30 gennaio 2014

Dopo Woodkid, sempre con la massima calma, è il momento di eleggere l'altro disco dell'anno. In questo caso è un po' più "difficile" e sicuramente non piacerà a tutti...

Il secondo disco dell'anno 2013 è:


THESE NEW PURITANS - Field Of Reeds

Non solo il disco è molto particolare, ma anche il modo in cui mi sono avvicinato a lui lo è stato altrettanto, quasi "all'antica" direi e vale la pena raccontarlo perché è anche uno dei motivi per cui è diventato disco dell'anno.

Lessi una recensione su Rolling Stone, una di quelle scritte bene, che vuole farti capire veramente cos'è il disco e dove l'ego e i gusti personali del recensore sono lasciati fuori. Rimasi incuriosito, perché si capiva che era un disco molto particolare, ma poi me ne dimenticai.

Durante una delle mie frequenti incursioni serali da Dischi Volanti sul Naviglio grande a Milano, sfogliando i vinili, mi ritrovai davanti una copertina molto bella, con dei particolari in rilievo che mi attirò subito.

Non ricordavo assolutamente come fosse la copertina abbinata alla recensione dei TNP.
Presi il vinile, lo guardai ed era proprio lui. Con la curiosità che mi aveva lasciato la recensione, e il richiamo che aveva avuto per me quel vinile non potevo lasciarlo lì.
Andai in cassa a pagare (neanche poco, perché è un doppio vinile con un packaging molto curato) e lo portai a casa senza averlo mai sentito e senza avere alcuna idea sul genere e sul tipo di musica che conteneva e senza aver mai sentito nulla di quella band.

Quante volte vi capita oggi di comprare un disco senza aver mai sentito neanche un pezzo? 

L'ho lasciato lì in attesa di un momento buono, e quando quel momento è arrivato l'ho messo sul piatto, l'ho fatto girare, ho appoggiato la puntina, mi sono seduto sul divano con in mano un bicchiere di whisky e BAM!

Perché tutta questa premessa? 
Perché Field of Reeds è un disco che ha bisogno del suo momento e del suo tempo. E' un disco al quale ci si deve dedicare completamente, che si deve ascoltare come ormai non si fa quasi più con nessun'altro disco. Anche il modo in cui mi sono avvicinato, il fatto che il primo formato di ascolto con il quale sono venuto a contatto fosse il vinile, è stato quasi un invito del disco stesso a dedicargli il tempo che si meritava. Andrebbe ascoltato solo in vinile.

Non c'è un genere per definirlo, è sperimentale, liquido, atmosferico, è pura arte contemporanea.
Se vi è capitato di ascoltare le sperimentazioni di John Cage, Steve Reich, Edgar Varese, troverete un po' di quello spirito, quella sensazione, anche se non è portata così all'estremo.


Si apre con This Guy's in Love with You, il piano che ripete ipnoticamente due accordi leggermente dissonanti e una voce lontana anch'essa dissonante, seguiti da una una parte di fiati molto malinconica e poi ancora torna il piano che ripete la stessa parte iniziale, per poi dare spazio a un breve assolo di tromba.
Si ha l'impressione quasi di vedere i titoli di apertura di un film e la scena che si apre su un paesaggio urbano decadente.


Da qui in poi si entra in una vera e propria opera di arte contemporanea, dove gli strumenti entrano su piani inclinati che confluiscono formando un tessuto sonoro intricato, come a formare delle macchie di colore su un'unica tela.
Non troverete una canzone, non troverete mai una strofa e un ritornello riconoscibili, ma capitoli di un'opera.

La melodia è destrutturata, sfibrata, non c'è mai un accordo maggiore, non c'è mai quasi mai una successione armonica pulita, man mano che il disco si sviluppa si impara a convivere con la dissonanza.
Il punto più ostico forse si incontra con The Light in Your Name, la terza traccia e forse la più sperimentale, dove la dissonanza regna sovrana.
Come quasi in tutto il disco l'impianto principale è affidato al pianoforte, sul quale poi si inserisce la voce, e progressivamente si aggiungono altri strumenti. Archi, fiati, organo, sinth, percussioni, rumori. Giunti alla fine si ha un tessuto sonoro complicato, difficile da inquadrare, che può quasi apparire casuale, al limite della sopportazione.
Forse ha proprio l'obbiettivo di scardinare la nostra abitudine all'armonia e alla melodia, di aprire la nostra mente, atrofizzata da decenni di musica "orecchiabile" (aggettivo orribile), ad altri tipi di intervalli fra le note.

Superato questo scoglio si viene inghiottiti dalla musica dei These New Puritans. Non ci sono più difese, ogni barriera cade, la mente si libera e diventa un foglio bianco. Il flusso sonoro colpisce in pieno, senza nessun pensiero a frapporsi fra l'ascoltatore e la musica.

Dopo circa venti minuti in cui si viene sbatacchiati in un mare di dissonanze, impianti sonori rarefatti, ipnotici, disturbanti, si arriva poi ad un approdo sicuro.

Organ Eternal è come un molo che spunta dal nulla in mezzo all'oceano, è il definitivo colpo di grazia per le difese dell'ascoltatore, il suo andamento circolare su un tempo dispari, continuo e immutabile è un'acqua termale che purifica definitivamente la mente.

Subito dopo si torna nello stesso mare di dissonanze da cui si è arrivati, ma dopo Organ Eternal si ha la sensazione di esserne cullati.

Il saluto finale è affidato alla title track, uno dei momenti più armonici di tutto il disco, quasi come se i These New Puritans vogliano riportarti al mondo reale passando da una camera di decompressione senza pareti.

Finito il disco la sensazione di essere stati in un altro mondo è palpabile, la mente è immensamente più leggera di prima. E' una musica che realmente ha bisogno di una completa dedizione, ma se si è disposti a farsi attraversare, con la sua dissonanza e completa estraneità con ogni cosa che siamo abituati a sentire, con il suo concentrato di piani sonori inclinati, di intervalli inusuali fra le note spinge la mente ad allinearsi e ad equilibrarsi.

Anche i testi sono molto particolari, le parole sembrano perdersi in mezzo a questo spazio sonoro infinito, evocativi, minimali, immagini accennate ma potenti. 

Anche se la mente dietro a questo progetto in sostanza è una (Jack Barnett) e gli altri due elementi (Thomas Hein e George Barnett) siano meno coinvolti nel processo di composizione (la quarta, Sophie Sleigh-Johnson ha di recente lasciato la band); questo disco ha un parco collaboratori infinito. Archi, ottoni, organi, coro, elementi elettronici, anche se ascoltandolo non si avverte subito quanti elementi ci siano al lavoro in ogni parte, è veramente un disco stratificato, con degli arrangiamenti complicati e molto strutturati. 

Inoltre va considerato che i These New Puritans hanno alle spalle due dischi completamente diversi da Field Of Reeds. E' stato una vera e propria scommessa e un atto di coraggio, in un mondo nel quale se una band nuova sbaglia un disco, si gioca la carriera. I These New Puritans hanno investito sulla qualità e sulle idee, ma soprattutto sulla loro completa indipendenza da ogni logica di mercato e hanno vinto. Per questo Field Of Reeds è disco dell'anno 2013.

Non ci sono volutamente estratti audio/video o di testi perché secondo me è un disco che va affrontato solo ed esclusivamente nella sua interezza.



A presto per la terza e quarta parte dedicata ai concerti dell'anno 2013.


















17 gennaio 2014



Così siamo a gennaio e come l'anno scorso, passato l'uragano delle classifiche di fine anno, qui sul Dolditoriale è tempo di nominare il miglior disco e il miglior concerto dell'anno passato.

Il 2013 è stato l'anno delle classifiche, ma come al solito tutti si dimenticano sempre di qualcuno che magari è uscito nella prima parte dell'anno o non è così di moda per dare abbastanza hype alla propria classifica.

Non ho cambiato idea a riguardo, non mi ci metto a fare una classifica con 10-20 dischi o concerti, non ho le competenze, non ho il tempo, e in tutta sincerità non ho neanche voglia. Mi accontento di nominarne uno, dando anche una motivazione però. Perché può essere anche facile (non per me) scegliere i 10 migliori dischi, ma perché li avete scelti?

Però mi contraddirò subito, perché per questa volta, non sapendo scegliere, ho deciso che ci saranno due vincitori per ogni categoria. E li dividerò in quattro articoli differenti per questioni di praticità e per facilitarne la lettura.




Il miglior disco, il primo dei due, del 2013 è:

WOODKID - The Golden Age

The Golden Age di Woodkid (francese, classe 1983) è uscito a marzo del 2013, senza troppo clamore, ma ampiamente anticipato dai due singoli Iron e Run Boy Run.
L'impatto della musica di Woodkid e di tutto il suo universo visivo è stato devastante. Non si contano più le pubblicità, i programmi tv (uno su tutti, X-Factor) i servizi tv, i video, e anche i plagi (tipo quello imbarazzante di Celentano per Rock Economy ad opera di Gaetano cordioli, ora sparito dalla circolazione) che hanno ripreso la musica e lo stile del'artista francese. The Golden Age è stato una delle poche vere novità nel panorama musicale mondiale.

Perché è esattamente quello che dovrebbe essere un disco nel 2013. Un progetto totale, curato in ogni minimo particolare, legato indissolubilmente all'aspetto visivo e alla performance dal vivo.
Prima che Yoanne Lemoine diventasse Woodkid non esisteva nulla di simile, nessuno aveva mai unito la musica classica con il pop, l'elettronica e la musica di ispirazione tribale nel modo in cui l'ha fatto lui e con la sua efficacia e stile e con un immagine così forte e caratterizzata.

Sul suo disco si passa da momenti di intimità totale con piano e voce, a maestosi e drammatici arrangiamenti orchestrali che non sfigurerebbero alla Scala, fino a ritrovarsi davanti a un falò a danzare mezzi nudi con il corpo pitturato. Detto così sembra assurdo, e non sembra poter funzionare in alcun modo, la realtà è ben diversa perché "The Golden Age" funziona eccome.
Ogni pezzo ha una sua caratteristica peculiare, ogni tassello all'interno dell'album è messo nel punto giusto, creando un'opera completa e strutturata. Per questo vale la pena analizzare pezzo per pezzo per capire la struttura di questo disco.

La title track è un manifesto del suo stile, inizia con piano e voce, con un pathos che ricorda Antony and the Johnsons, dopo poco entrano prima gli archi, con un arrangiamento delicato e suggestivo. Intorno al minuto e mezzo la canzone cambia repentinamente e inizia a montare un tensione palpabile, guidata dalle trombe, come se piano piano il mondo creato da Woodkid si manifestasse intorno alla musica. L'andatura inizia ad aumentare, e ti guardi alle spalle con la pura di essere inseguito da qualcuno o qualcosa.
La tensione "narrativa" su questo pezzo come in quasi tutta la sua musica, viene caratterizzata principalmente dai fiati, arrangiati e utilizzati in chiave classica, con trombe, corni, bassi tuba, tromboni, molto drammatici e possenti in alcune fasi e d'atmosfera in altri.


Run Boy Run è un capolavoro. Non ci sono altre parole per descrivere un pezzo così potente. L'inizio scandito dalla campana e e la voce che scandisce "Run boy run" con una ripetizione quasi ipnotica di quelle parole su un tappeto di percussioni perfettamente assemblate è una delle migliori partenze di sempre per una canzone.
La musica continua a dare l'impressione, come all'apertura del disco, di essere colonna sonora per una fuga, una corsa per scappare dall'ignoto verso qualcosa che non si conosce. La pausa sul ritornello e l'esplosione successiva di percussioni e orchestra, la coda finale con il crescendo che parte dalle percussioni, si apre sui violini per poi esplodere con tutta l'orchestra è qualcosa di veramente incredibile.

Ad amplificare la potenza di questo pezzo, un video che insieme a quello di Iron è diventato il Matrix dei videoclip musicali, un punto di riferimento per tutti, un video che in un anno e mezzo ha totalizzato più di nove milioni di visualizzazioni, che per un artista spuntato fuori dal nulla è una cosa incredibile.



Bisogna però specificare per correttezza, che Yoanne Lemoine, non è proprio uscito dal nulla, prima di debuttare nella musica, è stato regista di vari videoclip per gente del calibro di Katy Perry e Lana del Ray. Ma non si tratta di raccomandazioni o favori (da Italiani viene subito il pensiero maligno), dal punto di vista musicale, fino all'uscita di Iron era un signor nessuno.

Con The Great Escape si entra nello spazio, un inizio di archi fa da spartiacque fra il tripudio di Run Boy Run e la marcia serrata con cui esplode subito questo pezzo, un vero galoppo, sul quale entrano i fiati a suonare la carica. La voce felpata di Woodkid si appoggia morbida sull'intricato tessuto sonoro dettando i tempi con la una metrica ben definita.

Arriva Boat Song e torna l'intimità di piano e voce, ma la percezione è di uno spazio enorme intorno a questi due elementi, spazio che dopo poco viene riempito da un incredibile arrangiamento di fiati. La contrapposizione della parte orchestrale con la voce e il piano, entrambe delicate e toccanti in maniera totalmente differente l'una dall'altra, fanno di Boat Song uno dei momenti più toccanti di tutto il disco.

I Love You è forse il pezzo con la formula e il ritornello più easy listening, e infatti è stato il singolo di lancio dell'album, percussioni meno arrembanti, ma con un ritmo sempre efficace. Anche qui è presente uno stupendo crescendo di archi piazzato subito dopo il ritornello. Una canzone che è un piccolo gioiello di semplicità.



Ghost Light è il ponte che porta all'apoteosi del lato più classico di The Golden Age, che inizia con Shadows ed esplode con Stabat Mater. Un inizio orchestrale che sembra rubato a Mahler o a Strauss, la parte cantata che fa da contraltare, sostenuta da un tappeto di archi e poi ancora l'esplosione anticipata da tre colpi di timpano, un pezzo che è come un monolite (che ci riporta a Strauss...) piantato in mezzo al disco.



A Stabat Mater è contrapposta la leggerezza di Conquest of Spaces, con la quale sembra di scendere un fiume, o di galleggiare nello spazio. Una sequenza di flauto caratterizza tutta la canzone e dove tornano le tipiche percussioni "alla Woodkid". Un continuo crescendo che si sviluppa lentamente fino alla fine.

Falling spezza l'atmosfera, con suoni quasi da thriller, fra la maestosità della doppietta precedente e la successiva Where I Live.
Con quest'ultima torna l'intimità di piano e voce, un altro momento molto toccante alla pari di Boat Song, con ancora i fiati a disegnare un arrangiamento sublime sul ritornello.

E poi arriva Iron, il pezzo che ha presentato Woodkid al mondo, un pezzo dalla sua uscita che è stato usato miliardi di volte come colonna sonora di qualsiasi cosa, con un video che da marzo 2011 ha totalizzato 25 MILIONI di visualizzazioni. Un pezzo di una potenza immaginifica incredibile, che riporta agli scenari cupi e ostili di film come Valhalla Rising di Nicholas Winding Refn.
L'introduzione dei fiati è come un portale gigantesco che si apre lentamente, al di là del quale infuria la battaglia scandita dai tamburi. La voce di Yoanne è quasi un sussurro, una voce fuoricampo che ti guida all'interno di questo scenario pericoloso.



Una danza tribale, medievale, un pezzo al cui interno sembra esserci qualcosa qualcosa di seminale, che riporta alle origini dell'uomo. Un altro capolavoro.

Il sipario si chiude con The Other Side, una marcia solenne che saluta l'ascoltatore, guidandolo lentamente fuori dall'universo di Woodkid.
Per la prima volta oltre all'orchestra entra in scena un coro di voci maschili, che accentua la drammaticità della marcia, per poi lasciare spazio solo ai rullanti che chiudono il disco in maniera impeccabile.

Anche dal punto di vista dei testi The Golden Age non è banale. Si fa spesso riferimento a grandi spazi, il mare, l'oceano, luoghi dove la voce narrante si fa piccola e smarrita, alla vastità di questi spazi viene associata la complessità dell'animo umano. Sono frequenti i riferimenti a guerre e battaglie, sia interiori che contro il mondo, la paura di crescere, gli amori lasciati alle spalle e quelli mai corrisposti, la nostalgia di casa, lo smarrimento di quando si lascia un porto sicuro per affrontare l'oceano che ci aspetta fuori dalla porta di casa, o di qualsiasi luogo che ci da la sensazione di essere al sicuro.
Forse alla fine The Golden Age è una fuga da quello che ci tiene a terra verso il prorio futuro, la ricerca della nostra strada, del nostro destino, la ricerca di una sorta di terra promessa, la ricerca di sè e di una persona che che non ci lasci soli nella tempesta e nel mezzo di una battaglia.

Come tutti i grandi artisti Yoanne Lemoine si circonda di persone altettanto valide e questo disco deve molto anche al loro apporto. Uno su tutti Bruno Bertoli, il direttore che ha curato tutte le orchestrazioni del disco, ma anche i vari co-autori dei pezzi che potete trovare qui.
La scelta degli arrangiamenti e degli strumenti sono una delle caratteristiche fondamentali, a partire dalla mancanza di batteria, sia fisica che elettronica, sostituita dalle percussioni. Tutte le scelte fatte all'interno di The Golden Age denotano un lavoro incredibile, e una consapevolezza che per un artista emergente è rarissima da trovare.

Per tutti questi aspetti che ho raccontato, The Goden Age è uno dei due dischi dell'anno 2013. 

A presto per la seconda parte con il secondo disco dell'anno...