È da poco uscito Evergreen di Calcutta e subito, ma anche prima dell’uscita, si sono sprecati i commenti e le recensioni lampo. Non ho mai capito come si fa a recensire un disco il giorno stesso dell’uscita, dopo mezzo ascolto fatto su un tram mentre si chatta su Telegram o si controlla Facebook.
Ultimamente poi con questa usanza e questa voglia inutile di essere i primi a sparare una sentenza, si sono stroncati dischi bellissimi sulla base di nulla, come è capitato a inizio 2017 con I See You degli XX.
Il problema principale è che giudichiamo i dischi per quello che vorremmo che fossero e non per quello che sono. Bisogna dare tempo al disco di rivelarsi per quello che è e dare tempo a noi, per capirlo. Un disco è come una persona, ci sono persone con cui al primo sguardo si va d’accordo subito, ci sono quelle che bisogna litigarci per scoprire di essere amici e invece poi ci sono i cavalli che sono delle brutte persone. La stessa cosa vale con i dischi.
Tutta questa manfrina, per dire che quello che sto andando a fare non è una recensione, ma è l’esigenza di fissare le prime impressioni su un disco che sarà forse ancora più importante del suo predecessore.
Con tutti i singoli usciti, si poteva pensare che Evergreen fosse un disco pieno di ritornelli killer, leggero, di facile presa, uno di quelli che non fai altro che cantarlo senza pensare troppo a quello che c’è sotto, io per primo lo pensavo, e tutto sommato l’idea non mi dispiaceva, perché è anche un po’ quello che vuoi da un personaggio così, fra mille ascolti “difficili” ogni tanto in macchina di notte, ci vuole un po’ di Calcutta.
Quando poi il disco si è rivelato e ho avuto la possibilità di ascoltarlo tutto sono rimasto un po’ spiazzato.
Perché sì Evergreen è un disco pieno di ritornelli killer, ma non solo. Qui stiamo parlando non di un disco con due lati, ma di un disco con due strati e forse anche di più.
In questi giorni di Giro d’Italia, mi immagino l’album come una tappa di montagna, dove i gpm (gran premi della montagna, le cime dei monti) formano una linea immaginaria che è il primo strato del disco, le parti più emozionanti, i singoli, gli scatti fulminanti come quello di Froome sul Colle delle Finestre, i ritornelli, quelli che colpiscono di più lo spettatore distratto. Invece il secondo strato è formato dalle valli, dai tratti in piano, dai sali-scendi, quelli più noiosi per lo spettacolo, ma dove si costruisce l’ossatura del giro e del gruppo, dove si decidono le tattiche, dove si “tira” e ci si può permettere di fare qualcosa di inusuale, come mandare una dedica alla moglie o pisciare in corsa a lato strada senza fermare la bici.
Sono rimasto un po’ spiazzato perché la partenza, naturalmente, è dalla valle, dalla pianura, e Briciole è pezzo atipico, almeno se rapportato a Mainstream.
Ma prima di parlare del secondo strato, volevo analizzare il primo:
Paracetamolo, Pesto, Hubner, Orgasmo, Kiwi.
Questi cinque pezzi formano uno strato compatto, tanto che al primo ascolto quasi ti dimentichi dell’altro. Parole semplici, dirette, messe al punto giusto e con la giusta metrica, che ti si stampano in testa. Parole semplici, ma non banali. Perché mettere in un ritornello un insulto come “Ue deficiente” non è banale, è come la fontana di Duchamp, è una “cazzata”, ma devi avere l’idea per farla e quello che fa la differenza.
Che poi ue deficiente è proprio un bell'insulto. Perché nel momento in cui la lingua italiana viene stuprata ogni giorno, soprattutto dai "nuovi" politici e l'analfabetismo ormai è motivo di vanto, un insulto che contiene una regola base di grammatica come la "i" in mezzo alla "c" e alla "e" è a suo modo rivoluzionario.
Stesso discorso vale per “Lo sai che la tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000”, la prima reazione è “che coglione”, ma ci vuole anche coraggio per dire chissenefrega, e iniziare un pezzo con una frase così assurda. Perché il Paracetamolo è una cosa che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, con i farmaci equivalenti, prima era solo una delle tante parole che conoscevano solo i farmacisti e per noi una valeva l’altra. È una parola che a suo modo identifica una generazione.
Stesso discorso vale per Dario Hubner, anche quello all’inizio ti strappa un sorriso, ma è un nome che identifica una generazione ben precisa, un tipo di calcio che oggi non c’è più e che solo alcune persone identificano come “poesia”, perché Hubner è poesia, non scherziamo.
Anche con un semplice nome Calcutta sa rievocare un mondo, un’appartenenza, come il Frosinone in serie A di Mainstream.
Ma non è fatto solo di parole e ritornelli killer il primo strato, perché azzeccare una melodia capita a tutti una volta, ma la bellezza e la qualità di una canzone pop con la struttura canonica, la si riconosce dallo special, e Paracetamolo come altre di Calcutta, ha uno special che è una canzone dentro la canzone. In questo special (da 1:40 nel video) è incluso, come una sorta di yin e yang, un piccolo pezzo del secondo strato, una sorta di canzone nella canzone, che in mezzo a un singolo spacca classifica mette psichedelia, california, acidi, riverberi, dilatazioni, tutto concentrato in pochi secondi.
Ma ogni pezzo del primo strato ha dentro qualcosa del secondo, che non sto qui ad elencarvi perché altrimenti diventerebbe un libro e con gli ascolti è come sfogliare un carciofo fino ad arrivare al cuore, dove c’è il fiore.
Il secondo invece è quello più sorprendente, quello che indica la direzione in cui probabilmente andrà Calcutta:
Briciole, Saliva, Dateo, Nuda Nudissima, Rai.
La prima, di cui accennavo più sopra è uno spartiacque, è messa lì come avvertimento, ad indicare che qui una volta era tutto un Cosa Mi Manchi a Fare, ma adesso ci sono cemento e palazzi. Sembrerà strano, ma io ci sento un po’ di Cremonini, perché Edoardo, oltre al cantautorato italiano dagli anni sessanta ad oggi, va a pescare anche nella vena pop-psichedelica dei Beatles o dei Beach Boys. Infatti nonostante sia spiazzante e insieme a Saliva, sia profondamente diversa dai pezzi del primo strato è ancora nulla rispetto a quello che verrà.
Il punto focale dell’album è la doppietta Nuda Nudissima, Rai. È qui che si apre un mondo, che era forse presente in qualche modo nel primissimo disco (Forse…), come idea ma non nella forma.
La prima inizia con una chitarra che sembra un banco di nebbia artica, di quelle che ti bruciano gli occhi, con un flanger tirato a cannone che fa perdere i confini della distorsione e rimane nel sottobosco del pezzo per tutta la durata. Qui la forma canzone si sgretola, non c’è un ritornello vero, la successione di accordi si fa meno netta e più liquida, acida. Qui gli ultimi anni ‘60 si sentono fortissimo, si perde la dimensione cantautorale, per tuffarsi a bomba nel pop psichedelico, si sente dai coretti, dai sinth che puntellano tutto il pezzo con interventi sghembi, diagonali. Nuda Nudissima è il classico pezzo che non piace a nessuno, quello che dal vivo ha una resa pessima e manda tutti a prendere la birra, ma è qui che bisogna cercare il vero Calcutta, è qui che viene fuori la capacità di un autore che non scrive solo singoli buoni per vendere.
Perché il problema dell’indie vs mainstream è tutto qui, finché scrivi pezzi “difficili” ma non ti fai capire dal pubblico rimani nel tuo orticello e non vai più in là. Non è tutto, può anche non interessarti, ma poi non te la devi prendere con chi riesce a fare quel passo, usando come scusa la mancanza di qualità. Non tutti vivono la musica come una passione, la maggior parte della gente la vive come un passatempo, un riempitivo, e non è dicendogli “guarda che io sono più bravo e quello che ascolti tu è tutta una merda” che la convinci a fare un passo in più, verso la musica più nascosta e forse di maggiore qualità, ma quello è tutto da vedere.
Ti devi aprire a quel mondo, devi farti capire, devi convincere qualcuno di cui non gli interessa un cazzo di quello che fai che potrebbe interessargli. L’ha capito anche Manuel Agnelli a 50 anni, che per entrare in un certo mondo devi giocare nel loro campo, non puoi portarlo nel tuo con la pretesa di essere migliore di loro. Tutto questo dopo aver buttato nel cesso un’occasione d’oro a Sanremo, presentando un pezzo inascoltabile per la maggior parte delle persone abituate a vederlo (era il 2011 ed era molto diverso da oggi), completamente fuori contesto, senza un ritornello vero e con una resa sonora pessima in tv. Pretendendo che quelle stesse persone andassero a comprare una compilation diversa da quella di Sanremo per sentire il loro pezzo e quello di altre band del panorama indie. Pensate se gli Afterhours avessere presentato un pezzo tipo Quello Che Non C’è, o Voglio Una Pelle Splendida, quanta gente avrebbe comprato quella compilation e quanti avrebbero scoperto molte altre band.
Invece ci è voluto X- Factor per rompere quel muro e far capire ad Agnelli che non è tutta merda il mainstream e ci si può mettere le mani senza sporcarsi, per poter portare il tuo mondo dentro a quello, con Ossigeno.
Ecco, Mainstream di Calcutta era il corrispettivo, probabilmente inconsapevole, di X-Factor per Agnelli, invece Evergreen è il suo Ossigeno.
Dopo questa divagazione che non so più da dov’è partita, l’ultimo punto fondamentale del disco è appunto Rai. Giuro che è stato inconsapevole questo rimando.
Rai è un’altra trappola, perché parte come un classico singolone di Calcutta, piano e voce, ma poi prende una sorta di scala di Escher e non si capisce più dove vada a finire. Cresce, cambia, sembra quasi un pezzo solista di Morgan, parte da un punto per finire da tutt’altra parte, non c’è una ripetizione per tutto il pezzo, è pura fantasia, estro, è una specie di operetta pop, inusualmente piena di arrangiamenti complessi, violini, sinth, rhodes, scale di chitarra simili a quelle di un clavicembalo (particolarmente amato da Morgan).
E alla fine si torna a casa con Orgasmo, ma anche lì non è tutto mainstream quello che luccica.
È un disco che avrà bisogno ancora di molti ascolti per rivelare tutti i suoi segreti, ma come dicevo all’inizio è ben lontano dall’essere una semplice raccolta di singoli per l’estate, sarà a mio avviso un disco importante, che riporterà la barra del cantautorato indie verso un salto di qualità. Cantautorato indie che ora è strenuamente impegnato a cercare il successo che prima diceva di non volere, con canzoncine e nomi tutti uguali, per cercare la reiterazione dei due (Calcutta e Paradiso) che hanno smascherato l’ipocrisia di un ambiente troppo impegnato a pisciarsi sulle scarpe, invece di farlo in corsa a lato strada, senza fermare la bici.
Ah, se sei arrivato fin qui e ti stai chiedendo cosa c'entra il titolo, niente, non c'entra niente. O forse no.