17 gennaio 2014



Così siamo a gennaio e come l'anno scorso, passato l'uragano delle classifiche di fine anno, qui sul Dolditoriale è tempo di nominare il miglior disco e il miglior concerto dell'anno passato.

Il 2013 è stato l'anno delle classifiche, ma come al solito tutti si dimenticano sempre di qualcuno che magari è uscito nella prima parte dell'anno o non è così di moda per dare abbastanza hype alla propria classifica.

Non ho cambiato idea a riguardo, non mi ci metto a fare una classifica con 10-20 dischi o concerti, non ho le competenze, non ho il tempo, e in tutta sincerità non ho neanche voglia. Mi accontento di nominarne uno, dando anche una motivazione però. Perché può essere anche facile (non per me) scegliere i 10 migliori dischi, ma perché li avete scelti?

Però mi contraddirò subito, perché per questa volta, non sapendo scegliere, ho deciso che ci saranno due vincitori per ogni categoria. E li dividerò in quattro articoli differenti per questioni di praticità e per facilitarne la lettura.




Il miglior disco, il primo dei due, del 2013 è:

WOODKID - The Golden Age

The Golden Age di Woodkid (francese, classe 1983) è uscito a marzo del 2013, senza troppo clamore, ma ampiamente anticipato dai due singoli Iron e Run Boy Run.
L'impatto della musica di Woodkid e di tutto il suo universo visivo è stato devastante. Non si contano più le pubblicità, i programmi tv (uno su tutti, X-Factor) i servizi tv, i video, e anche i plagi (tipo quello imbarazzante di Celentano per Rock Economy ad opera di Gaetano cordioli, ora sparito dalla circolazione) che hanno ripreso la musica e lo stile del'artista francese. The Golden Age è stato una delle poche vere novità nel panorama musicale mondiale.

Perché è esattamente quello che dovrebbe essere un disco nel 2013. Un progetto totale, curato in ogni minimo particolare, legato indissolubilmente all'aspetto visivo e alla performance dal vivo.
Prima che Yoanne Lemoine diventasse Woodkid non esisteva nulla di simile, nessuno aveva mai unito la musica classica con il pop, l'elettronica e la musica di ispirazione tribale nel modo in cui l'ha fatto lui e con la sua efficacia e stile e con un immagine così forte e caratterizzata.

Sul suo disco si passa da momenti di intimità totale con piano e voce, a maestosi e drammatici arrangiamenti orchestrali che non sfigurerebbero alla Scala, fino a ritrovarsi davanti a un falò a danzare mezzi nudi con il corpo pitturato. Detto così sembra assurdo, e non sembra poter funzionare in alcun modo, la realtà è ben diversa perché "The Golden Age" funziona eccome.
Ogni pezzo ha una sua caratteristica peculiare, ogni tassello all'interno dell'album è messo nel punto giusto, creando un'opera completa e strutturata. Per questo vale la pena analizzare pezzo per pezzo per capire la struttura di questo disco.

La title track è un manifesto del suo stile, inizia con piano e voce, con un pathos che ricorda Antony and the Johnsons, dopo poco entrano prima gli archi, con un arrangiamento delicato e suggestivo. Intorno al minuto e mezzo la canzone cambia repentinamente e inizia a montare un tensione palpabile, guidata dalle trombe, come se piano piano il mondo creato da Woodkid si manifestasse intorno alla musica. L'andatura inizia ad aumentare, e ti guardi alle spalle con la pura di essere inseguito da qualcuno o qualcosa.
La tensione "narrativa" su questo pezzo come in quasi tutta la sua musica, viene caratterizzata principalmente dai fiati, arrangiati e utilizzati in chiave classica, con trombe, corni, bassi tuba, tromboni, molto drammatici e possenti in alcune fasi e d'atmosfera in altri.


Run Boy Run è un capolavoro. Non ci sono altre parole per descrivere un pezzo così potente. L'inizio scandito dalla campana e e la voce che scandisce "Run boy run" con una ripetizione quasi ipnotica di quelle parole su un tappeto di percussioni perfettamente assemblate è una delle migliori partenze di sempre per una canzone.
La musica continua a dare l'impressione, come all'apertura del disco, di essere colonna sonora per una fuga, una corsa per scappare dall'ignoto verso qualcosa che non si conosce. La pausa sul ritornello e l'esplosione successiva di percussioni e orchestra, la coda finale con il crescendo che parte dalle percussioni, si apre sui violini per poi esplodere con tutta l'orchestra è qualcosa di veramente incredibile.

Ad amplificare la potenza di questo pezzo, un video che insieme a quello di Iron è diventato il Matrix dei videoclip musicali, un punto di riferimento per tutti, un video che in un anno e mezzo ha totalizzato più di nove milioni di visualizzazioni, che per un artista spuntato fuori dal nulla è una cosa incredibile.



Bisogna però specificare per correttezza, che Yoanne Lemoine, non è proprio uscito dal nulla, prima di debuttare nella musica, è stato regista di vari videoclip per gente del calibro di Katy Perry e Lana del Ray. Ma non si tratta di raccomandazioni o favori (da Italiani viene subito il pensiero maligno), dal punto di vista musicale, fino all'uscita di Iron era un signor nessuno.

Con The Great Escape si entra nello spazio, un inizio di archi fa da spartiacque fra il tripudio di Run Boy Run e la marcia serrata con cui esplode subito questo pezzo, un vero galoppo, sul quale entrano i fiati a suonare la carica. La voce felpata di Woodkid si appoggia morbida sull'intricato tessuto sonoro dettando i tempi con la una metrica ben definita.

Arriva Boat Song e torna l'intimità di piano e voce, ma la percezione è di uno spazio enorme intorno a questi due elementi, spazio che dopo poco viene riempito da un incredibile arrangiamento di fiati. La contrapposizione della parte orchestrale con la voce e il piano, entrambe delicate e toccanti in maniera totalmente differente l'una dall'altra, fanno di Boat Song uno dei momenti più toccanti di tutto il disco.

I Love You è forse il pezzo con la formula e il ritornello più easy listening, e infatti è stato il singolo di lancio dell'album, percussioni meno arrembanti, ma con un ritmo sempre efficace. Anche qui è presente uno stupendo crescendo di archi piazzato subito dopo il ritornello. Una canzone che è un piccolo gioiello di semplicità.



Ghost Light è il ponte che porta all'apoteosi del lato più classico di The Golden Age, che inizia con Shadows ed esplode con Stabat Mater. Un inizio orchestrale che sembra rubato a Mahler o a Strauss, la parte cantata che fa da contraltare, sostenuta da un tappeto di archi e poi ancora l'esplosione anticipata da tre colpi di timpano, un pezzo che è come un monolite (che ci riporta a Strauss...) piantato in mezzo al disco.



A Stabat Mater è contrapposta la leggerezza di Conquest of Spaces, con la quale sembra di scendere un fiume, o di galleggiare nello spazio. Una sequenza di flauto caratterizza tutta la canzone e dove tornano le tipiche percussioni "alla Woodkid". Un continuo crescendo che si sviluppa lentamente fino alla fine.

Falling spezza l'atmosfera, con suoni quasi da thriller, fra la maestosità della doppietta precedente e la successiva Where I Live.
Con quest'ultima torna l'intimità di piano e voce, un altro momento molto toccante alla pari di Boat Song, con ancora i fiati a disegnare un arrangiamento sublime sul ritornello.

E poi arriva Iron, il pezzo che ha presentato Woodkid al mondo, un pezzo dalla sua uscita che è stato usato miliardi di volte come colonna sonora di qualsiasi cosa, con un video che da marzo 2011 ha totalizzato 25 MILIONI di visualizzazioni. Un pezzo di una potenza immaginifica incredibile, che riporta agli scenari cupi e ostili di film come Valhalla Rising di Nicholas Winding Refn.
L'introduzione dei fiati è come un portale gigantesco che si apre lentamente, al di là del quale infuria la battaglia scandita dai tamburi. La voce di Yoanne è quasi un sussurro, una voce fuoricampo che ti guida all'interno di questo scenario pericoloso.



Una danza tribale, medievale, un pezzo al cui interno sembra esserci qualcosa qualcosa di seminale, che riporta alle origini dell'uomo. Un altro capolavoro.

Il sipario si chiude con The Other Side, una marcia solenne che saluta l'ascoltatore, guidandolo lentamente fuori dall'universo di Woodkid.
Per la prima volta oltre all'orchestra entra in scena un coro di voci maschili, che accentua la drammaticità della marcia, per poi lasciare spazio solo ai rullanti che chiudono il disco in maniera impeccabile.

Anche dal punto di vista dei testi The Golden Age non è banale. Si fa spesso riferimento a grandi spazi, il mare, l'oceano, luoghi dove la voce narrante si fa piccola e smarrita, alla vastità di questi spazi viene associata la complessità dell'animo umano. Sono frequenti i riferimenti a guerre e battaglie, sia interiori che contro il mondo, la paura di crescere, gli amori lasciati alle spalle e quelli mai corrisposti, la nostalgia di casa, lo smarrimento di quando si lascia un porto sicuro per affrontare l'oceano che ci aspetta fuori dalla porta di casa, o di qualsiasi luogo che ci da la sensazione di essere al sicuro.
Forse alla fine The Golden Age è una fuga da quello che ci tiene a terra verso il prorio futuro, la ricerca della nostra strada, del nostro destino, la ricerca di una sorta di terra promessa, la ricerca di sè e di una persona che che non ci lasci soli nella tempesta e nel mezzo di una battaglia.

Come tutti i grandi artisti Yoanne Lemoine si circonda di persone altettanto valide e questo disco deve molto anche al loro apporto. Uno su tutti Bruno Bertoli, il direttore che ha curato tutte le orchestrazioni del disco, ma anche i vari co-autori dei pezzi che potete trovare qui.
La scelta degli arrangiamenti e degli strumenti sono una delle caratteristiche fondamentali, a partire dalla mancanza di batteria, sia fisica che elettronica, sostituita dalle percussioni. Tutte le scelte fatte all'interno di The Golden Age denotano un lavoro incredibile, e una consapevolezza che per un artista emergente è rarissima da trovare.

Per tutti questi aspetti che ho raccontato, The Goden Age è uno dei due dischi dell'anno 2013. 

A presto per la seconda parte con il secondo disco dell'anno...












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