare i ragazzetti, ma suonano da paura e hanno un tiro che se non ti sposti in tempo finisci all'ospedale. Quindi se avete l'occasione di vederli dal vivo, non perdetela.
I Blackmail arrivano sul palco e dopo un inizio un po' legato e il giusto tempo per prendere confidenza con i suoni e il locale, iniziano anche loro a menare forte sugli strumenti.
La scaletta scorre veloce senza lasciare troppo spazio fra un pezzo e l'altro, cosa che aiuta molto a mantenere la "tensione" alta.
L'apertura, come da tradizione, è affidata a "Impact", la prima traccia del nuovo disco che ben si presta a svolgere questa funzione. All'inizio la voce risulta un po' troppo sopra gli strumenti e troppo "secca", ma dopo un paio di pezzi l'amalgama dei suoni è migliorata e con lei l'impatto della band.
Dopo "Impact" si pesca subito nel passato con "Evon" e poi arriva la prima scossa della serata: "The Rush" suona la carica e da lì in poi il concerto andrà sempre più in crescendo, infatti subito dopo arriva un altro recente singolo che dal vivo ha una resa ottimale. Sto parlando di "Deborah" da "Anima Now".
La scaletta del concerto pesca equamente in quasi tutti i dischi della band con una leggera preferenza per "Tempo Tempo" e "Friend or Foe" e l'ultimo arrivato naturalmente.
Dal vivo si sente nettamente la differenza fra i pezzi pre e post "Anima Now", anche il nuovo cantante si fa influenzare e la sua voce si "molkizza" un po' per seguire le linee tracciate dal precedente. L'impressione di agilità e freschezza dei nuovi brani è amplificata, e "Shine" si conferma un gran pezzo e ci mostra anche che Kurt Ebelhauser è un gran manico, così come il batterista che nonostante sia "poco armonioso" nelle movenze, pesta come un fabbro dall'inizio alla fine, e riesce a dare un gran tiro ai pezzi.
Alla fine quello che ne risulta è un bel concerto, di una band che sa fare bene il suo mestiere, lo fa da vent'anni e si sente. Il finale è lasciato a "Friend" da "Friend or Foe" con una lunga coda strumentale, forse un po' troppo lunga, ma da modo alla band di esprimere tutta la sua potenza.
Questo live ha mostrato che i Blackmail sono più che mai vivi e in salute con un'occhio ben puntato verso il futuro. Il loro mix fra nuovi e vecchi componenti, giovani e "vecchi" che mischiano energia, esperienza, freschezza e storia è una formula che per loro funziona alla grande.
"II". Il secondo capitolo della seconda vita dei Blackmail.
Il titolo era forse una scelta obbligata per loro e come capita spesso, i dischi senza titolo o con un semplice numero sono considerati quelli più significativi per la storia di una band (a parte l'insignificante avocado dei PJ). Così questo II segna definitivamente la rinascita della band. "Anima Now!", il primo disco dopo tre anni di pausa e dopo la dipartita del loro cantante poteva sembrare una scommessa, resa ancora più difficile dalla nascita della loro casa discografica (per la quale sono usciti gli ultimi due dischi).
"II" invece ci dice che la scommessa è stata vinta e nonostante i 20 anni che la band si porta sulle spalle, la voglia di fare musica e di farla al meglio non manca e non c'è il minimo accenno di affaticamento o di declino.
Anzi. Il nuovo disco dei Blackmail suona più che mai fresco, agile, scattante. Ma allo stesso tempo è solido e ben caratterizzato.
Il sound ha subito un bel lifting, molto più tagliente e pulito rispetto alle produzioni passate, ma senza perdere le distorisioni e la abrasività che li hanno sempre caratterizzati. Si sono definitivamente levati di dosso gli echi degli anni '90 e e primi '00 e hanno messo tutti e due i piedi in una nuova era. Mathias Reetz, il nuovo cantante si è inserito molto bene nel tessuto musicale dei Blackmail e anche la sua voce rispetto a quella di Aydo Abay (che spesso assomigliava un po' troppo a quella di Brian Molko) risulta più tagliente, "moderna", in alcuni tratti vicina ai My Vitriol o ai Billy Talent, con linee esplosive e precise. Questo "nuovo corso" si annusa da subito nel primo singolo tratto dall'album: "The Rush". Qui le chitarre sono in primo piano con una distorsione leggera, ma tagliente e precisa e un giro che già da solo fa saltare. La voce di Mathias, molto melodica sulla strofa esplode nel ritornello sostenuta da accordoni dritti.
In "Shine" la componente "My Vitriol" è lampante, e ci regala uno dei migliori pezzi del disco e forse quello che più rappresenta i Blackmail oggi. Anche qui le chitarre sono predominanti, il tempo per tutto il pezzo è dispari ma risulta lineare e regala molto tiro alla canzone. In mezzo, uno special strumentale veramente azzeccato diviso fra una prima parte molto particolare e un assolo semplice ma molto funzionale al pezzo. Anche quando tirano il freno non perdono colpi, "Day of Doom" è una ballad veramente intensa, che potrebbe entrare tranquillamente nel debut album della prossima"next big thing" inglese, con un finale in crescendo quasi post rock. Il rovescio della medaglia di "Day of Doom" è "Palms", un pezzo tiratissimo, dove si sconfina nello stoner e le chitarre si fanno veramente cattive. Unica macchia nel disco è "La Futura" una pezzo da poco più di un minuto piazzato a metà del disco che uccide letteralmente lo scorrere dell'album. Potevano farne a meno oppure se proprio era indispensabile potevano metterlo verso la fine.
A parte questo piccolo intoppo, i Blackmail ci regalano un disco molto ben costruito che convince su tutti i fronti. Come è accaduto per i Placebo, la sostituzione di un componente ha regalato nuova linfa alla band, ha aiutato a rinnovare il sound e a portare freschezza nelle loro canzoni. "II" è un ottimo disco che ci regala una band rinata sotto tutti i punti di vista e che vale la pena ascoltare con tutta la curiosità che di solito accompagna un debut album, nonostante questo sia il loro ottavo disco. Se siete curiosi di sentire di cosa sono capaci, e di toccare con mano questo nuovo corso della band di Koblenz, stasera suoneranno al Lo-Fi di Milano insieme ai Waines.
Qui trovi il live report del concerto al Lo-fi di Milano.