C’è un filo che lega la morte di Carlo Giuliani ai fatti di Gaza di questo ultimo anno e mezzo.
Una riflessione che faccio da anni ma che non ho mai condiviso, perché l’argomento accende troppo gli animi e non si riesce mai a parlarne senza essere o bianchi o neri. Così come quando si parlava di Berlusconi ai tempi, o era il male assoluto o era un eroe. Ma in fondo la polarizzazione del pensiero di quegli anni fa quasi tenerezza a confronto con quella di oggi, in cui la violenza verbale è pane quotidiano, quindi tanto vale esporsi e fregarsene.
Quel giorno a Genova.
Quel giorno arrivò a seguito di manifestazioni mai viste prima a Seattle, Praga, Napoli, contro la cosiddetta “globalizzazione”, un concetto che in realtà era un aggregatore di sentimenti “anti”, contro i politici, contro il capitalismo, le multinazionali, contro lo strapotere di alcuni in contrapposizione con la povertà di molti. Se vogliamo dirla tutta forse molti di quelli che manifestavano non avevano neanche un motivo preciso, ma la bellezza di quel movimento era proprio la partecipazione, un esercizio di democrazia altissimo. C’era un sentimento di rivalsa, di libertà, di unità e anche di rabbia, una sana rabbia, ben distinta da quella che guidava i soliti noti che distruggevano tutto. Un sentimento che scorreva libero ed era talmente forte da portare tantissime persone in strada anche molto diverse fra loro. Un sentimento alimentato anche da un libro, No Logo di Naomi Klein, che diventò un manifesto politico, andando a creare una nuova consapevolezza sulle metodologie delle suddette multinazionali e sui rapporti con i governi.
La manifestazione di Genova si caricò oltremodo (o meglio venne caricata volontariamente oltremodo) di significati. Fin dai giorni precedenti si avvertiva un’aria di guerra, ma se vogliamo chiamarla davvero con il suo nome, bisognerebbe dire che si avvertiva aria di repressione, vera. E così fu. Durante e dopo la manifestazione. Ed è tutto scritto nelle sentenze: fu repressione violenta, non si può e non si deve chiamarla in altro modo.
Ma ci fu un messaggio che quella repressione lanciò ai manifestanti, ai militanti e in generale a tutti quelli della mia generazione.
Più che un messaggio fu una domanda precisa.
Con l’omicidio di Carlo Giuliani ci chiesero senza giri di parole:
“Siete disposti a morire per i vostri ideali?”
La risposta che abbiamo dato è stata un secco “NO”.
La verità è che avevamo troppo da perdere nelle nostre vite agiate.
Perché dopo quell’omicidio, il movimento, invece di alzare il tiro si sciolse, impaurito, smarrito, destabilizzato.
Così la consapevolezza che nessuno di noi fosse disposto a morire per i propri ideali, ha dato carta bianca a tutto quel sistema che il movimento No-Global contestava.
Quella risposta, quel “NO”, detto senza neanche pensarci un secondo, ha portato poi al mondo in cui viviamo oggi. Quel mondo in cui la ricchezza è sempre più un privilegio per pochissimi, in cui la Corte Penale Internazionale viene ridicolizzata e nessuno fa nulla, in cui tutti gli organi di controllo della democrazia sono vittime di tentativi di sabotaggio, spesso riusciti, e rimaniamo a guardare, in cui in Ucraina ammazzano civili indiscriminatamente da tre anni e molti di noi si schierano con il potente che sgancia le bombe su bambini e famiglie.
Quel “no”, quella paura, quello smarrimento, ha portato inconsciamente anche molti di noi a stare dalla parte del potere (negandolo), perché ci hanno mostrato cosa succede a stare dall’altra.
Così come quello che sta accadendo a Gaza, quella consapevolezza di poter fare tutto ciò che vogliono, è l’escalation lenta e inesorabile di quella risposta che abbiamo dato nel 2001.
La consapevolezza che nessuno, sebbene tanti si siano schierati attivamente contro il massacro, sia disposto a rischiare la vita per loro, sia disposto a superare la propria linea rossa.
La consapevolezza che oggi ancora più di ieri le nostre comodità quotidiane contano più di ogni altra cosa e non siamo disposti a perderle.
Anzi, abbiamo paura che ci vengano rubate da chi subisce ogni giorno quello che noi abbiamo solo assaggiato.
Non si può neanche scaricare la responsabilità sulla classe dirigente, che siano politici, banche, o fantomatici poteri forti. Perché la classe dirigente di oggi è l’espressione di più di vent’anni di nostre X sulle schede elettorali e di nostre scelte.
L’immobilismo della politica di oggi è la diretta espressione del nostro.
Quel giorno a Genova.
Quel giorno arrivò a seguito di manifestazioni mai viste prima a Seattle, Praga, Napoli, contro la cosiddetta “globalizzazione”, un concetto che in realtà era un aggregatore di sentimenti “anti”, contro i politici, contro il capitalismo, le multinazionali, contro lo strapotere di alcuni in contrapposizione con la povertà di molti. Se vogliamo dirla tutta forse molti di quelli che manifestavano non avevano neanche un motivo preciso, ma la bellezza di quel movimento era proprio la partecipazione, un esercizio di democrazia altissimo. C’era un sentimento di rivalsa, di libertà, di unità e anche di rabbia, una sana rabbia, ben distinta da quella che guidava i soliti noti che distruggevano tutto. Un sentimento che scorreva libero ed era talmente forte da portare tantissime persone in strada anche molto diverse fra loro. Un sentimento alimentato anche da un libro, No Logo di Naomi Klein, che diventò un manifesto politico, andando a creare una nuova consapevolezza sulle metodologie delle suddette multinazionali e sui rapporti con i governi.
La manifestazione di Genova si caricò oltremodo (o meglio venne caricata volontariamente oltremodo) di significati. Fin dai giorni precedenti si avvertiva un’aria di guerra, ma se vogliamo chiamarla davvero con il suo nome, bisognerebbe dire che si avvertiva aria di repressione, vera. E così fu. Durante e dopo la manifestazione. Ed è tutto scritto nelle sentenze: fu repressione violenta, non si può e non si deve chiamarla in altro modo.
Ma ci fu un messaggio che quella repressione lanciò ai manifestanti, ai militanti e in generale a tutti quelli della mia generazione.
Più che un messaggio fu una domanda precisa.
Con l’omicidio di Carlo Giuliani ci chiesero senza giri di parole:
“Siete disposti a morire per i vostri ideali?”
La risposta che abbiamo dato è stata un secco “NO”.
La verità è che avevamo troppo da perdere nelle nostre vite agiate.
Perché dopo quell’omicidio, il movimento, invece di alzare il tiro si sciolse, impaurito, smarrito, destabilizzato.
Così la consapevolezza che nessuno di noi fosse disposto a morire per i propri ideali, ha dato carta bianca a tutto quel sistema che il movimento No-Global contestava.
Quella risposta, quel “NO”, detto senza neanche pensarci un secondo, ha portato poi al mondo in cui viviamo oggi. Quel mondo in cui la ricchezza è sempre più un privilegio per pochissimi, in cui la Corte Penale Internazionale viene ridicolizzata e nessuno fa nulla, in cui tutti gli organi di controllo della democrazia sono vittime di tentativi di sabotaggio, spesso riusciti, e rimaniamo a guardare, in cui in Ucraina ammazzano civili indiscriminatamente da tre anni e molti di noi si schierano con il potente che sgancia le bombe su bambini e famiglie.
Quel “no”, quella paura, quello smarrimento, ha portato inconsciamente anche molti di noi a stare dalla parte del potere (negandolo), perché ci hanno mostrato cosa succede a stare dall’altra.
Così come quello che sta accadendo a Gaza, quella consapevolezza di poter fare tutto ciò che vogliono, è l’escalation lenta e inesorabile di quella risposta che abbiamo dato nel 2001.
La consapevolezza che nessuno, sebbene tanti si siano schierati attivamente contro il massacro, sia disposto a rischiare la vita per loro, sia disposto a superare la propria linea rossa.
La consapevolezza che oggi ancora più di ieri le nostre comodità quotidiane contano più di ogni altra cosa e non siamo disposti a perderle.
Anzi, abbiamo paura che ci vengano rubate da chi subisce ogni giorno quello che noi abbiamo solo assaggiato.
Non si può neanche scaricare la responsabilità sulla classe dirigente, che siano politici, banche, o fantomatici poteri forti. Perché la classe dirigente di oggi è l’espressione di più di vent’anni di nostre X sulle schede elettorali e di nostre scelte.
L’immobilismo della politica di oggi è la diretta espressione del nostro.