17 luglio 2013

Mark Lanegan al Festival di Villa Arconati ha chiuso fra i fischi e le proteste di chi pretendeva che rientrasse per allungare di qualche minuto la sua performance.



Performance che a mio parere è stata di gran livello, con una band in gran forma e l'uomo dalla gola senza filtro che, nonostante l'evidente affaticamento, ha portato a casa una grande esibizione. Un concerto quasi punk come attitudine, tutti raccolti al centro del palco, nessuna scenografia, luci fisse. Nessun contorno, nessuna divagazione, solo live, solo musica. Musica che ci ha regalato una scaletta con un'ossatura robusta presa da Blues Funeral, con escursioni in cover di altri artisti, fra cui la grandissima interpretazione di "Devil in my Mind" delle Smoke Fairies e "Creeping Coastline of Lights" dei Leaving Trains già presente su I'll Take Care of You, con la quale ha felpato tutta la villa. 

C'è stato anche spazio per un pezzo degli indimenticati Screaming Trees ma nessuno se n'è accorto, perché la canzone in questione è presa dall'ultimissimo disco della band, che ha visto la luce solo nel 2011. Formato da composizioni risalenti al '98/99 e mai pubblicate prima, completate solo due anni fa e uscite in sordina.
L'unico altro toccante estratto pre-2000 è "One Way Street", piazzata a inizio scaletta per scaldare la platea come una coperta a quadrettoni.
Altro capitolo degno di nota è "Harborview Hospital" da Blues Funeral, una canzone che su disco rimane un po' sacrificata verso il finale, ma che si prende tutta la sua rivincita dal vivo, veramente notevole.
Il saluto finale è affidato alla sempre più imprescindibile "Metamphetamine Blues", sporca, cattiva, si sentiva quasi la puzza di marcio mentre la suonavano, picchiando fortissimo sugli strumenti. Menzione speciale per il chitarrista Steven Janssens, stile e gusto da vendere, un grandissimo musicista.
Dopo di che Mark e la sua band se ne vanno e scoppia il putiferio.



Purtroppo sembra che da quando son diventati tutti superfans di Springsteen, anche chi fino all'altro ieri era convinto che "Because the Night" fosse solo un pezzo dance anni '90 (e magari lo pensa ancora), l'unico metro di giudizio dei concerti sia diventato la loro durata.

Lanegan ha effettivamente suonato poco rispetto a quello che ci si poteva aspettare, anche se non è mai stato uno avvezzo alle lunghe performance. Ma è giusto "infamare" un artista con insulti, bestemmie e urla solo perché ha suonato un'ora invece che un'ora e mezza? O un'ora e un quarto?
Qual è il minimo sindacale secondo cui un concerto diventa accettabile?

Se Mark Lanegan se ne fosse andato dopo un'ora e mezza o due ore, facendo un concerto mediocre, nessuno alla fine avrebbe fischiato, anzi probabilmente molti sarebbero andati via dicendo: "Cavolo ha suonato due ore, grande!" senza tener minimamente conto della qualità del concerto. Ma alla fine di un'ora di un grande concerto, c'è stata una mezza sommossa popolare.

"Ho pagato 20 euro!" (22 + prevendita per la precisione), si sente fra le proteste generali. 22 euro per un'ora di concerto e 14 pezzi in scaletta. Per un artista come Mark Lanegan credo siano anche pochi 22 euro per un suo concerto, rispetto ad altri prezzi che si vedono in giro per band e artisti che valgono decisamente meno di lui.
Se vogliamo fare della inutile contabilità spiccia sono 1,50€ al pezzo.

Bisogna tenere anche conto che non è un grande intrattenitore e che è stato un concerto molto serrato, con pezzi brevi suonati uno dietro l'altro. Un'altro artista al posto suo avrebbe tirato tranquillamente l'ora e mezza con la stessa scaletta, aggiungendo un po' di cazzeggio fra un pezzo e l'altro e annacquando le canzoni con qualche parte strumentale allungata qua e là e nessuno si sarebbe sognato di fischiare alla fine.

Da parte sua invece è stato molto "onesto", offrendo uno spettacolo acqua e sapone, o meglio, whisky e tabacco, senza perdite di tempo e cabaret assortito.
"Solo" della grandissima e fottuta musica. Forse non ci siamo più abituati.
Sicuramente avrebbe potuto suonare di più e un'ora è oggettivamente un po' poco, ma ci sono molti altri fattori che determinano il giudizio di un concerto.



Possibile che la durata di un concerto sia così determinante? 
Se si usasse lo stesso metro di giudizio a letto, tanto varrebbe fare una partita a Risiko nel mentre.

Questo accanimento è a mio parere insensato, perché il pubblico che fischia un gran concerto che dura poco è lo stesso che applaude col pilota automatico una band di supporto (che poi sono i membri della band di Lanegan) che suona dei pezzi oggettivamente mediocri. 

Bisognerebbe guardare più alla qualità che alla quantità.
Ma la quantità sono in grado tutti di misurarla, e quindi diventa un metro di giudizio universale. Non a caso la prima domanda che tutti fanno quando dici "Sono andato al concerto di ...." è: "Quant'è durato?". Sia perché, come dicevo, è diventato il metro di paragone più importante, ma anche perché sono in grado tutti di valutare un concerto in base alla durata, ma non tutti sono in grado di dare o capire un parere tecnico, un giudizio sulla performance, su un determinato aspetto. 

La maggior parte delle persone è abituata ad andare a un paio di concerti l'anno, grandi eventi, grandi produzioni, dove l'unica cosa che si sente dire il giorno dopo è "Grandi! Han suonato 3/4/5 ore!!". Tutte queste persone, che poi sono le stesse che chiedono "Quant'è durato?", dovrebbero provare ad andare in quei locali piccoli, umidi e sudaticci, dove si paga magari 10 euro per un concerto e in una serata suonano 4 - 5 band sconosciute con live set di mezz'ora o quaranta minuti, durante i quali si sputa l'anima e il cuore davanti a 40 persone, per capire che la durata, con la bellezza vera di un concerto c'entra poco.
Con questo metro di giudizio i concerti di band come i Ramones o di molte altre band punk e post-punk fondamentali per la storia della musica, sarebbero stati catalogati come un pacco, invece la loro breve durata e la loro devastante intensità li ha consacrati come eventi "leggendari".





3 luglio 2013

Sono passati tre anni dall’ultimo live dei The National in Italia, e allora li avevo appena scoperti. Ancora ieri prima dell’inizio del concerto ripensando a quella data all’Alcatraz, non mi capacitavo della bellezza di quel concerto, talmente grande che mi ci sono voluti due giorni per metabolizzarla. Mentre, due giorni dopo, ero al concerto degli Interpol al defunto Mazda Palace (stiamo ancora aspetttando un spazio adeguato che compensi la sua chiusura) non facevo altro che pensare “Che concerto i The National”.



Detto questo, potete comprendere le aspettative che avevo per questa data all’ippodromo di Milano.

Prima di cominciare a raccontarvi però, vorrei spendere due parole su questo “festival”. 
Sono spesso critico con l’organizzazione dei concerti, ma devo dire che in questo caso, non ho nulla da criticare a questo City Sound. Anzi, Alfa Romeo City Sound perché visto che ormai sono rari i casi, quando qualcuno investe nella musica è giusto citarlo e ringraziarlo e con lei i partner. Soprattutto quando è organizzato bene.

La serata è aperta dal grande Johnny Marr (prima ancora c’erano i Colapesce, ma per me era troppo presto), il quale regala un’ora di stile, di rock, e di gran professionismo. Esiste poca gente al mondo che ha “quella roba lì” e lui fa parte di quelli.  



Il suo set si è diviso equamente fra alcuni vecchi pezzi degli Smiths come “Stop me if you think..” e “Bigmouth Strikes Again”, è scontato dire che siano i pezzi con più riscontro da parte del pubblico, altri degli Electronic, e suoi brani più recenti, comunque molto apprezzati.
Alla fine del suo live si ha la sensazione  (e la soddisfazione) di aver assistito ad un vero e proprio concerto, non a uno delle tante esibizioni monche da guest sacrificato a cui ci si trova spesso di fronte, e ci mancherebbe, è Johnny Marr!  Non si poteva chiedere di meglio come apertura. E anche i National diranno poi di essere onorati di aver condiviso il palco con lui.

I National arrivano puntuali alle nove e mezza, e attaccano col primo pezzo dell’ultimo album, come da tradizione rock, che è anche un pezzo perfetto per iniziare il concerto “I Should Live in Salt” accompagna per mano tutto il pubblico e con il suo incedere lento e cadenzato è un vero e proprio invito a rilassarsi e a lasciare fuori dall’arena la vita di tutti i giorni e lasciarsi andare alle emozioni e il pubblico non si fa pregare.

La tensione sale in fretta e senza neanche accorgercene siamo già nel pieno del concerto, non esiste riscaldamento per i National, già dalla prima nota si ha subito la sensazione di essere subito nel vivo, non c’è bisogno di quei due pezzi che di solito passano prima che tutto sia perfetto, e che la band ingrani al massimo, loro sono già al massimo fin dalla prima nota.

Con il secondo pezzo, “Swallow the Cap”, il pubblico è già caldissimo e nonostante sia anche questo un brano dell’ultimo disco, viene accolto come un grande classico, e a ragione perché dal vivo ha una resa incredibile. Il suo ritmo veloce ma sommesso crea una tensione emotiva che è lì pronta per esplodere e per aiutarci a sfogarla arriva “Bloodbuzz Ohio”.

Da qui in poi  è una doccia di emozioni, come quella che si è fatto "qualcuno" prima del concerto con i getti d’acqua dell’ippodromo. 

La foto postata dal gruppo sul loro account Instagram




E’ incredibile quello che riesce a trasmettere dal vivo questo gruppo.
Non è solo musica, non è solo un concerto, quando questa band si ritrova insieme su un palco sprigiona un’energia che va al di là della musica che fanno. 

La musica e gli arrangiamenti sempre misurati, mai eccessivi, minimali, la batteria di Bryan sempre a charleston chiuso, serrata, compressa, piena di colpi spostati e di infinite sfumature sui tom, la voce di Matt Berninger sempre molto bassa, profonda, posata, espressiva ed emozionante come poche al mondo, le chitarre caldissime e arrangiate magnificamente lasciando sempre il giusto spazio alla voce. 

In mezzo a tutto questo e grazie a tutto questo scorre un fiume, una colata lavica di tensione emotiva, che arriva al pubblico lentamente ma costantemente  e ogni nuova ondata si somma alla precedente, l’energia che arriva dal palco è così tanta che non si avverte subito la sua potenza, ma continua a sprigionarsi anche nei giorni successivi.

 Anche la voce di Matt, molte volte non riesce a contenere questa enorme forza propulsiva, e si lacera in parti urlate che stridono con il suo apparente aplomb. 
Si avverte anche nei suoi movimenti. Essendo il terminale comunicativo del gruppo è quello che più avverte cosa sta passando fra loro e il pubblico. Il suo camminare nervosamente a destra e a sinistra in ogni parte strumentale e fra un pezzo è l’altro è sintomatico di questa incredibile tensione emotiva che attraversa anche lui. Tensione che lo porta poi nel finale ad azioni “sconsiderate”.

La tripletta centrale “I’m Afraid of Everyone”, “Conversation 16” e “Squalor Victoria” è da infarto.
Da qui in poi sono sopraffatto, non riesco più a cantare, a muovermi , rimango lì immobile a farmi investire da questa scarica incredibile.
Subito dopo ci regalano un momento intenso con “I Need My Girl” annunciata come la canzone meno arrabbiata di tutte. Inutile dire che il pezzo è toccante e alla fine il boato del pubblico è grandissimo.

Questo, quando si poteva fumare nei locali e quando i fumatori erano molti di più, sarebbe stato il classico pezzo da “sigaretta”, ovvero il momento in cui c’è il “lentone” che allenta la tensione del concerto e tutti si concedono un momento di relax e di chiacchera (fastidiosissima e maleducata). Con i National questo non succede mai, perché non c’è mai un momento in cui la tensione scende.

Il finale della prima parte di concerto, come da copione, è affidato a “Fake Empire”. Quando la canzone parte, Matt inizia a cantare insieme al pubblico che, come un'unica voce, canta a memoria le parole. Lui si ferma dopo poco, sinceramente non ho capito se ha mancato l’attacco, o se si è dimenticato le parole. Dovete sapere che il cantante dei National si è portato sul palco una bottiglia di vino bianco, tenendola sempre in fresco in un secchiello porta ghiaccio. Per tutta la durata del concerto non ha fatto altro che fare piccoli sorsi e versarsi il vino in un elegante calice fino a che la bottiglia non ha visto il fondo… che stile.

Altra foto dal loro account Instagram prima del concerto...


Dopo una bottiglia di bianco quindi può capitare di sbagliare o di dimenticarsi le parole. Però se vogliamo pensarla bene, possiamo pensare che sia stato colto dall’emozione e si sia voluto godere quel fantastico coro. 
In poche occasioni nella mia vita mi è capitato di sentire il pubblico cantare in quel modo, fra l’altro è un pezzo che non è fra i più facili e immediati da capire e cantare.

Prima di arrivare alla fine della prima parte, i nostri hanno pescato, oltre ad alcuni bellissimi pezzi dall'ultimo disco come "this is the Last Time", “All the Wine” da Cherry Tree (giusto per stare in tema),  una commovente “England” da High Violet,  ancora da Cherry Tree “About Today”. Il tutto per un’ora e mezza di musica e una scaletta che rasenta la perfezione.


La bellissima copertina del loro ultimo album "Trouble Will Find Me"


Ma non è ancora finita, anzi il meglio deve ancora arrivare. Infatti i ragazzi di Brooklyn al rientro, insieme a una nuova boccia di vino (stavolta rosso) portata da Matt, ci fanno un regalo speciale che non fanno spesso: 
“Runaway” è il definitivo colpo al cuore,  è la resa incondizionata, in quel momento la band avrebbe potuto dire o fare qualunque cosa e il pubblico li avrebbe seguiti ovunque. Non mi capita mai, ma mi ritrovo con gli occhi lucidi senza un vero motivo se non l'intensità con cui è suonata (e soprattutto cantata) la canzone.
Siamo alle battute finali, e ancora l’emozione cresce, “Mr. Novembre” è un delirio, Matt non ce la fa più a contenersi e com’era accaduto all’Alcatraz e come fa spesso, scende dal palco e si butta in mezzo al pubblico continuando a cantare, io non perdo l’occasione e lo raggiungo. Lui nonostante la pressione della gente intorno a lui sia forte, si lascia trasportare dal flusso tranquillamente continuando a cantare e lasciandosi toccare da tutti, si fa sollevare sopra le nostre testa e poi risale sul palco, ma dopo poco, non contento si rituffa in mezzo, stavolta dalla parte opposta. 
C’è ancora tempo per una “Terrible Love” per la quale ho esaurito gli aggettivi entusiasti e no so più come definire, e infine il regalo più grande. Si posizionano tutti sul fronte del palco, e con due chitarre acustiche, tromba e trombone ed eseguono “Vanderlyle Crybaby Geeks” senza amplificazione. Solo con una leggera ripresa panoramica dell’audio (altrimenti nonostante il silenzio del pubblico sarebbe stato impossibile sentirli in tutta l’area). Matt ancora non resiste e torna sotto il palco a cercare il contatto con il pubblico.




Alla fine sono due ore di musica, due ore di un concerto che rimarrà fra i migliori (insieme a quello di tre anni fa) mai vissuti (non visti, vissuti) della mia vita.



Ci tengo a precisare che questo non è il punto di vista di un fan accanito, ma il racconto di quello che sono capaci di fare dal vivo e dell'effetto che hanno sul pubblico, e quindi anche su di me che ero lì in mezzo.
Quando un gruppo ti da così tanto è veramente difficile rimanere "imparziali" e preferisco far capire le sensazioni e le (tante) emozioni piuttosto che fare una semplice cronaca del concerto.