11 gennaio 2013


Riconoscete questa immagine?



Non mi sono mai piaciute le classifiche di fine anno.

Per questo ne faccio una di inizio anno che però fa riferimento all’anno precedente.

Non credo che dopo 365 giorni (366 quest’anno), un non professionista, un blogger, un webzinaro come me e come tanti altri, possa ricordarsi alla perfezione tutti i dischi usciti e ascoltati, possa aver ascoltato un numero sufficiente di uscite per poter avere il quadro più completo e autorevole possibile delle uscite discografiche dell’anno.

E’ un dato di fatto poi, che i dischi usciti nella seconda metà dell’anno sono sempre avvantaggiati rispetto a quelli usciti nella prima.

Ci ho provato in passato a stilare questo tipo di classifiche, ma ho sempre faticato. Ora guardando la libreria di Itunes se è ben organizzata è tutto molto più facile…

Ma per questa volta mi metto di impegno.

Voglio eleggere un disco e un live, che il caso vuole appartengano alla stessa band. Troppo facile?

Vedremo…

Il mio premio come miglior disco dell’anno e miglior live dell’anno va ai:

THE MACCABEES!

Ci sono motivazione ben precise che cercherò di spiegarvi a fondo, cercando di sopperire alla “brevità” della classifica con un’analisi accurata.

Innanzi tutto Given to the Wild è il terzo disco dei Maccabees, il secondo dopo aver raggiunto un minimo di fama e riconoscimenti con il precedente “Wall of Arms”.



Per cui racchiudeva in sé una doppia difficoltà: quella di un secondo difficile disco sotto la lente di ingrandimento del grande circo musicale e di un terzo disco che fosse la conferma del loro valore per i fans con il rischio di scontentare la solita triste fanbase che vorrebbe sempre il solito disco ripetuto all’infinito.

Molti loro colleghi hanno affrontato lo scoglio, limitandosi a inserire qualche tastierino sulla solita formula, o inserendo un po’ di elettronica, o adesso si usa molto fare i “rivoluzionari” inserendo qualche spruzzo di dubstep che fa sempre tanto trendy e tanto gggiovane.

I Maccabees invece si sono giocati tutto. Hanno preso i loro punti di forza: incroci di chitarre, voce algida, ritmiche curate al dettaglio e piene di microsfumature e variazioni e li hanno portati a un livello altissimo. Contestualmente hanno fatto un lavoro grandioso sulle strutture e nella costruzione dei pezzi che poteva essere molto pericoloso.

Given to the Wild non è un disco facile. Ci vuole un po’ per inquadrarlo e per mettere a fuoco i vari pezzi. E’ un album stratificato, dove ci sono vari livelli di ascolto.

Il primo è quello delle canzoni, dei pezzi. Se lo si ascolta distrattamente  si sente un gran disco pop rock, fatto di grandi pezzi con bellissime melodie ben costruite, e molto cristallino nei suoni.

Più si presta l’orecchio ai particolari e più si aprono gli altri livelli e si accede a un mondo vastissimo, fatto di reverberi, echi, delay,   infinite sovraincisioni di chitarre, infinite sovraincisioni di voce, stereofonia sfruttata al massimo, produzione e suoni a livelli che poche volte mi è capitato di sentire. Oltre a questo sono state sì inserite elettronica, sinth e tastiere, e anche fiati, ma è tutto perfettamente inserito, vanno a completare un tessuto sonoro dove tutto è complementare.

Tutti questi elementi rendono il disco diverso ad ogni ascolto a seconda dell’attenzione che si presta a un determinato aspetto o a un altro.

Un altro valore aggiunto è la concezione strumentale del disco, tutti pezzi (ad eccezione del primo singolo forse) sono così completi e ben costruiti che potrebbero stare in piedi benissimo anche senza l’apporto di una voce. Alcuni sono vere e proprie “opere”, con intro, crescendo, momenti di quasi silenzio intervallati ad esplosioni sonore, con delle variazioni di intensità che vanno dal fortissimo, al pianissimo, dove strofa e ritornello perdono i confini.

Il tutto senza aver bisogno di sfondare il tetto dei 5 minuti.

Provate ad ascoltare questo:



Ascoltate bene dal minuto 1.00 al 1.27 (se potete fatelo con il disco e un bell’impianto, su youtube si perde quasi tutto): il modo in cui si rincorrono le chitarre, la cascata di suoni che formano  è un capolavoro. Ascoltato poi con una qualità sonora accettabile, si sentono mille sfumature di suono, sembra che ci siano 20 chitarre che si susseguono entrando e uscendo in continuazione dal campo sonoro.



Anche qui, dal minuto 1.30 a 2.11, non sentivo una parte di chitarra così lunga e articolata su un pezzo pop-rock da non so quanto tempo, protagonista ma non invadente, perfettamente funzionale al pezzo in cui è inserita.

E poi il vero capolavoro di questo disco: 





La delicatezza con cui inizia, il giro di basso, l’apertura della batteria che entra con un pattern spettacolare, la sospensione piena di delay e reverberi prima dell’esplosione,e poi BOOM!


Anche in questo pezzo (da 2.53 a 3.47) le chitarre sono sconfinate, non lasciano respiro, sono in continua rincorsa, non si sa dove finisce una e dove inizia l’altra.

Un discorso a parte meritano basso e batteria, il primo è un vero e proprio strumento a sé, che disegna la tessitura del pezzo, protagonista, sempre originale e ispirato (sentitelo all’inizio di “Forever I’ve Known”) quando le chitarre lasciano spazio, e sempre pronto a dare corpo quando invece le chitarre prendono il sopravvento. La seconda è ricca, piena di particolari, di tocchi, di microvariazioni, non ci sono mai quattro battute uguali ad altre quattro.

Su questo tessuto sonoro così complesso non deve essere stato facile mettere una voce che andasse a completare senza coprire, senza sembrare troppo distaccata, senza sembrare un di più. In questo senso Orlando Weeks ha fatto un lavoro superbo. La sua voce è sempre molto morbida ed eterea, e riesce a riempire gli spazi. Rispetto ai lavori precedenti è più fluida, meno singhiozzata, più curata nell’interpretazione, morbida ed emozionante.

Oltre a questo cambiamento  c’è anche un lavoro fuori dall’ordinario sui cori. La voce non è quasi mai un unico canale, ha sempre sotto un impalcatura costruita in modo da renderla meno “appuntita”, più “larga”, e questo fa sì che non sia sempre al centro, fra gli strumenti, ma diventi più “circolare” e vada ad abbracciare tutti i suoni che le stanno sotto rendendola spesso strumento al pari degli altri, aggiungendo corpo alla stratificazione sonora.

I testi sono un altro punto di forza, molto intimi e personali, sempre in bilico fra disperazione e speranza, con molte frasi brevi reiterate anche più volte. Mi ricordano a tratti i testi di Thom Yorke, meno allucinati però.

Ultimamente mi stufo molto presto dei dischi, perché non hanno segreti, molti sono più o meno standardizzati, le formule bene o male sono quelle, e per chi fa musica e ha avuto esperienze in studio è facile riconosce i trucchi, gli espedienti, le soluzioni e questo rende un disco prevedibile. Questo invece a distanza di tanto tempo e di tantissimi ascolti ancora non riesce a passare in sottofondo, continua a richiedere costante attenzione, continua a colpire.

La prima cosa che si pensa dopo aver sentito a fondo il disco è “sarà impossibile renderlo dal vivo”.

E i Maccabees invece anche qui hanno saputo stupire oltre ogni immaginazione. Non solo riescono a renderlo alla perfezione, ma aggiungono phatos, non si limitano alla sola esecuzione ma cercano di dare qualcosa di più al pezzo, di renderlo vivo, palpabile e di amplificare il gap fra le parti più esplosive e quelle più intimiste.




Li ho visti sia ai Magazzini Generali da headliner che al Palaolimpico di Torino come guest, e li avevo visti anche qualche hanno prima come guest degli Editors.

Nella data ai Magazzini, dopo i primi pezzi la voglia di muoversi è passata, sono rimasto schiacciato da una mole di suoni che mi ha lasciato senza parole, sono rimasto lì fermo immobile a cercare di acquisire ogni singola sfumatura di quello che stavano facendo. E nonostante il posto “suoni di merda”, loro sono riusciti comunque ad avere un suono ai limiti della perfezione.

Anche al Palaolimpico sono stati grandiosi, tanto da vincere la partita contro i Balck Keys per manifesta superiorità (per quei pochi pezzi che ho visto, sono riusciti anche a farmi passare l’incazzatura per essermi perso l’inizio).

Per tutti questi motivi la mia decisione per quest’anno è stata così semplice, netta e senza alcun dubbio.


0 commenti:

Posta un commento