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23 febbraio 2018



La vicenda EMA è ormai ampiamente di dominio pubblico. Come tutti sanno, Milano, per l'assegnazione dell'Agenzia del Farmaco, era favorita fin dal principio, ma al voto finale è arrivata a pari merito con Amsterdam che ha vinto poi al sorteggio, come da regolamento.
Successivamente è sorto più di un dubbio sulla capacità di Amsterdam di soddisfare i requisiti e sono venuti fuori documenti secretati, sedi provvisorie che non erano quelle presentate inizialmente, dubbi sul crono programma dei lavori, sia per la sede provvisoria che di quella definitiva e non ultimo un aumento dei costi d'affitto. Insomma una vicenda non del tutto trasparente, tenuta nascosta molto probabilmente con la complicità di qualcuno che avrebbe dovuto valutarne la candidatura e che ora si è dimesso (il funzionario della Commissione Europea responsabile della procedura).

Dopo un primo periodo di incertezza, perché forse nessuno si sarebbe aspettato che l'Olanda usasse il gioco delle tre carte come un'italiano qualsiasi, il Comune di Milano e il Governo stanno spingendo forte per far sì che il verdetto, viziato da una condotta probabilmente scorretta, venga ribaltato.

Le speranze sono poche, ma quello che sta accadendo va al di là della sola assegnazione dell'Agenzia e si ricollega in parte al discorso che facevo sulle biciclette in condivisione.

Quello che sta accadendo è che l'Italia, guidata da Milano, un paese in cui l'Europa ripone pochissima fiducia nella capacità di mantenere il rigore e rispettare le regole, si trova in una posizione che fino ad oggi non aveva mai occupato. Sta dando lezioni di correttezza e legalità ad Amsterdam, all'Olanda e all'Europa tutta.

Andando a fondo nella questione, il Comune di Milano e il Governo stanno dimostrando che l'Italia non è più (o non solo) quella dei furbi e del malaffare, ma è quella che pretende che gli altri siano corretti come lo è stata lei in questa vicenda. Questo significa che oggi può competere, se non addirittura essere migliore di una paese del Nord Europa, se la scorrettezza di Amsterdam venisse confermata.
Come giustamente ha detto Sala: "Pensate se fossimo stati noi a fare una cosa del genere...".

Comunque andrà, molto probabilmente male, questa vicenda ci avrà fatto guadagnare un'immagine rinnovata e una credibilità che forse non abbiamo mai avuto.

Tutto questo, a mio avviso, è stato possibile principalmente grazie a un Sindaco che oltre ad avere avuto esperienze nell'amministrazione pubblica, è stato vicino al mondo corporate e alle aziende. Una persona che ha vissuto nelle stanze dove si prendono decisioni che muovono capitali, che sa come si spostano e sa come cogliere le occasioni per portarli a Milano, insieme ai tanti posti di lavoro che inevitabilmente prendono vita da questi capitali. Una cosa di cui Milano ha bisogno come l'aria per affermare la sua leadership in Europa.
Il capoluogo lombardo, con le opportunità aperte dalla Brexit, ha la possibilità di diventare una nuova piccola "city" e questo è solo il primo passo di una partita importantissima, che dipende anche da quello che uscirà dalle urne in Regione, il 5 marzo.
Ma su questo ci tornerò in un altro momento (spero di riuscire a farlo prima del 4 marzo).

27 gennaio 2018



Il fascismo, il nazismo, l'olocausto ci sembrano sempre delle cose lontane, che sono capitate in un periodo buio e non possono capitare più. Queste piccole pietre invece, più di ogni altra cosa ti fanno capire che il nazifascismo era molto più vicino a noi di quello che sembra, nella nostra vita di tutti i giorni.

Solo nel mio quartiere, Piola, Città Studi a Milano ce ne sono quattro, una in Via Stradella, una in Via Plinio, una in Via Lombardia e una in Via Spontini.

A due passi da casa mia le persone venivano portate via e non tornavano più a casa, neanche in una bara.

Lì dove spesso andiamo a prendere una pizza (il primo "Spontini" in Via Spontini), che dicono sia la più buona di Milano ma non è vero, almeno non più, hanno portato via una persona, un italiano, una persona che è nata e vissuta qui, solo perché la pensava diversamente, o perché era di origine ebrea, rom, sinti, omosessuale, disabile. Ieri erano gli ebrei, oggi i migranti, domani saranno le persone con gli occhi azzurri, dopo domani sarai tu. La paura ingiustificata e l'ignoranza trovano sempre uno sfogo se non sono combattute.

La pietra nella foto è stata posata qualche giorno fa in Via Lombardia e la notte stessa è stata sfregiata, molto probabilmente dagli stessi vigliacchi che qualche mese fa hanno vandalizzato un'altra pizzeria, Little Italy in Via Tadino, solo perché è una pizzeria gay friendly.

Hanno marchiato la vetrina e i muri, proprio come si faceva poco tempo prima che le persone iniziassero ad essere portate via per non tornare più.

Per questo, così come quella volta ho pubblicato l'articolo sulla pizzeria su Facebook, dicendo a tutti di andarci, perché è quella la vera pizza al trancio più buona di Milano, ora pubblico la foto di questa pietra. Vi invito ad andarle a cercare, sono molto importanti per capire cos'è stato e cosa potrebbe essere ancora se abbassiamo la guardia.

Perché ogni volta che qualcuno cerca di cancellare o dimenticare la storia noi dobbiamo impegnarci affinché le persone intorno a noi mantengano viva quella memoria.







17 ottobre 2017



Nelle scorse settimane a Milano sono arrivati due nuovi operatori di bike sharing con bici libere e, dal momento in cui il servizio ha preso piede, è stato un fiorire di post e articoli sui modi in cui vengono lasciate queste bici. Bici sugli alberi, bici nel naviglio, bici legate a i pali, chiuse nei cortili. Sembra che tutte le bici del bike sharing siano inaccessibili.
Non fosse però, che la stragrande maggioranza delle biciclette circola liberamente e vengono utilizzate da migliaia di persone ogni giorno. Molte di queste grazie a questi servizi hanno iniziato ad muoversi in bici, creando un circolo virtuoso che con il passa parola coinvolgerà inevitabilmente altre persone.
Questa continua condivisione di fatti deprecabili riguardo al bike sharing contribuisce a disegnarne un'immagine negativa e se continuasse con questi toni e volumi di condivisioni, alla lunga potrebbe anche compromettere il modo in cui il servizio è percepito dal pubblico, diminuendone l'utilizzo.

Il mio pensiero è che in fondo vogliamo che fallisca questo servizio.

Ormai ci sguazziamo nella condivisione delle cose peggiori della nostra società. Pagine come Roma fa schifo, o anche le pagine dei principali quotidiani che puntano allo share selvaggio e altre che spesso mostrano la parte più brutta di noi ci fanno stare bene, perché ci permettono di confrontarci con modelli che stanno ai margini della società e non con la parte migliore di questa.
La condivisione dell'inciviltà estrema ormai è diventato un modo di giustificare le piccole o grandi dimostrazioni di inciviltà di ognuno di noi e un modo di trovare una scusa a tutte le scappatoie che ci creiamo per renderci la vita più comoda a discapito degli altri.
Additare il fatto scandaloso ci da implicitamente il permesso di saltare la coda, parcheggiare sul marciapiede, non fare lo scontrino, perché in confronto a una bici nel naviglio è pur sempre un modo un po' più civile di comportarsi, no?

La riuscita di questo servizio basato sulla civiltà delle persone non ci darebbe più alcuna scusa, ci farebbe uscire dalla mentalità del "eh ma tanto siamo in Italia", quella consuetudine per cui diamo per scontato che cose belle capitano sempre fuori dal nostro paese, perché noi non siamo in grado di farle funzionare.
Questa mentalità giustifica anche i nostri fallimenti, perché se qualcosa non ci va bene è colpa della burocrazia, della gente che ruba o non paga le tasse (che poi è la stessa che si lamenta), dei politici. Se non ce la facciamo è perché siamo in Italia.
La riuscita di questo servizio, che mi duole dirvelo è già un dato di fatto, ci toglierebbe un pezzo di quella foglia di fico che giustifica ogni cosa, perché vorrebbe dire che si può fare qualcosa di bello nel nostro paese, che non è sempre tutto negativo e le persone sono anche capaci di avere rispetto e senso civico.
Se fallisse il bike sharing potremmo rimanere tranquilli nel nostro brodo di mediocrità senza sentirci in colpa, potremmo ancora andare in giro a dire che in Italia non si può fare niente e tutte quelle belle frasi fatte per sentirci bene nel nostro non far nulla per migliorare le cose e giustificare ogni nostra debolezza.

Oltre all'aspetto della condotta civile però ce n'è anche un altro che riguarda le nostre abitudini quotidiane sulla mobilità.
Il bike sharing ci da molte meno giustificazioni sull'uso dell'auto in città e inoltre legittima la bici come mezzo ideale per muoversi a Milano. I moltissimi detrattori del mezzo a due ruote e gli haters cronici dei ciclisti si vedono accerchiati da biciclette in ogni angolo e in un modo o nell'altro saranno costretti ad accettare che le nostre strade non sono solo divise fra mezzi a motore e pedoni, ma ci sono altre utenze che chiedono sempre di più spazio e hanno tutto il diritto di averlo.
Anche per chi "odia" la bici o è un irriducibile dell'auto in città, il bike sharing rappresenta una minaccia, del tutto ingiustificata, alla propria libertà di movimento. Un fallimento di questo servizio sarebbe una freccia in più all'arco di quelle persone che non riescono ad abbandonare una concezione ormai obsoleta e dannosa, per la nostra salute e per il nostro spazio, della mobilità cittadina.

17 settembre 2016

Attenzione, questo non è un articolo contro le Paralimpiadi, ma un articolo contro di noi che le paralimpiadi le guardiamo.




In questi giorni di medaglie e imprese strabilianti, si sprecano gli elogi alla forza d'animo, alla capacità di non arrendersi di fronte alla difficoltà. Facebook viene inondato di opinioni, articoli che elogiano e chiamano eroi questi atleti per le imprese di cui sono stati capaci nello sport.
Tutti spendono (spendiamo) frasi toccanti per descrivere questi atleti meravigliosi.
Ma la verità è che questi atleti sono degli eroi per quello che affrontano ogni giorno nella vita reale, sono degli eroi come uomini, come donne, non come atleti, perché in Italia per vivere da diversamente abile bisogna essere eroi anche se non si è atleti.
Troppo facile "esserci" quando si vedono certe imprese in tv, troppo facile sentirsi vicini a queste persone condividendone solo le gioie. Perché non tutti hanno avuto la fortuna di incontrare strutture adeguate, non tutti hanno la possibilità di fare sport, non tutti hanno avuto la forza di rimettersi in gioco ed è a quelle persone che dovrebbe andare il nostro sostegno.
In Italia abbiamo dei grossi problemi ad accettare la sofferenza altrui, tendiamo ad allontanare, ad emarginare chi ci ricorda che la vita può essere difficile, a volte c'è anche della cattiveria inconcepibile verso persone in difficoltà, non solo disabili.

Sono stato recentemente negli USA, un paese che ha sì mille difetti, ma ha una considerazione dei diversamente abili che in Italia possiamo solo sognare. Non diamo la colpa allo stato e alle istituzioni, come facciamo sempre quando vogliamo trovare una giustificazione alla nostra stupidità, sono le persone che fanno lo stato. Così come negli Stati Uniti sono le persone che hanno un occhio di riguardo per chi è meno fortunato. C'è un'attenzione e una voglia di aiutare che stupisce chi non è abituato, ad ogni angolo, in ogni situazione c'è sempre qualcuno pronto ad aprire una porta a una persona in sedia a rotelle, c'è sempre qualcuno disponibile a dare una mano, non importa quanta fretta ha, non importa se è assorto nei suoi problemi, ognuno è pronto a mettersi a disposizione di chi non può muoversi liberamente. La cosa che stupisce ancora di più è che lo fanno con una sensibilità che la maggior parte di noi non ha.
Ora è facile scrivere belle frasi davanti a un'impresa, ma quanti di noi nella fretta di prendere la metropolitana al mattino, nei mille impegni giornalieri, hanno la voglia e la sensibilità anche solo di accorgersi che c'è qualcuno che può avere bisogno di una mano?

Quanti di quelli che hanno condiviso la medaglia di Zanardi, che magari hanno un negozio, un bar, un ristorante, si sono preoccupati di rendere accessibile il loro locale a chi si muove su una sedia a rotelle?
Un'altra cosa che, per esempio, mi ha stupito degli Usa è che non esiste un luogo che non sia accessibile, quasi non esistono barriere architettoniche. Qui sì che c'entrano le leggi e lo stato ma si tratta sempre di quella sensibilità di cui parlavo prima. Anche in Italia ci sono delle leggi, probabilmente fatte male e applicate ancora peggio, ma poi sta a noi rispettarle senza trovare il sistema di aggirarle.
Quanti negozi, bar, ristoranti, locali pubblici in genere sono veramente accessibili, ci avete mai fatto caso? Come quella famosa gelateria in centro a Milano, che ha il bagno per disabili in cima a tre scalini.
Quanti ristoranti per avere quattro coperti in più chiudono lo spazio necessario a far circolare una sedia a rotelle? "Sì, ma poi nel caso fanno spazio". No, perché nel momento in cui non lasci la possibilità a una sedia a rotelle di muoversi in autonomia, hai già escluso, hai già emarginato, hai già fatto passare la voglia di entrare nel tuo locale.
Quante volte avete visto una persona in sedia a rotelle prendere un autobus? Nessuna? Forse una? Quante volte in metropolitana? Vi siete mai chiesti perché? Non è solo lo stato che si deve preoccupare di eliminare le barriere architettoniche, non sono solo i disabili che devono lottare per i loro diritti, è un nostro dovere, di tutti, occuparci di questi aspetti della vita di tutti i giorni. Le paralimpiadi sono una cosa magnifica, le medaglie vinte sono un esempio di vita per tutti, ma la vita vera di queste persone è piena di difficoltà e basterebbe veramente poco per renderla più accessibile, basterebbe veramente poco per dare una mano, anche se abbiamo fretta, anche se dobbiamo timbrare, anche se i nostri problemi vengono sempre prima di quelli degli altri.






22 luglio 2014



Gli Editors per me sono uno dei gruppi della vita, inteso non semplicemente come il gruppo per cui vado in delirio o di cui sono superfan. Il gruppo della vita è quello che hai vissuto in prima persona, che hai scoperto da solo quando è uscito il primo singolo, quando è ormai passata l’età della ribellione, nella quale ascolti quei generi e quei gruppi che danno voce alla tua voglia di essere contro, ma che poi si esauriscono presto, perché capisci che la musica è molto di più e c’è un mondo da scoprire.



Quel gruppo che non ti è stato passato dall’amico più grande che ne sa sempre più di te e che l’aveva scoperto prima di te. Il gruppo della vita è quello che è nato e cresciuto con te, che è maturato con te e ha avuto un percorso artistico evolutivo, con la volontà di rinnovarsi e di crescere artisticamente per poter essere sempre la tua band di riferimento. Senza diventare dopo una decina d’anni il gruppo che ascoltavi quando eri giovane, che vai a vedere in piena crisi di mezza età per il concerto della reunion solo per sentire i pezzi vecchi e sentirti ancora giovane, anche se hanno un nuovo disco in uscita di cui non hai mai sentito nulla e del quale non ti interessa nulla.

Per me uno di quei gruppi sono gli Editors, perché sono nati sotto i miei occhi e li ho colti con tutta la “saggezza” dei miei vent’anni, perché sono usciti in coda a un movimento musicale che è stato il primo che ho potuto vedere nascere in prima persona (e l’ultimo nella storia, di quella portata). Perché per il grunge o il crossover/nu-metal sono sempre arrivato dopo, ero troppo giovane o troppo immaturo musicalmente, per coglierne i primi semi.

Perché sono uno dei pochissimi gruppi di quel movimento (nato con gli Strokes), che è sopravvissuto all’implosione del movimento stesso e che ha continuato a fare dischi cercando di trovare una valida via personale fuori da quel calderone, a differenza di molti altri che hanno cercato solo di sopravvivere.



Gli Editors stanno agli anni duemila come i Pearl Jam stanno agli anni novanta...

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25 febbraio 2014

In occasione dello showcase in Santeria a Milano, per annunciare il ritorno degli Estra e le quattro date che faranno ad aprile (11/4 Treviso, 16/4 Milano, 17/4 Firenze, 23/4 Roma) ho raggiunto Giulio e Abe per un intervista che si è trasformata in una lunga chiaccherata molto interessante, ricca di spunti e di rivelazioni. Si è parlato del futuro della band, ma anche del loro passato, e si è discusso di tante cose come ad esempio la differenza fra la situazione musicale di oggi e del periodo in cui gli Estra erano in piena attività. 

(Avendo poco tempo a disposizione l'intervista è stata impostata come una mini conferenza stampa e insieme a me c'era Raffaele Concollato di Indie-roccia. In rosso le mie domande e commenti, le risposte di Giulio con carattere normale e in corsivo quelle di Abe, in blu alcune domande di Raffaele)



Partiamo dalla domanda più semplice, qual è stato il motivo che vi ha spinto a ritrovarvi e a tornare a suonare insieme?

Non per i soldi e neanche per nostalgia. La premessa è che noi siamo talmente scellerati che non ci siamo mai sciolti, tant’è che non si può parlare nemmeno di reunion. Siamo semplicemente sbadati, dieci anni fa ci siamo dimenticati di salutare.

Avevate altro da fare...

Eravamo in frigorifero.... (ridiamo, ndr)

L’anno scorso ci siamo ritrovati per la prima volta tutti e quattro insieme attorno a un tavolo e abbiamo detto “Forse è il caso di farlo questo saluto dieci anni dopo”. E così è, perché in effetti  l’ultimo concerto degli Estra si è tenuto nell’autunno del 2004, per l’ultima tournée che era legata all’uscita del doppio live.
E quindi eccoci qua.
In realtà penso che senza scomodare parole brutte come entusiasmo, energia ecc, abbiamo voglia. Io personalmente sono ormai dieci anni che non prendo in mano una chitarra elettrica, non faccio parte di una band.

Per me è come ricominciare da capo, io in questi dieci anni sono stato un eremita musicalmente parlando.

Quindi dopo gli Estra non hai più fatto nient’altro?

No, praticamente no, e questo mi fa molto bene e credo faccia bene anche al gruppo. Perché abbiamo ritrovato la “giovinezza”, c’è tanta voglia, anche di riprendere in mano tutto e di reinventarsi.

Si tratterà solo di questi quattro concerti o c’è in programma anche altro?

L’idea è di fare anche un tour estivo, quindi non saranno quattro le date, sono quattro nei club, faremo anche qualche festival, e poi si pone la tua domanda. Nel senso che è tutta un’incognita, sia come staremo noi, sia quanto ci divertiremo e anche quanta energia riceveremo. Per cui diciamo che non ci poniamo limiti, la cosa è sincera, nasce solo per questo motivo.

Quindi non ci sono programmi…

Non ci sono programmi e addirittura i pochi inediti che proporremo non li pubblichiamo neanche su un supporto fisico. Per cui non è sicuramente un’operazione di business, è veramente pura voglia e desiderio di tornare in pista.
Poi i segnali sono molto confortanti perché a me capita di girare l’Italia e quasi in ogni piazza in cui vado sento questa voglia, quest’affetto. Che tra l’altro è davvero sorprendente, perché non abbiamo veramente mai più fatto parlare di noi, è molto bello.

I vostri pezzi saranno in parte riarrangiati oppure preferirete riportarli alla luce così com’erano?

Una delle prime cose che ci siamo detti è stata “Non diventiamo la cover band degli Estra”, per cui non ci siamo posti il problema di ritrovare esattamente quella chimica o quel suono. Quindi credo ci sarà qualche piccola o grande sorpresa, ci siamo presi il lusso di reinterpretarci. Dieci anni dopo, abbiamo tutti più di quarantanni, ognuno di noi ha fatto il suo percorso…

Avete anche una visione diversa…

Esatto, che sia solo vitale o artistico o esistenziale è ovvio che sei un’altra persona. Tra l’altro per noi è sempre stato programmatico questo, il primo disco si chiama Metamorfosi, il secondo Alterazioni, l’unica fede che ci siamo concessi è quella di rimanere fedeli a noi stessi, cioè fedeli nel cambiamento e penso che questo ci accompagnerà tantissimo oggi più che mai dato che siamo altri, siamo “alterati”…

(sulla parola "alterati" arrivano le birre che avevamo chiesto...)

Anzi, stavo dicendo che in questi concerti ci sarà un quinto elemento, un polistrumentista che ci aiuterà, secondo me non a fare chissà quali voli, ma proprio a dare il suono che abbiamo noi in testa e nel cuore oggi. Ma anche una chitarra in più.

Quindi saranno abbastanza rivisitate le canzoni…

Alcuni sì, altri come per esempio Miele secondo me è così, è nata così e così morirà.



Com’è stato riprenderle in mano dopo dieci anni, che sensazioni avete avuto? A me è capitato di ritrovarmi con un vecchio gruppo e risuonare i pezzi e mi è sembrato un po’ strano, per voi com’è stato?

Come dicevo prima è come ricominciare da zero. Sì è vero c’è la canzone c’è la struttura, ma ci siamo trovati veramente a reinventare tutto.

Sì lo spirito è proprio non fare la cover band, non per forza ritrovare quella versione, ma risuonarla come la suoneremmo oggi

Quindi comunque è una cosa molto stimolante, non è solo nostalgia, ma una cosa nuova.

Voglia di renderle anche più attuali forse?


Più attuali per come siamo noi, non perché stiamo inseguendo una contemporaneità a tutti i costi.
Abbiamo anche un piccolo vantaggio perché avendo sempre avuto più o meno un sound molto scarno, mi sembra che le canzoni non siano invecchiate in maggior parte. Ci sono alcuni pezzi che io non scriverei più, ma questo fa parte di me, ma a livello di proposta e quindi di suono quello che ci ha stupito in questo ritrovarci, è il fatto che tutto sommato il nostro suono è ancora attuale. Questo può aprire molti dibattiti, cioè è il rock che non va da nessuna parte o noi eravamo in anticipo o…

Nel periodo in cui eravate in attività c’era tanto fermento intorno al rock,  cosa che poi è svanita negli anni successivi, in questo momento c’è un movimento molto ampio per quello che riguarda le band indie, voi avete sentito qualcosa, avete avvertito questa cosa oppure no?

Io assolutamente sì, continuo a essere curioso e ho anche la fortuna che essendo spesso in giro per l’Italia, alla fine degli spettacoli spesso c’è qualcuno che mi regala dei dischi e trovo anche il tempo di ascoltarli. Ci sono un sacco di cose interessanti, proprio tante. Altro discorso è se queste cose riescono ad avere un perso, se riescono a trovare spazio. 
Noi abbiamo avuto qualche (non tante) fortuna sotto quel punto di vista, perché siamo arrivati in un momento in cui anche nell’industria, forse grazie ai Nirvana prima e in Italia ai nomi che sapete, come ad esempio i CSI ma anche altri molto più di massa, c’era questa idea che anche il rock potesse arrivare al grande pubblico. 
Per cui evidentemente abbiamo beneficiato di un momento di quel tipo. Poi dopo è arrivato quello che sappiamo in termini di crisi dell’industria e quindi, a maggior ragione, chi ha un certo tipo di suono, un certo tipo di proposta fa ancora più fatica degli altri.
Tant’è vero che in realtà oggi a livello di grande proposta il suono come il nostro non c’è più. 
Potrei fare dei nomi di cose bellissime che ci sono in giro in questo momento in Italia, ma altro discorso è quanto riescono ad arrivare alle orecchie di chi magari sarebbe interessato, ma se non ha la curiosità di andarselo a cercare personalmente, non lo incontrerà mai, no? 
Mentre c’erano delle band insieme a noi che riuscivano comunque ad avere una chance di farsi vedere o di farsi sentire, questa è un po’ la differenza.
Poi il prezzo che si paga a lavorare con l’industria lo conosciamo anche quello, e sarebbe un altro lungo discorso. Però c’è tutto dentro questo discorso, cioè la bellezza di fare la musica che vuoi fare e la possibilità di farla sentire. Ma per farla sentire devi anche combattere tutti i giorni con chi vorrebbe che tu facessi cose più fruibili.
E gli Estra conoscono anche questo, forse anche più di altre band come noi, perché noi eravamo con una major tra l’altro. Altre band erano indipendenti anche nel senso tecnico. Noi facemmo una scelta diversa per la quale abbiamo dovuto conquistarci più di altri la credibilità, proprio perché non venivamo da una super casa di lusso indipendente.

Volevo riallacciarmi a questa cosa che hai detto, io mi ricordo che quando è uscito Tunnel Supermarket, sembrava un po’ il disco per allargare gli orizzonti, per arrivare a più persone. Poi forse non ha dato il risultato che sperava sia la major che probabilmente anche voi, e a causa di questo dopo si è rotto un po' qualcosa. E’ stato questo che poi vi ha spinto a lasciare in frigorifero il progetto oppure altro?

C’è da dire una cosa, Abe ricorda spesso un nostro incontro con Steve Wynn, quando noi gli dicemmo che noi eravamo già insieme da dieci anni e ci trovavamo tutti i giorni, o comunque un giorno sì e un giorno no, ed è così che fai una band, che fai un suono.... 
C’è da dire che in quel momento, confesso questa cosa, mentre lavoravamo alla scrittura di Tunnel Supermarket, per la prima volta in dieci anni, gli Estra non erano più insieme rispetto all’obiettivo finale, era la prima volta in cui forse ciascuno di noi avrebbe fatto un disco diverso. 
Mentre fino a Nordest Cowboy eravamo tutti convinti che l’unica cosa che dovevamo fare in quel momento era quella lì. Quindi Tunnel secondo me è già il risultato di un qualcosa che c’era dentro la band. 
Se ci aggiungi a questo le pressioni che avevamo all’esterno, sarebbe un discorso veramente lungo, ma purtroppo io mi ricordo tutto… Intanto era successo che i CSI erano andati al n.1 in classifica, i Subsonica avevano vinto Sanremo praticamente, allora improvvisamente c’era questo fottimento per cui chiunque venisse dall’indie avrebbe un giorno potuto diventare Tutti i miei Sbagli dei  Subsonica o Forma e Sostanza dei CSI e questo è stato un fottimento per tutti, tant’è vero che da quel momento in poi è impazzito tutto e non si è più capito nulla. 
Noi siamo parte di quella confusione in quel momento. Rivendico però il fatto che Tunnel Supermarket era un disco idealmente molto pensato. Cioè il titolo era proprio quello, lontanamente era Ok Computer, cioè “Ok siamo nel supermarket”, ma non solo noi quattro, tutti. L’idea era quindi quella di riuscire a dare un suono che partendo sempre da chitarra basso e batteria potesse darti il senso di questo fottimento, ma il disco non fu compreso affatto, causa anche una cover che qualcuno si ricorda. 
Ma l’operazione non fu compresa, perché noi eravamo Alterazioni, il nostro zoccolo duro non capì che era un’altra faccia della stessa medaglia, era semplicemente un arricchire lo stesso tipo di proposta.


(questa è la cover a cui fa riferimento Giulio)


Sì però non hai finito il discorso di Steve Wynn (ride ndr), che disse che le band hanno una vita fisiologica, di credo sette anni...

Meno, meno…

E quindi dieci anni erano già troppi per lui.

Lui diceva che era impossibile, come fate, dopo tre/quattro dischi, dopo sei anni, se una band è composta di quattro elementi è fisiologico che esploda in un’altra direzione...

Io tra l’altro mi ricordo che nel periodo in cui abbiamo smesso, si era guastato molto tutto l’ambiente del sottobosco musicale italiano. Erano i primi anni in cui internet veniva usato molto dalle band per commentare quello che facevano le altre band. Invece di sostenersi tutti cominciavano a darsi mazzate sulle ginocchia. Questo un po’ ci aveva anche infastidito e insieme a tutte le altre cose ci ha fatto dire “lasciamo un po’perdere”.

Mi ricordo i Marlene che venivano appunto falcidiati…

Si, hanno combattuto parecchio contro quel problema…

Io e Cristiano adottamo due linee opposte, cioè Cristiano si mise a rispondere ad ognuno io invece lasciai perdere, cosa che peraltro faccio tutt’ora.

Penso che ad un certo punto della carriera di una band lo zoccolo duro dei fans diventi non dico un problema, ma una cosa che ti crea problemi quando tu cerchi di andare verso un’altra direzione…

Non è disposta ad accettare il cambiamento…

E invece c’è gente che ti vuole sempre uguale, che poi forse è il problema che è venuto fuori quando è uscito Tunnel  Supermarket


Sì sì, è proprio così. Io speravo che avendo dichiarato da subito la metamorfosi (fa riferimento al loro primo disco, ndr), questo fosse un patto no? Siamo sempre noi e tutte le volte faremo un disco diverso e così abbiamo fatto, perché non abbiamo mai fatto un disco uguale all’altro.

Il fan vuole sempre essere ventenne e sentire sempre le stesse cose.

Ma infatti quando prima dicevo, noi non abbiamo nostalgia… sicuramente il fan è uno che ha sempre nostalgia, della prima volta, del primo disco, della prima volta che ti ha visto, della prima volta che si è innamorato di una tua canzone. 
Però se un artista è un artista ha il diritto/dovere di rinnovarsi. Poi anche lì ci sono artisti che per tutta la vita fanno lo stesso quadro, arstisti che invece tutti gli anni fanno una nuova mostra, noi siamo sempre stati del secondo tipo. 
E tra l’altro il mio percorso personale credo lo dimostri ancora di più, da lì in poi ho fatto talmente tante cose che è come andarsi a cercare continuamente in un altro posto. Finché ti ritrovi però, attenzione, non fare la qualunque, fare cose che ritieni necessarie anche se apparentemente magari sei “sconsigliato”. 
Che poi c’è anche un fatto di business che è terrificante, questo “dover funzionare” è la morte di tutto. Eppure ci fai i conti perché essendo un mestiere ci devi fare i conti. Non siamo elettrodomestici diceva un nostro amico ed è così, invece DEVI funzionare, perché quando qualcuno schiaccia il bottone e non funzioni più, basta, sei a casa.




Invece a proposito di nostalgia, mi ricordo che Metamorfosi me l’ha passato un mio compagno di classe in cassetta. (sulla parola cassetta tutti e due spalancano gli occhi, ndr)

(Giulio e Abe) Ah sì c’erano ancora le cassette…

Sì, che detto adesso sembra assurdo.

Così ci fai sentire vecchi però...

Ma anche io…

Ma cassetta originale intendi (sorride, ndr)

Sì assolutamente originale… che poi ho duplicato però.

Aaaah (ridiamo, ndr)

Volevo chiedervi, se gli Estra nascessero adesso sarebbe più semplice per voi raggiungere il pubblico o secondo voi era più diretto e semplice prima.

Qui entriamo nel dibattito sulla rete...

Sì forse adesso i mezzi sono più “democratici”

Più che sulla rete, io intendo sia come facilità che come qualità.

Il periodo sicuramente è molto diverso da quello in cui siamo nati…

E’ cambiato tutto, è imparagonabile…

Forse all’epoca c’era molta più attenzione e disponibilità…

All’epoca quel minimo di distanza che c’era ancora, questa cosa che l’artista era non rintracciabile comunque creava un interesse superiore. 
Il nostro primo disco si è imposto con cinque recensioni sulle riviste specializzate. 
Eravamo nel ’95, ’96, è stata l’ultima volta in cui le riviste specializzate hanno avuto un peso, attenzione è cambiato tutto anche da quel punto di vista. Quella volta lì mi ricordo benissima la recensione di Giancarlo Susanna su Il Mucchio Selvaggio che parlava di un piccolo capolavoro, quello è chiaro che l’interesse lo crea. Non so se poi crei anche l’acquisto, ma l’interesse, la curiosità li crea sicuramente. 
Oggi non è così perché tutti dicono tutto, tutti sanno tutto, nel giro di un secondo i primi trenta secondi di una canzone vengono ascoltati da tutti poi passiamo a un altro. Poi esistono delle cose virali Bellissime e spontanee ma qui appunto entriamo nel dibattito sulla rete, per cui io non credo che oggi sarebbe così.
Noi in realtà ci siamo conquistati quello che ci siamo conquistati con i live perché molto prima di firmare un contratto vero, abbiamo vinto ogni concorso in cui abbiamo suonato. Da lì qualcuno ci richiamava a suonare nel locale vicino, ma tutto senza contratto, con due autoproduzioni in cassetta, e abbiamo venduto un sacco di cassette tra l’altro (ridono, ndr). 
Quindi parliamo di un’epoca completamente diversa. Però, credo che Abe me lo confermerà, che noi la credibilità ce la siamo conquistata più sul campo che sulla comunicazione.

Quindi secondo voi da quel punto di vista sarebbe la stessa cosa anche oggi forse?

Forse sì, il problema è che mi dicono che i locali fanno più che altro cover band, che non pagano… 
Devi mettere insieme tanti elementi, probabilmente rispetto all’impatto che potremmo avere oggi su chi viene nel locale probabilmente sarebbe la stessa cosa. 
Ma mi dicono che anche i locali sono in crisi…
In quel periodo c’era la curiosità, anche noi eravamo i primi che nei week end andavamo in giro per locali a sentire. Veniva una band che so a Brescia? Wow, andiamo a vedere questi cosa fanno. 
Oggi non lo so, perché appunto è facile a casa avere le informazioni e quindi magari uno dice “va be…”. 

C’è anche questo, non credo che siamo qui per parlare di questo, ma due anni fa io ho fatto un disco che sull’on line è stato un trionfo, nelle prime tre settimane non ho mai avuto così tanti riscontri, poi però abbiamo fatto quattro concerti di presentazione e la gente non c’era, lo dico senza nessun problema. Che poi sì c’era, ma non certo quella che mi aspettavo rispetto al "popo" di recensioni, di osanna che c’erano stati. E la gente poi ti scrive “eh non potevo, avevo altro da fare, tanto il disco l’ho già sentito”, l’ho sentito per altro, non l’ho comprato.

Stessa cosa per il teatro, hai dovuto iniziare da zero, cioè hai iniziato con poco pubblico e poi la cosa è cresciuta o hai già trovato un ambiente diverso, curioso?

Il teatro è diverso quando non porti la tua cosa a teatro, ma è il teatro che ti inserisce in una stagione, è molto diverso, sono proprio due mondi completamente diversi. Certo, hai tutto il peso dell”absolute beginner”, ma sei in una stagione, per cui come dire, è un’offerta culturale che il teatro fa al proprio pubblico. Poi devi riempirlo il teatro eh, ma è diverso, perché comunque c’è qualcuno che frequenta quel teatro, che si fida della proposta del teatro.
Come quando i locali sapevano che dicevano “facciamo, che so, i La Crus “, tu dicevi “Chi sono i La Crus?”, però vado perché se me lo dice il mio locale di riferimento vado a sentire cos’è. E’ un po’ quella filosofia lì. Sempre meno eh, ma ci sono ancora operatori teatrali che fanno quel tipo di proposte.

Anche perché poi i teatri vivono molto sugli abbonati, quindi se gli abbonati si accorgono che la proposta non è più valida…

Esattamente, per cui diciamo che la cosa davvero diversa è quella, c’è ancora la possibilità di proporre, mentre mi sembra che nella musica, nei grossi locali si viva della stessa legge, che è una cosa che non sopporto, cioè che anche il rock che nasce proprio come contraddizione, nasce proprio con controcultura, come controproposta, viva poi delle stesse leggi che governano il nostro fottuto mondo e cioè se una cosa funziona te la propongo, ma se non abbiamo la garanzia che vengano ottocento paganti, sai non ce lo possiamo permettere.
E così è la fine di tutto, perché è così che si finisce a fare la coverband dei Depeche Mode, perché almeno lì la gente balla, gode.

C’è una scelta che avete fatto nel passato che a pensarci adesso magari non vi avrebbe portato a questo periodo di pausa e che invece avrebbe potuto farvi diventare gli Afterhours.

Mah io non ho rimpianti, non so… (indica Abe, ndr)

Direi di no, la refrigerazione è stata fisiologica, non è stata per scelte sbagliate, ci mancherebbe. Poi per carità c’era sempre da mettere d’accordo quattro teste, cinque anzi, per cui è ovvio che qualcuno era scontento magari di piccole cose ma in generale…

No anzi, se penso a quello che abbiamo sfiorato prima, il discorso del rapporto con la grossa industria, devo dire che siamo stati molto coraggiosi. Abbiamo sempre fatto esattamente il disco che volevamo fare, nonostante tutti i pareri sconcertati di chi ci li produceva.

Forse qualche volta abbiamo avuto un po’ paura di osare.

Certo quando hai addosso due direttori generali che ti dicono “Oh stavolta bisogna vendere cinquanta mila copie eh”...

Sì non sei serenissimo poi…

Quando sei in studio a registrare e ti dicono “mi raccomando la voce che si senta bene”, e a te piacerebbe sentire che so di più la batteria e ti dicono “no no..”, sono esempi così per dire, piccole cose, però forse a volte saremmo potuti essere più coraggiosi.

Però è vero che gli Estra sono stati anche tra i pochi che hanno sempre fatto delle canzoni, quasi tutti i nostri dischi erano piuttosto formali, la sperimentazione era dentro la forma canzone. 
Per cui, come dicevo prima, in realtà ci sono delle cose che oggi non farei, però in quel momento io ho sempre fatto il disco che volevo fare. 
Come diceva un mio amico, Nordest Cowboys è il più bel disco degli Estra nonostante che Alterazione sia il più bel disco degli Estra, perché in Nordest c’era proprio l’equilibrio tra la produzione, tra quello che una band con le proprie forze può fare in più oltre ai tre strumenti di base e il live, cioè la band che sta suonando in uno studio.

In Nordest c’era anche una ricerca di qualcosa di diverso rispetto ai dischi precedenti, forse era quello che andava di più verso il “cantautorato”, anche se questa definizione va presa con le pinze, comunque verso quella direzioni lì…

Perché inizia con Signor Jones… (ridiamo, ndr)

No, no, però mi sembra quello più strutturato…

C’era anche stato un salto qualitativo notevole dalla scelta del produttore, Jim Wilson, e allo studio che erano più professionali e importanti rispetto a quelli precedenti, per cui c’è anche un impatto sonoro diverso.

Ma invece i pezzi nuovi…?

Non ve li facciamo sentire qui eh (ridiamo ndr)

Più o meno che direzione hanno preso? Sono recenti?

Sì sì, di questi ultimi mesi in cui ci siamo trovati a suonare, nascono proprio in sala prove da improvvisazione da riff…

Tra l’altro a dimostrazione che avevamo molta voglia di reinventarci e ritrovarci, siamo partiti direttamente con dei pezzi nuovi, poi ad un certo punto ci siamo detti, però se fra un paio di mesi dobbiamo fare i concerti forse è meglio che ripassiamo (ride, ndr), quindi sono totalmente contemporanei a noi.

Il fatto che abbiate iniziato subito con dei pezzi nuovi significa che la “creatura” è viva…

Sì, forse la cosa vera era quella di non essere la cover band  di noi stessi, mi sembra la cosa più importante, perché il rischio era talmente evidente… Dieci anni dopo riprendi in mano i pezzi e “come faceva?” “no, no non era  proprio così…” e dopo ti incarti, non so come dire.

Il tempo a nostra disposizione è finito, ci salutiamo e Giulio e Abe scendono a fare il soundcheck per lo showcase, che vi racconterò...




6 dicembre 2013



Nonostante li conosca come un nome leggendario dalla metà degli anni novanta e li segua da più di un decennio, non ero mai riuscito a vederli dal vivo.

Ai tempi del loro esordio (Stanze, del 1993) ero troppo piccolo per apprezzare dei contenuti così profondi e giganteschi. Quando esplosero con "Lungo i Bordi" ero troppo preso dal ritorno del punk e dagli ultimi respiri del grunge.
Solo più tardi, verso i 20 anni, sono stato in grado di capire veramente la potenza di questo progetto, ma era troppo tardi. Con il ritorno nel 2010, non contento, mi sono perso i loro passaggi a Milano e dintorni, ieri sera con il tour di Aspettando i Barbari ho avuto finalmente l'occasione di rimediare a questa imperdonabile mancanza.

Non starò qui a fare una mera cronaca della serata, ma cercherò di descrivervi cos'è un concerto dei Massimo Volume.
Voglio fare questo, perché è un'esperienza totalmente diversa da qualsiasi altro concerto abbiate mai visto. Niente di mistico, sia chiaro, non ho avuto illuminazioni e non sono apparse madonne dietro la band, ma è comunque qualcosa di molto particolare.

La copertina di Aspettando i Barbari
Partiamo dal lato strumentale, più precisamente dal lato chitarristico. Parlo soprattutto ai "colleghi" chitarristi. Provate pensare alla cosa più originale che abbiate mai fatto, al giro più storto che abbiate mai creato, al suono più strano e figo che abbiate mai tirato fuori dalla vostra pedaliera e siate mai riusciti a infilare in un pezzo fra le proteste del vostro cantante o del vostro bassista. Fatto? Ecco non sarà mai così originale, così strano, così maledettamente funzionale al pezzo come un suono o un riff o un arpeggio tirato fuori dalle chitarre (o basso) di Egle Sommacal e Stefano Pilia.

La loro concezione della chitarra va al di là di del semplice suonare, è una ricerca, un utilizzo totale, nel quale ogni feedback, ogni dissonanza, ogni suono "brutto" è esattamente nel punto in cui deve essere a sottolineare l'intensità e l'atmosfera di quel preciso momento.

Spesso sulla stessa parte si dividono nettamente i compiti: Pilia cesella riff e parti taglienti, che danno la spina dorsale del pezzo e ne scandiscono l'andamento, Sommacal si infila diagonalmente su tutto. Va a creare un vero e proprio tessuto atmosferico, con accordi dissonanti, arpeggi aperti che creano tensione e vanno a formare quella scenografia astratta ma incredibilmente palpabile nella quale le storie di Clementi prendono vita.
Quando invece è Sommacal a tenere le redini del riff o dell'arpeggio portante, Pilia diventa ancora più etereo del compagno e condisce il tutto con feedback, reverberi e suoni che non si capisce da dove vengano tirati fuori.

Sotto di loro la batteria di Vittoria è un rullo compressore con una precisione da manuale. Sempre misurata ma allo stesso tempo potente e con dei suoni perfetti, condizione fondamentale per permettere che la voce recitata possa "venire fuori" dal tessuto sonoro, senza essere inghiottita. 
A volte si ha quasi l'impressione che ci sia una drum machine sotto e invece è sempre il suo tocco preciso e costante. Per altri gruppi questo potrebbe essere un difetto, per i Massimo Volume è esattamente quello che serve.
In mezzo a loro tre, il basso di Emidio, morbido come un cuscino, discreto e preciso si muove fra le righe con eleganza.

Arriviamo al motivo per cui i Massimo Volume sono i Massimo Volume: la voce.

Molte volte la voce recitata su disco perde molto poi dal vivo. Perché il tono, l'inflessione, la cadenza, la metrica, acquistano tutta la visibilità che normalmente non hanno quando è tutto basato sulla linea vocale. In studio la cosa è semplice, si fanno un tot di tentativi con toni e inflessioni diverse, quello con la resa migliore si tiene. Ma poi dal vivo se la cosa non è studiata non renderà mai come dovrebbe.
Clementi invece sa bene l'importanza del recitato in musica... l'ha inventato lui.




Non perde un grammo dell'impatto e dell'intensità del disco, e sebbene dal punto di vista dell'ascolto puro delle parole forse qualcosina si perde, ne guadagna in incisività e impatto.

Un concerto dei Massimo Volume è una delle esperienze più multimediali che si possano fare, senza l'ausilio della tecnologia.
Mentre si assiste al concerto si ascolta la musica, intanto le parole cadono come macigni nella sala. 
Si ha la l'impressione di leggere un libro, le storie che vengono raccontate si immaginano, e mentre sei lì a sentire il concerto, le immagini create da quelle parole ti scorrono davanti, quasi come se fossi al cinema o a teatro.
La musica si trasforma in scenografia e le parole in sceneggiatura. I pochi gesti del cantate, il solo allargare le braccia sulle parole più significative, la mancanza assoluta di parole fra un pezzo e l'altro e di qualsiasi tipo di cenno al pubblico, non fanno altro che amplificare questo senso di performance artistica, dove i quattro elementi sul palco non sono altro che un veicolo per la loro arte. 
Le parole delle canzoni sono talmente pesanti, importanti, vive, che non c'è bisogno di dire altro, farlo sarebbe come ringraziare e salutare in mezzo a una rappresentazione teatrale. Difatti si sentiranno altre parole di ringraziamento solo all'ultimo pezzo prima dell'encore e prima della fine.

In un contesto del genere la scaletta perde totalmente di importanza, perché qualsiasi loro pezzo entrerebbe a far parte di uno spettacolo la cui potenza sta nella sua totalità e non nei singoli episodi che lo compongono.










5 dicembre 2013

A volte succede che una non notizia, diventi magicamente una notizia importante.
Succede che un fatto assolutamente ininfluente venga condito con supposizioni e ipotesi che stimolano i pensieri più nascosti. I pensieri più discriminatori e violenti, tutto quel sottobosco di intolleranza che cresce rigoglioso nel nostro paese diviso in due frange, la prima a livello nazionale che aspetta solo un pretesto per poter avere l'autorizzazione a dire "Io non sono razzista eh, però...". La seconda a livello locale si dedica al tiro al Pisapia, addossando tutte le colpe del mondo al Sindaco di Milano, come se nei venti anni di governo di destra la città sia stata un modello mondiale per livello di sicurezza e qualità della vita.
La notizia:


Questo in foto è il titolone che c'era oggi oggi in bella mostra sulla home del Corriere e poi riportato come notizia di apertura del Corriere Milano, preceduto da un altro articolo riportato sul sito e sulla prima pagina del Corriere in versione cartacea:



Analizziamo i singoli elementi, il titolo:

"Muore nel metrò dopo un borseggio"

Sulla versione cartacea del Corriere, la morte dell'uomo sembra causata direttamente dal borseggio, mettendo strettamente in relazione le due cose.

"Milano, tentato borseggio nel metrò 65enne si accascia e muore" 

Nel titolo del sito invece, la morte del signore viene immediatamente messa in relazione con lo scippo, ma se si analizza la frase, dice: il "65enne si accascia", non dice "viene colpito" o strattonato, picchiato. Le due cose non sono assolutamente in relazione, se non che lo spavento per il tentato borseggio possa aver scatenato il malore che ha causato la morte del signore. Ma lo spavento poteva essere causato da qualsiasi altra cosa in un'altra situazione. Evidentemente la morte è stata causata da un problema di salute, non dallo scippo in sé.

Analizziamo il fatto:

"borseggio" "tentato borseggio"

In realtà se si legge l'articolo on-line, lo scippo non c'è stato, e probabilmente non c'è stato neanche il tentativo. Non si sa se la vittima di questo presunto tentativo di scippo, (e sottolineo le parole "presunto tentativo di scippo" che non mettono in dubbio solo il fatto, ma anche che la possibilità che ci sia stata l'intenzione) sia stata il signore o qualcun altro. Anzi non si sa neanche se c'era qualcun'altro nel famigerato "mezzanino" perché dopo poche righe scrivono che era "l'unico testimone".
In sostanza non si sa nulla di certo, se non che un uomo è morto in metropolitana presumibilmente per un infarto o comunque un malore.
Inoltre per assurdo l'articolo finisce con:
"Il 65enne probabilmente era convinto che i tre «adocchiassero» i passeggeri ma nulla, al momento, può confermarlo."

Nell'articolo pubblicato precedentemente sull'edizione cartacea del Corriere e riportato anche online in realtà ci sono molti più dettagli, si parla di una gang di borseggiatori "forse dell'est" e si dice che forse è stato preso il cellulare all'uomo. Cosa poi non confermata. Ma in ogni caso si tratta solo di supposizioni poi quasi smentite dall'articolo pubblicato online. In realtà non interessa cosa sia successo veramente, ma interessa il pretesto.
Si sa che chi poi legge veramente tutti gli articoli è una minima parte di quelli che leggono il titolo.
Quindi non c'è niente di certo, si sta parlando del nulla.
E allora come mai una notizia che sostanzialmente non ha nessun elemento per esserlo diventa motivo di discussione in tv, sui giornali, alle macchinette del caffè, nei bar?

Ci sono alcuni elementi, che messi in relazione fra loro scatenano quel sottobosco di cui parlavo prima, e chi mette insieme questi "scoop" li conosce bene.

Elenchiamoli:

I mezzi pubblici: quei posti sporchi, pieni di extracomunitari, di zingari, di accattoni e di persone poco raccomandabili, mezzi poco efficienti, poco sicuri, sempre in ritardo e sinonimo di disagio, disservizi, ritardi, usati solo dai poveracci che non possono permettersi un SUV.

Lo scippo: da sempre il simbolo della mancanza sicurezza, del degrado, della "disgrazia" che può capitare in un qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, sinonimo di pericolo, della paura che scorre nelle città, dove ogni angolo pullula di malfattori che bramano il nostro portafoglio, o per essere più moderni, il nostro iPhone.

Lo straniero: l'articolo, come sempre, si affretta a farci sapere la nazionalità dei delinquenti. Già alla quinta riga viene ribadito per ben due volte che i delinquenti sono rumeni (con un errore ortografico e di battitura per di più):  
"A carico dei tre romeni, incensurati, Sono tutti rumeni, incensurati e senza fissa dimora tra i 16, 17 e 26 anni"
Tre rumeni, sono tutti rumeni, come a dire che non se ne salva neanche uno, senza fissa dimora, quindi zingari. Come se non bastasse sono pure giovani, perché non è più come una volta, i giovani di oggi son tutti delinquenti.

L'impunità: "rilasciati i tre presunti borseggiatori", sì perché "loro" sono sempre impuniti, "li mettono dentro e dopo un giorno sono già fuori", "altro che polizia, li lasciassero a me un giorno, vedi come li riduco", "vengono qui e fanno quello che vogliono", "noi appena sgarriamo di una virgola ci mandano equitalia, loro stuprano le donne, entrano a rubare nelle nostre case e nessuno fa niente". Si potrebbe scriverci un libro con queste frasi da bestie che si sentono in giro.

La Gang: la parola "gang", meglio se "baby", va tanto di moda nella cronaca nera ultimamente. Fa tanto favelas sudamericana, bronx, banlieue, subito si pensa a un'orda di giovani  armati di spranghe, tirapugni, coltelli, pistole, pronti a tutto per portarti via i tuoi averi, o in attesa del più piccolo pretesto per pestarti a sangue senza motivo.

Il brav'uomo: al 65enne ci si affretta a trovargli un nome, "La tragedia di Francesco..." si legge nel titolo di uno degli articoli correlati. Lo si chiama amichevolmente Francesco, per far entrare subito in empatia i lettori. Era un impiegato in attesa della pensione che era andato a prendere il pane, il panettiere diceva che era più felice ultimamente, perché sentiva l'avvicinarsi della pensione. Il perfetto ritratto di semplicità del nonno del Mulino Bianco distrutto da tre sporchi zingari, prima di potersi godere la tanto sospirata pensione.

Questi 6 elementi messi insieme scatenano una polveriera che esplode a comando, come dimostrano i 503 commenti all'articolo nel momento in cui sto scrivendo.

Piccola parentesi, vorrei consigliare al Corriere di eliminare la possibilità di commentare gli articoli.
Sotto a moltissimi degli articoli presenti sul sito, si leggono delle frasi che la maggior parte delle volte fanno vergognare di leggere il giornale, o il sito, frequentato da persone che per il livello di intelligenza, mi stupisce siano in grado di leggere e scrivere.

Oltretutto c'è un dispendio di energie per questo fatto che è a dir poco smisurato. Sono presenti ben 4 articoli/editoriali correlati alla vicenda, con foto e video del luogo dell'accaduto, come se non si sapesse com'è fatto un "mezzanino" della metropolitana.
Le parole usate  poi, sono al limite del grottesco, al livello degli strilli dei giornali locali, affissi fuori dalle edicole di paese:


"Paura nel mezzanino di Piazza de Angeli".

"Qualche minuto prima di crollare al suolo con gli occhi ribaltati, nel sottopassaggio semideserto del metrò divenuto forse angoscioso luogo di appostamento".


"Vigilantes disarmati ai tornelli".
E ci mancherebbe, cosa devono fare, sparare al primo che tenta di timbrare un biglietto con il trucco del burro cacao? (cosa che oggi non funziona più, fra l'altro)


Ci tengono a farci sapere che il nostro amico Francesco aveva avuto "Qualche lite con i primi immigrati egiziani..." ma che ultimamente aveva pure iniziato a salutarne uno...

Subito l'opposizione attacca, De Corato, preceduto dall'amico Salvini, non perde occasione di stare zitto: "Se confermate le circostanze, questa morte dopo un tentato borseggio è l’ennesima prova dell’emergenza sicurezza che dal 2011 vive la nostra città". Perché fino a un giorno prima dell'elezione di Pisapia, a Milano i portafogli li sfilavano vuoti e li restituivano pieni di biglietti da 100 euro.

Intanto tutto il carrozzone dei moralisti, allarmisti, razzisti, è partito e ha già fatto più di un giro di giostra. E infatti al momento non è successo sostanzialmente nulla di rilevante  (se non ci saranno altri accertamenti che confermeranno le ipotesi). 

Si farà un gran parlare dei controlli nelle stazioni, e sull'onda di questo falso allarme potrà eventualmente scattare un'ordinanza, verranno aumentati i controlli per un paio di settimane per poi tornare tutto alla normalità come se niente fosse successo.


L'importante è creare il pretesto che abbassi la nostra soglia di civiltà, il nostro apparente senso civico e la nostra ipocrita tolleranza, per accendere la discussione che rianimi la solita paura del diverso, dello straniero, e che accenda il dibattito su più fronti. Un dibattito che si auto-alimenta con il continuo scambio fra tolleranti e intolleranti, che presto si dimenticano del modo in cui è iniziato e inizieranno a insultarsi fra di loro, sconfinando nell'inutile. Fino a quando le frustrazioni personali non verranno sfogate, e non si saranno scaricate tutte le colpe del nostro fallimento su immigrati, emarginati, clandestini, zingari, e chiunque nella nostra ignorante mentalità rappresenti una minaccia per il nostro benessere e per il nostro quieto vivere. Infine la discussione arriverà a un punto morto e il pudore, la coscienza e l'ipocrisia torneranno a galla per farci sembrare cittadini tolleranti e civili, fino a quando non si troverà un altro pretesto per ravvivarla e far uscire quanto di più brutto c'è dentro di noi. 

A questi link trovate gli articoli di cui ho parlato:


Tentato furto, 65enne muore nel metrò Rilasciati tre dei presunti borseggiatori


Vittima dei ladri, si accascia e muore nel metrò Fermati tre ragazzi , forse una gang di borseggiatori

La tragedia di Francesco impiegato contento aspettando la pensione

Sicurezza, l’opposizione attacca la giunta Polemica dopo la morte del 65enne nel metrò

Vigilantes disarmati ai tornelli Controlli potenziati nelle stazioni













18 ottobre 2013



Il ritorno in Italia dei Baroness ha un sapore particolare.
Dopo essere stati eletti al ruolo di alfieri del metal con "Yellow & Green", lo spaventoso incidente accaduto al loro tour bus il 15 agosto 2012, è stata una bruttissima battuta d'arresto per la loro cavalcata trionfale verso la consacrazione. Ora con questo tour, dopo un sofferto cambio di line up (basso e batteria) stanno cercando di tornare a occupare il posto che gli spetta nel panorama metal mondiale.





Arrivato al Tunnel sento già le note dei Royal Thunder che fanno vibrare l'aria fuori dall'ingresso. Superato il tendono fonoassorbente ci vogliono 30 secondi per rimanere totalmente rapito dalla loro musica. Assistere a  un concerto di una nuova band metal (che poi proprio metal non è) con quelle qualità è come assistere alla nascita di un panda allo stato brado. La cosa è ancora più interessante perché alla voce c'è una ragazza, e la sua voce è una delle cose più incredibili che abbia mai sentito, soprattutto per quel che riguarda il genere.




Dopo aver conquistato il pop e l'rnb, oggi anche il metal e tutta l'area più buia della musica sta diventando terreno di caccia per le donne. E' finito il tempo (grazie a Satana) delle cantanti liriche prestate al metal, ora sembra ci sia una maggior consapevolezza, maggiore ricerca di un proprio modo di cantare, e maggiore libertà di espressione forse, rispetto al passato. Chelsea Wolfe, Harriet Bevan dei Black Moth, Melanie Parsonz dei Royal Thunder, solo per citare le ultime passate in Italia, rappresentano a mio parere un qualcosa di completamente nuovo sia nel panorama musicale femminile che in quello metal e potrebbero essere la punta dell'iceberg di una colonizzazione al femminile di un genere (e dei suoi miliardi di sottogeneri) che per tradizione è sempre stato regno maschile.

La voce di Melanie Parsonz dal vivo è qualcosa che fa innamorare, espressiva, profonda, carica di emozione, urlata, stracciata, sussurrata, vibrata, alti, bassi... ha un range di suoni da far impallidire un POD della line6. Oltretutto è anche un'ottima bassista, ed è sostenuta da un batterista e un chitarrista praticamente perfetti in ogni cosa (oggi sono un trio dopo vari cambi di formazione). Quando si assiste a sorpresa a un live di quella qualità, il genere passa totalmente in secondo piano e ti viene da urlare "Metaaaaal!", ma siamo in quella zona heavy di confine di derivazione stoner, doom, hard rock, e psichedelia. Che sì, si può associare al metal, ma proprio metal non è.



I Baroness partono col botto, subito dopo "Ogechee Hymnal" per prendere le misure del locale è subito "Take My Bones Away" per far capire che non c'è spazio per le introduzioni, subito pugni in faccia e poche storie. Il tempo di far passare l'euforia iniziale e subito ci si accorge che i suoni non sono proprio fantastici. Ma intanto si canta col dito alzato "Take myyy booones away!" e si cerca di non farci caso, siamo all'inizio pezzo dovranno ancora sistemare...nel frattempo arriva un altro pugno con "March Into the Sea" e poi ancora "A Horse Called Golgotha", un trittico che è puro fuoco sparato fuori dalle casse.



A vederli sul palco sembra di vedere due mondi paralleli, sulla sinistra sembra di essere negli anni '80, con Peter Adams, dotato di una splendida, sorridente e innata tamarraggine, sbatte la chioma come una frusta, si spara delle pose assurde (senza crederci troppo) e vince il premio come eroe assoluto della serata. Una presenza sul palco come la sua è ormai qualcosa di molto raro da trovare.

Di fianco a lui John Baizley fa la parte del perfetto pelato/barbuto del metal moderno.
Anche guardandosi intorno in mezzo al pubblico sembra che i Baroness siano riusciti a unire il metal dei pelati con il metal dei capelloni; due mondi che fino ad ora, nonostante gli sforzi dei Mastodon, nessuno era ancora riuscito effettivamente a unire.

Invece al Tunnel si vedono nerd,  nerd-metaller sovrappeso con capelli lunghi e occhialoni da vista, nuovi metallari ultra-tatuati, pelati-barbuti, pluri-barbuti, appassionati di post-hardcore e sludge, e cosa incredibile, c'è anche un po' di vecchia guardia. In ogni caso, la differenza fra chi va a un concerto per ascoltare, vedere e partecipare e chi va a un concerto per presenziare all'evento si vede subito: a differenza del concerto degli Editors all'Alcatraz, al Tunnel non si vede neanche un telefono sollevato sopra le teste.



A sorpresa, dopo una manciata di pezzi calano la carta che non ti aspetti, una inaspettata "Foolsong", rilassa le orecchie e mostra il lato più morbido della band che assolutamente non sfigura con quello più rude. Scelta molto coraggiosa, perché è anche un pezzo da "Green", il lato più controverso del loro ultimo disco. Mettere un pezzo in scaletta dopo neanche mezz'ora è uno "statement", per dirlo all'americana. Come se ci volessero dire "Non vogliamo farci mettere nell'angolo da chi ci vuole chiudere in un genere a tutti i costi, noi siamo anche questo e non lo nascondiamo".

Lo splendido "Green Theme" fa da spartiacque sulla metà del concerto, e inaspettatamente è un pezzo che ha una resa live incredibile, un pezzo veramente emozionante che esalta le capacità compositive della band ed è stato accolto molto bene dal pubblico.
Dopo il Green Theme si torna (quasi) alle origini con "Swallawed and Halo" dal "Blue Record". Nella prima parte del concerto non viene concesso molto ai due album precedenti della band, altra scelta coraggiosa che dimostra quanto ci tengano al loro ultimo disco che ormai è già fuori da un po'.




La conclusione della prima parte è affidata a "Eula" e "The Gnashing".

Fortunatamente per questi ultimi due pezzi prima dell'encore ci è concesso di avere dei suoni decenti.
Fino a quel momento il concerto è stato per metà una suite per basso e orchestra per la seconda metà  una serie di tentativi per cercare di rimediare. A metà concerto esasperati dal volume del basso che ci stava mischiando gli organi interni, abbiamo provato anche a spostarci da metà sala verso il fondo, ma la situazione comunque non è migliorata.

La differenza su questi ultimi due pezzi si sente immediatamente, le chitarre graffiano, la batteria non è solo un sottofondo e si sentono le botte sul rullante, la voce rimane sopra agli strumenti senza coprirli. FINALMENTE.
Non credo che sia un problema di acustica del locale, perché ho visto altri concerti al Tunnel e i suoni sono stati sempre perfetti. Ma anche se ci fosse un problema di acustica, vuol dire che gli altri fonici hanno saputo superarlo e invece quello dei Baroness no.
E' veramente un peccato perché la band ha suonato da paura per tutto il concerto (soprattutto il bassista, visto che potevamo sentirlo molto bene).



Su Eula il pubblico è pienamente coinvolto, perché l'impatto rispetto a prima si sente molto di più, e si può apprezzare a pieno la botta che hanno i Baroness anche su un pezzo che non è uno dei più pesanti. In più l'assolo di Peter Adams è da far lacrimare sangue alle madonne di tutto il mondo. Infine "The Gnashing" è la scossa che ci vuole per creare attesa prima dell'encore.

Encore che è un bulldozzer lanciato verso il pubblico, i suoni sono granitici e l'impianto del Tunnel li spara fuori a tutta, "The Sweetest Course", "Jake Leg" e "Isak", un due tre e tutti a casa col sorriso stampato in faccia.
Complici anche le strutture più ritmiche dei pezzi e i riff monolitici dei primi due dischi, questi ultimi tre pezzi sono una vera e propria pettinata.
Ma lo sarebbero stati anche tutti gli altri, se i suoni fossero stati adeguati.

I Baroness dal vivo danno prova di essere una band solida nonostante le avversità appena superate, hanno la forza e le spalle larghe per poter rappresentare il futuro del Metal.
Le prossime mosse della band saranno fondamentali e stabiliranno se potranno sconfinare i limiti del mondo a cui appartengono, diventando una band conosciuta e apprezzata anche al di fuori di questo, oppure se rimarranno "solo" un punto di riferimento per il genere.
Genere (si parla sempre di post-hc-sludge-stoner-metal) che avrebbe veramente bisogno di una boccata d'aria e di una band che lo faccia conoscere al di fuori dalla sua nicchia, conquistando anche vecchi metallari e giovani nostalgici (categoria che fatico a comprendere).












14 ottobre 2013

Chi, come me, non si è perso neanche un passaggio degli Editors a Milano, sapeva perfettamente cosa aspettarsi da un loro concerto. Non hanno mai deluso, e giovedì all'Alcatraz hanno dato un'ulteriore conferma del loro valore.

Le premesse per il concerto non sono il massimo, su Milano c'è aria di tempesta e tentare di avvicinarsi all'Alcatraz è impresa non da poco, con l'acqua che arriva a secchiate orizzontali e il vento che sembra voler portare via tutto. Per fortuna il concerto è già soldout, altrimenti con quelle condizioni atmosferiche sarebbe stato molto difficile riempirlo.



La prima cosa che si impara quando si è visto gli Editors molte volte è che bisogna andare presto. Perché i ragazzi (o chi per loro) non tralasciano mai la qualità dei gruppi spalla.
Qualche anno fa nel defunto Palavobis/Mazdapalas/Palatucker/Palasharp... a proposito, visto che ormai sembra caduto definitivamente nelll'oblio, il tanto sbandierato nuovo palazzetto polifunzionale, che doveva prendere il suo posto in previsione dell'EXPO 2015 che fine ha fatto?
... Dicevamo, qualche anno fa al Palasharp prima degli Editors c'era un gruppo che qualche hanno dopo ha firmato il disco dell'anno per l'NME e per il Dolditoriale, il nome "The Maccabees" vi dice nulla?

Quest'anno invece l'onore di aprire le danze ai loro concerti è stato concesso ai belgi Balthazar, in forze alla PIAS (la stessa casa discografica degli Editors). Visti i precedenti, l'aspettativa anche nei loro confronti era alta e non hanno deluso, anzi sono stati ben al di sopra delle aspettative.

Quello che propongono è un indie-pop/rock con spiccate venature folk. Atmosfere invernali, con una voce strascicata e impianti sonori minimalisti, con uno splendido basso stoppato come spina dorsale dei loro pezzi. una lor caratteristica peculiare sono suggestive parti a quattro voci all'unisono, con le quali chiuderanno anche  il loro live in modo a dir poco efficace.
Già dalle prime note si capisce che i ragazzi valgono. Convincono subito, catturano l'attenzione del pubblico. Lo conquistano e lo coinvolgono fin dalle prime battute, arrivando verso la fine a provocarne un hand-clapping spontaneo, al quale credo di non aver mai assistito per un gruppo spalla semisconosciuto.
Segnateveli, perché ne sentirete parlare molto in futuro.




Arriviamo al motivo per cui l'Alcatraz è soldout.
Come da tradizione il primo pezzo del concerto è il pezzo di apertura del nuovo disco... Invece no. Perché "The Weight" è solo un accenno strumentale che fa da contorno all'ingresso della band. Il primo pezzo del concerto in realtà è il secondo dell'ultimo disco: "Sugar".

L'interruttore però lo accende "Smokers Outside.." dopo "Someone Says", il locale esplode letteralmente sulle prime note, e subito dopo "Bones" suona la carica.
Il concerto sembra decollare e invece "Eat Raw Meat = Blood Droll" è un po' come un tirare il freno.
Nonostante tutte le critiche ricevute, io considero "In This Light and On This Evening" un grandissimo disco, ma non ho mai capito e apprezzato "Eat Raw Meat...". Non ho mai capito perché l'abbiano scelta come singolo, e non ho capito perché lo abbiano riproposto dal vivo, soprattutto in quella posizione fondamentale della scaletta.

Dopo la frenata, tocca a "Two Hearted Spiders" il compito di far ripartire il concerto, ma nonostante sia un pezzo splendido, purtroppo fa fatica a trascinare il pubblico. L'acceleratore sul concerto incredibilmente lo schiaccerà "Formaldeyde", accolta come un grande classico durante il quale il pubblico sostiene la band per tutta la durata del pezzo. Anche Tom Smith è visibilmente stupito della reazione.



Da lì in poi sarà tutta in discesa, "A Ton of Love" scatena il delirio, ma così come all'inizio subito dopo piazzano "Like Treasure" che raffredda leggermente gli animi, ma è veramente un piacere ascoltarla. Uno dei pezzi "minori" di "In this light..." ma che dal vivo rinasce e acquista un'intensità unica.

Sembra quasi vogliano tenere alta l'attenzione del pubblico, che non vogliano fargli perdere il controllo, mantenendo sempre dei momenti in cui si ascolta veramente la loro musica, senza distrarsi cantando, saltando o facendo foto e video (argomento sul quale tornerò alla fine).

Arriva il momento più bello della prima prima parte del concerto, dopo una possente "In This Light and on this Evening", che secondo me rimane IL pezzo di apertura per un concerto, è il momento di "Phone Book". Suonata chitarra acustica e voce con il solo Justin Lockey, il nuovo entrato chitarrista, a fargli da supporto.
E' incredibile come uno dei pezzi che su disco convince meno, dal vivo diventi forse il momento più intenso di tutto il concerto. Sul ritornello Tom addirittura riesce a zittire tutto il pubblico (cosa che ho visto fare solo ai Sigur Ros), solo con l'intensità della sua voce, regalandoci un momento veramente emozionante.
Accortosi di quello che è riuscito a fare, sull'applauso spontaneo che è scaturito subito dopo, anche lui è visibilmente emozionato e deve smettere di cantare per un attimo prima di riprendere.



Tocca a "Honestly" chiudere la prima parte del concerto. Al rientro gli Editors lasciano le redini con una tripletta incredibile che fa letteralmente scoperchiare l'Alcatraz, la tempesta fuori è niente al confronto: "Bricks and Mortar" è da lacrime; "Nothing" in una versione appositamente studiata per il live, è una delle cose più trascinanti che abbiano mai suonato; infine "Papillon" suonata come se non ci fosse un domani trasforma l'Alcatraz in una dancehall.

La lente di ingrandimento in questo live era puntata sul nuovo chitarrista, che secondo me è un tesoro per questo nuovo corso della band. Poche cose, al momento giusto, suoni meno invasivi ma più curati, lascia il giusto spazio alla voce che infatti viene valorizzata e trova più libertà di espressione. Coadiuvato da Elliot Williams ai sinth e alla seconda/terza chitarra formano un tessuto sonoro di grande eleganza sopra ai due membri storici che sono l'indiscussa spina dorsale del suono degli Editors. In Particolar modo il bassista Russel Leetch è la colonna portante della band, che rispetto al passato si concede anche molto più spazio sul palco, andando da una parte all'altra a tirare in mezzo il pubblico.

Chi pensava che "In This Light and On This Evening" fosse solo un passo falso della band si è sbagliato di grosso. Molti loro colleghi quando fanno un disco diverso dal solito, lanciano il sasso e nascondono la mano. Appena vedono che la reazione del pubblico non è quella che si aspettavano, cancellano il disco "sperimentale" da tutte le scalette dei concerti, facendo finta che non sia mai esistito. Gli Editors invece sono perfettamente convinti, consapevoli e fieri di quello che hanno fatto, e in scaletta hanno riservato molto più spazio a questo disco che ai due precedenti.



E' chiaro che non sono più quelli dei loro primi due dischi e non lo saranno mai più. Quei ritmi in levare ormai gli vanno stretti, la voce di Tom Smith è palesemente imbrigliata in linee vocali che ormai gli stanno come il vestito della comunione. Ascoltandoli dal vivo, se ci si estraniava un attimo dal delirio del pubblico e si ascoltava attentamente, si sentiva che non avevano la stessa resa e la stessa intensità di quelli degli ultimi due dischi (ed è anche per questo che non sono molto citati in questo report), tranne qualche eccezione che però era già una finestra sugli Editors di oggi (ad esempio "Munich" o "Smokers Outside...").

C'è un anche aspetto particolare della loro musica che salta all'occhio dopo averli sentiti dal vivo: o non hanno mai trovato un produttore che fosse capace di fargli imprimere su disco la stessa intensità che esprimono dal vivo, o sono loro che in studio proprio non riescono ad esprimersi come sul palco. Anche per di arrangiamenti, possibile che trovino idee sempre migliori per il live piuttosto che in studio? Per esempio, perché decidere di registrare "Nothing" con un discutibile arrangiamento d'archi, quando invece sia fatta semplicemente in acustico che con l'arrangiamento esplosivo dei live elettrici, è comunque oggettivamente migliore la resa del pezzo? Lo stesso discorso vale per "Phone Book" naturalmente, che su disco è molto più serrata e non lascia il giusto spazio alla voce come invece accade dal vivo.
In ogni caso questo, nonostante sia un punto debole, conferma la grandezza della band. Perché ormai sono veramente pochi quelli che hanno il coraggio di stravolgere i loro pezzi dal vivo. 




Quello degli Editors a Milano è stato un concerto forse non trascinante come può esserlo uno dei The National, ma con il giusto equilibrio di elementi e una qualità di esecuzione altissima che lo rende quasi perfetto. 

Perfetto se non fosse per tutti gli imbecilli che passano il concerto a fare video e foto con i telefoni... che poi adesso i telefoni te li ritrovi davanti quando va bene, perché quando va male sono ipad e tablet vari quelli sollevati sopra le teste. Ormai gli inizi dei concerti e i momenti più significativi si riescono solo a guardare attraverso il display del telefono di quello davanti che a sua volta riprende i display dei telefoni davanti, è una situazione demenziale. Passi fare una foto per ricordo o da mettere su Instagram o Facebook ma poi basta, è anche una questione di rispetto per chi sta dietro di te, è una situazione insostenibile.