26 maggio 2019


Cosa vuol dire essere una band oggi?

Essere un band oggi non è più solo fare bei dischi e passare senza soluzione di continuità dallo studio al palco e viceversa. Vuol dire vivere il proprio tempo, avere il proprio posto nella storia, accompagnare le trasformazioni della società ed essere dentro a queste trasformazioni. La grandezza dei The National è proprio questa, l’apertura mentale, l’apertura della band verso le contaminazioni. Non solo musicali, ma anche della politica, delle altre forme d’arte e artisti. Non più una band ma un organismo che vive, respira, si nutre di ciò che la circonda e delle cose che i suoi componenti portano al suo interno. 

I Am Easy To Find è la bibbia, è il manifesto programmatico di questo modo di essere band. Farsi quasi totalmente da parte per mettere al centro le donne, per una band completamente al maschile, è un gesto di una potenza inaudita in questo periodo storico, in cui tutti professano la parità, ma nessuno è disposto a mettersi al servizio e a farsi da parte. Far uscire un disco a proprio nome, nel quale la caratteristica che ti contraddistingue di più dagli altri, ovvero la voce di Matt Berninger, viene sacrificata in gran parte per far spazio a una moltitudine di voci femminili è indice di un coraggio e una consapevolezza fuori dal comune.
La moglie di Berninger, che fino ad oggi ha rappresentato poco più di un ghost writer per i testi dei The National, che rilascia un’intervista in cui parla proprio dei testi della band come autrice, la moglie di Bryce Dessner che partecipa alle sessioni vocali del disco e piazza un’interpretazione magistrale in uno dei pezzi più belli del disco (Oblivions), tutte le altre donne coinvolte (fra le altre Lisa Hanningan e Sharon Van Etten) oltre al coro, sono una dichiarazione d'amore, ma anche una dichiarazione politica, un atto di ribellione.

Senza tralasciare poi la contaminazione profonda di Mike Mills, che non solo realizza un cortometraggio totalmente in osmosi con il disco, con protagonista un’altra donna, Alicia Vikander, ma viene scelto dalla band per produrre l’intero disco. Quale altra band sarebbe disposta a mettere nelle mani di un regista uno dei suoi dischi più importanti e ambiziosi?

Questa è la grandezza dei The National, oltre alla potenza dirompente di un disco che rappresenta una chiave di volta nella loro carriera, ma anche nella musica odierna: avere il coraggio di farsi penetrare da ciò che li circonda, di rinnegare la propria essenza per poi ricostruirsi più forti di prima, ricreando l’impianto solido che li ha sempre contraddistinti, ma unendo ai mattoni della loro creatività sempre nuovi materiali, con i quali la loro casa, una casa che cambia continuamente arredamento, riflette sempre sfumature nuove.

8 gennaio 2019



Quando è uscito Heathen, nel 2002, avevo 22 anni e David Bowie era forse nel momento più basso della sua carriera. Così basso che il disco precedente "Toy" nel 2001 non fu neanche ritenuto degno di essere pubblicato dalla Virgin/Emi. Sembra incredibile oggi che tutti lo celebrano, ma nelle onde del revival succede così: per dieci anni non ti si fila più nessuno, poi quando ai quarantenni scatta la saudade degli anni d’oro ormai andati, ecco che torni improvvisamente attuale.

Io lo scoprii per caso. Erano passati cinque anni dall'uscita di Earthling, l'ultimo disco di cui avevo sentito parlare bene e da molti era ormai dato per bollito, soprattutto dopo Hours, del '99.
Credo di aver letto una recensione da qualche parte o una news sull’uscita e non so perché lo scaricai, probabilmente da Limewire: niente di più lontano dai miei ascolti di quegli anni.
Non avevo mai ascoltato veramente Bowie, se non le canzoni più famose sentite migliaia di volte e qualche disco che mi avevano fatto ascoltare i miei parenti o amici più vecchi di me. Da bravo adolescente avevo sempre un po’ rifiutato gli artisti che erano appartenuti alla generazione precedente.
Sta di fatto che iniziai ad ascoltare Heathen e non mi fermai più per un bel po’.

Non è uno dei dischi migliori di Bowie, anzi, era stato abbastanza massacrato dalla critica, ma non mi è mai interessato perché c’erano due cose che mi calamitavano a quell'album.

Una era che non assomigliava a nulla di quello che c’era in giro in quegli anni. Totalmente fuori contesto, un po’ moderno, un po’ classico, un po’ rock, un po’ pop. Inoltre qualsiasi cosa avessi sentito prima di Bowie aveva una connotazione precisa: elettronica, dance anni ‘80, rock anni ‘60/70, ha sempre avuto la capacità di adattarsi ai tempi e di rimanere sempre attuale, arrivando al suo apice di trasformismo con il drum n’ bass di Little Wonder. Con Heathen no, era come se avesse rifiutato quella consuetudine per cui era quello sempre al passo coi tempi. Come se avesse definitivamente rifiutato di essere percepito come un uomo senza età, eterno nella sua immagine sempre moderna e attuale, come se si fosse rotto il cazzo di dover sempre dimostrare di essere capace di reinventarsi. Hours era un primo (maldestro) tentativo di scrollarsi di dosso quell'impalcatura, Heathen era la pietra tombale sul David Bowie che tutti erano abituati a conoscere. Lo si capiva anche dal look: giacca e cravatta, un classico abito da adulto e niente di più (ma con un'eleganza che nessuno al mondo avrà mai).

La seconda era la sua voce. Cruda, scarna, una voce in cui per la prima volta si scorgevano i segni dell’età, un po’ stanca, ma proprio per quello ancora più bella ed emozionante. Per la prima volta era come se ascoltassi l’uomo dietro all’artista, nascosto per decenni sotto il trucco e i costumi. Per la prima volta avevo la percezione di ascoltare David Robert Jones invece di David Bowie. Questo aspetto abbatté ogni mia barriera nei suoi confronti e iniziai ad amarlo. Il bello di quei pezzi era la loro fragilità, il loro essere “normali”, erano canzoni di un uomo che era caduto sulla terra.
Un pezzo in particolare mi dava quell’impressione, e forse l’unico degno veramente di nota all’interno della sua carriera incredibile: Slip Away.



Una canzone commovente, in cui forse per la prima volta si sente quella drammaticità toccante e rassegnata, in cui il tempo vissuto e gli anni ormai alle spalle lasciano un solco profondo, una ferita piena di nostalgia che si può quasi toccare, che poi tornerà in pezzi come Where are we now e Lazarus. Quasi floydiana nel suo ritornello corale che ricorda un po’ le atmosfere di The Division Bell ed è un caso che il pezzo parlasse di Uncle Floyd, personaggio televisivo surreale degli anni ‘70.
Heathen non sarà il miglior disco di Bowie, anzi forse sarà uno dei peggiori nelle classifiche che riuniscono i suoi album, ma è il disco con cui ha messo le fondamenta sulle quali ha poi costruito i suoi due ultimi capolavori, The Next Day e Blackstar, ed è il suo disco al quale sono più affezionato.