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20 settembre 2018



In Italia la musica indipendente è ormai intrappolata dentro due macro categorie indissolubili: da una parte l'indie-it-electro-pop-cantautorale, dall'altra l'emo-post-qualsiasicosa. Due contenitori già sovraffollati da anni, nei quali però si trova sempre spazio per l'ennesima uscita uguale a tutte le altre venute prima, salvo alcune eccezioni. È facile in fondo. Ci si affida a un pubblico settoriale, con canali ben delineati, ci si appoggia un po' a tutto ciò che è venuto prima, prendendo un po' da uno e un po' dall'altro, ci si conosce tutti, ma soprattutto si è tutti parte di un "sistema", prima o poi tutti organizzano un concerto, tutti avviano un ufficio stampa o una booking, tutti scrivono di musica, tutti fanno un disco, tutti fanno foto, le persone che ascoltano e basta si contano sulle dita di una mano, quindi a pochi conviene esporsi con giudizi negativi su una band o un artista se sono già entrati nel giro. Così va a finire che si galleggia a distanza di sicurezza dalla mediocrità, nessuno fa cagare, ma allo stesso tempo nessuno fa la differenza. Questo succede anche a causa di una costellazione di microetichette, microbooking, micro uffici stampa, dotate di buona volontà e buone intenzioni, ma che in molti casi non hanno i mezzi per permettere a una band o a un artista di crescere.
Difficilmente qualcuno che faccia qualcosa di originale, che mischi le carte, qualcuno che segua un percorso personale e fuori dagli schemi trova spazio, perché invece di premiarlo si tende a isolarlo, perché altrimenti si devono creare canali che non ci sono, bisogna creare un pubblico nuovo ma si tende a rimanere nel proprio orticello: è più semplice e si raggiungono gli stessi risultati con meno sforzi.
Per riuscire a farsi spazio un artista con le caratteristiche sopra elencate, deve essere veramente bravo, anzi deve essere molto, ma molto più bravo di quelli che solitamente lo occupano quello spazio, e per prenderselo la sua qualità deve essere incontrovertibile.

Questo è accaduto nel 2015 con l'esordio degli Any Other, grazie (davvero, grazie) a un'etichetta che (guardacaso) era un po' fuori da tutti i giochi di ruolo di cui sopra, essendo nuova: la Bello Records di Massimo Fiorio e Rossana Savino.



La musica di Adele Nigro non è mai stata facilmente catalogabile, mi stupii molto vedere quanto circolò all'inizio Silently, Quietly, Going Away, quanto se ne parlò (più perché l'etichetta era gestita da un gatto che per il disco, se vogliamo dirla tutta, ma è stata una mossa intelligente), perché era chiaro che era un qualcosa che rompeva gli schemi, ma ancora non potevamo immaginare quanto.
Il primo album degli Any Other non era né cantautorale, né emo, né electro, né punk. Andava a pescare in quell'indie anni '90, un po' Built To Spill, un po' Courtney Barnett, un po' Speedy Ortiz, che in Italia non ha mai avuto una vera scena e oggi men che meno. Non era un disco difficile però: si basava principalmente su accordoni di chitarra con un leggero crunch e su un impianto di basso e batteria molto semplice e funzionale ai pezzi, ma si sentiva subito che aveva qualcosa di speciale.
Le linee vocali di Adele erano già molti gradini sopra la media italiana, il suo modo di cantare era ed è totalmente slegato dagli stilemi della canzone popolare italiana, cosa rarissima, perché volenti o nolenti l'abbiamo tutti nel nostro dna e si sente anche nel disco più hardcore che abbiate mai fatto.
Nonostante questo però, non ha avuto lo spazio che si meritava.





Silently ecc. però era solo un passaggio, forse obbligato, una piattaforma solida su cui poggiare una rampa di lancio, perché ad ascoltare il nuovo Two Geography, il precedente disco sembra un esercizio, un gioco. La ragazza è cresciuta musicalmente molto più che anagraficamente in questi tre anni.
L'impianto della band classica, chitarra basso batteria, viene lasciato da parte per fare spazio a strumenti nuovi e ad arrangiamenti di matrice più acustica, la chitarra elettrica quasi sparisce, ed entrano nello spettro, violini, fiati, pianoforti e Rhodes. Quella che prima sembrava una band vera e propria ora suona come un gruppo di turnisti al servizio della cantante. C'è molto più spazio per far risaltare le doti di Adele, che non si lascia pregare e sfrutta quello spazio come nessun'altra sarebbe in grado di fare.



La cosa che lascia piacevolmente spiazzati sono gli arrangiamenti: quando serve si cerca sempre la soluzione diagonale, inaspettata, i pattern di batteria caratterizzano in modo particolare l'andamento dei pezzi, con soluzioni che oserei definire "nationaliane" (in questo senso il cambio di batterista è stato fondamentale), come si può sentire già al primo impatto con il singolo Walkthrough. Tutto questo senza però esagerare, perché il disco ha due anime, una possiamo definirla "jazz", dove le soluzioni citate sono la caratteristica principale, oltre alle linee vocali sorprendenti, e un'altra folk, dove, con molta intelligenza, si va verso il minimalismo, lasciando la chitarra acustica in primissimo piano, impreziosita solo da alcuni interventi discreti, che siano violini, o batteria spazzolata (o anche nulla) come in Breastbones, che profuma molto di Sufjan Stevens.
È come giocare a uno sparatutto, in cui tu punti principalmente verso il centro dello schermo, perché la maggior parte dei cattivi da uccidere arrivano da lì, invece quando meno te l'aspetti ne salta fuori uno dall'angolo in basso a sinistra ed è GAME OVER.
Gli arrangiamenti di Two Geography sono così, ti mandano sempre in game over.
Già l'apertura del disco non è il solito pezzo "confortevole", quello che serve a convincere l'ascoltatore a proseguire, è una pennata continua di chitarra acustica, che ricorda il Josh T. Pearson di Last Of The Country Gentlemen, un momento di attesa, di sospensione, che poi "esplode" nel finale. Tutto l'album è una continua alternanza fra pezzi "difficili" e ballate acustiche. L'unico pezzo che ricorda da lontano i vecchi Any Other è Perkins, dove la chitarra elettrica torna protagonista sul finale e si risente una batteria con un 4/4 classico. Il resto è una piccola grande rivoluzione.
Sul finale poi, dopo un probabile singolo (giuro di averlo scritto prima che uscisse) come Capricorn No arriva forse il pezzo più audace, in cui gli strumenti formano un tappeto elastico, di quelli un po' sgualciti, sui quali è poggiato uno leggero strato d'acqua dopo un temporale. Un tappeto fatto di lunghi accordi e vibrazioni di fiati e batteria che increspano l'acqua, sopra al quale la voce di Adele rimbalza e si diverte con evoluzioni a corpo libero, per poi finire un una nebbia sonica di feedback acustico e ripetizioni ossessive e psych.



Un disco eterogeneo ma con un forte carattere, che testimonia una crescita e una maturità sorprendenti, oltre a una voglia di migliorarsi e di sperimentare che nei prossimi anni spero possa portare il progetto ad essere una realtà internazionale consolidata.
Perché gli Any Other non hanno bisogno di spazio in Italia, la partecipazione al Primavera Sound non è un caso, così come non lo è il tour europeo intrapreso ancora prima di presentare il disco in Italia (cosa che succederà quest'inverno). Siamo noi che abbiamo bisogno di Adele Nigro e soci e di molti altri come loro per far crescere tutto l'indie italiano. Per dimostrare a tutti che si può e si deve fare spazio anche a chi non ha un contenitore prefustellato, perché se progetti come questo trovano spazio ne guadagnano tutti, si creano nuovi canali, si arriva a persone nuove, creando un piccolo ma indispensabile ricambio nel pubblico che segue i concerti e le uscite discografiche di un certo tipo. Serve ossigeno nuovo in un ambiente che tende troppo spesso a chiudersi su sé stesso e gli Any Other sono una bombola di ossigeno da 20 litri.
Con largo anticipo, questo sarà per me il miglior disco italiano del 2018 e uno dei migliori in assoluto dell'anno, non tanto per il valore assoluto, perché il percorso è appena iniziato e ha comunque alcuni piccoli difetti che però lo rendono fresco, stimolante, ma perché esprime un potenziale enorme.
Sembrerà un azzardo ma qui siamo di fronte a una nuova Fiona Apple, o, essendo la chitarra acustica il suo strumento principale, a una nuova Ani Di Franco. Ma non la nuova Ani Di Franco italiana, la nuova Ani Di Franco e basta.



29 maggio 2018



È da poco uscito Evergreen di Calcutta e subito, ma anche prima dell’uscita, si sono sprecati i commenti e le recensioni lampo. Non ho mai capito come si fa a recensire un disco il giorno stesso dell’uscita, dopo mezzo ascolto fatto su un tram mentre si chatta su Telegram o si controlla Facebook.
Ultimamente poi con questa usanza e questa voglia inutile di essere i primi a sparare una sentenza, si sono stroncati dischi bellissimi sulla base di nulla, come è capitato a inizio 2017 con I See You degli XX.
Il problema principale è che giudichiamo i dischi per quello che vorremmo che fossero e non per quello che sono. Bisogna dare tempo al disco di rivelarsi per quello che è e dare tempo a noi, per capirlo. Un disco è come una persona, ci sono persone con cui al primo sguardo si va d’accordo subito, ci sono quelle che bisogna litigarci per scoprire di essere amici e invece poi ci sono i cavalli che sono delle brutte persone. La stessa cosa vale con i dischi.
Tutta questa manfrina, per dire che quello che sto andando a fare non è una recensione, ma è l’esigenza di fissare le prime impressioni su un disco che sarà forse ancora più importante del suo predecessore.
Con tutti i singoli usciti, si poteva pensare che Evergreen fosse un disco pieno di ritornelli killer, leggero, di facile presa, uno di quelli che non fai altro che cantarlo senza pensare troppo a quello che c’è sotto, io per primo lo pensavo, e tutto sommato l’idea non mi dispiaceva, perché è anche un po’ quello che vuoi da un personaggio così, fra mille ascolti “difficili” ogni tanto in macchina di notte, ci vuole un po’ di Calcutta.
Quando poi il disco si è rivelato e ho avuto la possibilità di ascoltarlo tutto sono rimasto un po’ spiazzato.
Perché sì Evergreen è un disco pieno di ritornelli killer, ma non solo. Qui stiamo parlando non di un disco con due lati, ma di un disco con due strati e forse anche di più.
In questi giorni di Giro d’Italia, mi immagino l’album come una tappa di montagna, dove i gpm (gran premi della montagna, le cime dei monti) formano una linea immaginaria che è il primo strato del disco, le parti più emozionanti, i singoli, gli scatti fulminanti come quello di Froome sul Colle delle Finestre, i ritornelli, quelli che colpiscono di più lo spettatore distratto. Invece il secondo strato è formato dalle valli, dai tratti in piano, dai sali-scendi, quelli più noiosi per lo spettacolo, ma dove si costruisce l’ossatura del giro e del gruppo, dove si decidono le tattiche, dove si “tira” e ci si può permettere di fare qualcosa di inusuale, come mandare una dedica alla moglie o pisciare in corsa a lato strada senza fermare la bici.
Sono rimasto un po’ spiazzato perché la partenza, naturalmente, è dalla valle, dalla pianura, e Briciole è pezzo atipico, almeno se rapportato a Mainstream.
Ma prima di parlare del secondo strato, volevo analizzare il primo:

Paracetamolo, Pesto, Hubner, Orgasmo, Kiwi.

Questi cinque pezzi formano uno strato compatto, tanto che al primo ascolto quasi ti dimentichi dell’altro. Parole semplici, dirette, messe al punto giusto e con la giusta metrica, che ti si stampano in testa. Parole semplici, ma non banali. Perché mettere in un ritornello un insulto come “Ue deficiente” non è banale, è come la fontana di Duchamp, è una “cazzata”, ma devi avere l’idea per farla e quello che fa la differenza.
Che poi ue deficiente è proprio un bell'insulto. Perché nel momento in cui la lingua italiana viene stuprata ogni giorno, soprattutto dai "nuovi" politici e l'analfabetismo ormai è motivo di vanto, un insulto che contiene una regola base di grammatica come la "i" in mezzo alla "c" e alla "e" è a suo modo rivoluzionario.
Stesso discorso vale per “Lo sai che la tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000”, la prima reazione è “che coglione”, ma ci vuole anche coraggio per dire chissenefrega, e iniziare un pezzo con una frase così assurda. Perché il Paracetamolo è una cosa che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, con i farmaci equivalenti, prima era solo una delle tante parole che conoscevano solo i farmacisti e per noi una valeva l’altra. È una parola che a suo modo identifica una generazione.
Stesso discorso vale per Dario Hubner, anche quello all’inizio ti strappa un sorriso, ma è un nome che identifica una generazione ben precisa, un tipo di calcio che oggi non c’è più e che solo alcune persone identificano come “poesia”, perché Hubner è poesia, non scherziamo.
Anche con un semplice nome Calcutta sa rievocare un mondo, un’appartenenza, come il Frosinone in serie A di Mainstream.



Ma non è fatto solo di parole e ritornelli killer il primo strato, perché azzeccare una melodia capita a tutti una volta, ma la bellezza e la qualità di una canzone pop con la struttura canonica, la si riconosce dallo special, e Paracetamolo come altre di Calcutta, ha uno special che è una canzone dentro la canzone. In questo special (da 1:40 nel video) è incluso, come una sorta di yin e yang, un piccolo pezzo del secondo strato, una sorta di canzone nella canzone, che in mezzo a un singolo spacca classifica mette psichedelia, california, acidi, riverberi, dilatazioni, tutto concentrato in pochi secondi.
Ma ogni pezzo del primo strato ha dentro qualcosa del secondo, che non sto qui ad elencarvi perché altrimenti diventerebbe un libro e con gli ascolti è come sfogliare un carciofo fino ad arrivare al cuore, dove c’è il fiore.

Il secondo invece è quello più sorprendente, quello che indica la direzione in cui probabilmente andrà Calcutta:

Briciole, Saliva, Dateo, Nuda Nudissima, Rai.

La prima, di cui accennavo più sopra è uno spartiacque, è messa lì come avvertimento, ad indicare che qui una volta era tutto un Cosa Mi Manchi a Fare, ma adesso ci sono cemento e palazzi. Sembrerà strano, ma io ci sento un po’ di Cremonini, perché Edoardo, oltre al cantautorato italiano dagli anni sessanta ad oggi, va a pescare anche nella vena pop-psichedelica dei Beatles o dei Beach Boys. Infatti nonostante sia spiazzante e insieme a Saliva, sia profondamente diversa dai pezzi del primo strato è ancora nulla rispetto a quello che verrà.
Il punto focale dell’album è la doppietta Nuda Nudissima, Rai. È qui che si apre un mondo, che era forse presente in qualche modo nel primissimo disco (Forse…), come idea ma non nella forma.
La prima inizia con una chitarra che sembra un banco di nebbia artica, di quelle che ti bruciano gli occhi, con un flanger tirato a cannone che fa perdere i confini della distorsione e rimane nel sottobosco del pezzo per tutta la durata. Qui la forma canzone si sgretola, non c’è un ritornello vero, la successione di accordi si fa meno netta e più liquida, acida. Qui gli ultimi anni ‘60 si sentono fortissimo, si perde la dimensione cantautorale, per tuffarsi a bomba nel pop psichedelico, si sente dai coretti, dai sinth che puntellano tutto il pezzo con interventi sghembi, diagonali. Nuda Nudissima è il classico pezzo che non piace a nessuno, quello che dal vivo ha una resa pessima e manda tutti a prendere la birra, ma è qui che bisogna cercare il vero Calcutta, è qui che viene fuori la capacità di un autore che non scrive solo singoli buoni per vendere.


Perché il problema dell’indie vs mainstream è tutto qui, finché scrivi pezzi “difficili” ma non ti fai capire dal pubblico rimani nel tuo orticello e non vai più in là. Non è tutto, può anche non interessarti, ma poi non te la devi prendere con chi riesce a fare quel passo, usando come scusa la mancanza di qualità. Non tutti vivono la musica come una passione, la maggior parte della gente la vive come un passatempo, un riempitivo, e non è dicendogli “guarda che io sono più bravo e quello che ascolti tu è tutta una merda” che la convinci a fare un passo in più, verso la musica più nascosta e forse di maggiore qualità, ma quello è tutto da vedere.
Ti devi aprire a quel mondo, devi farti capire, devi convincere qualcuno di cui non gli interessa un cazzo di quello che fai che potrebbe interessargli. L’ha capito anche Manuel Agnelli a 50 anni, che per entrare in un certo mondo devi giocare nel loro campo, non puoi portarlo nel tuo con la pretesa di essere migliore di loro. Tutto questo dopo aver buttato nel cesso un’occasione d’oro a Sanremo, presentando un pezzo inascoltabile per la maggior parte delle persone abituate a vederlo (era il 2011 ed era molto diverso da oggi), completamente fuori contesto, senza un ritornello vero e con una resa sonora pessima in tv. Pretendendo che quelle stesse persone andassero a comprare una compilation diversa da quella di Sanremo per sentire il loro pezzo e quello di altre band del panorama indie. Pensate se gli Afterhours avessere presentato un pezzo tipo Quello Che Non C’è, o Voglio Una Pelle Splendida, quanta gente avrebbe comprato quella compilation e quanti avrebbero scoperto molte altre band.



Invece ci è voluto X- Factor per rompere quel muro e far capire ad Agnelli che non è tutta merda il mainstream e ci si può mettere le mani senza sporcarsi, per poter portare il tuo mondo dentro a quello, con Ossigeno.
Ecco, Mainstream di Calcutta era il corrispettivo, probabilmente inconsapevole, di X-Factor per Agnelli, invece Evergreen è il suo Ossigeno.
Dopo questa divagazione che non so più da dov’è partita, l’ultimo punto fondamentale del disco è appunto Rai. Giuro che è stato inconsapevole questo rimando.
Rai è un’altra trappola, perché parte come un classico singolone di Calcutta, piano e voce, ma poi prende una sorta di scala di Escher e non si capisce più dove vada a finire. Cresce, cambia, sembra quasi un pezzo solista di Morgan, parte da un punto per finire da tutt’altra parte, non c’è una ripetizione per tutto il pezzo, è pura fantasia, estro, è una specie di operetta pop, inusualmente piena di arrangiamenti complessi, violini, sinth, rhodes, scale di chitarra simili a quelle di un clavicembalo (particolarmente amato da Morgan).



E alla fine si torna a casa con Orgasmo, ma anche lì non è tutto mainstream quello che luccica.
È un disco che avrà bisogno ancora di molti ascolti per rivelare tutti i suoi segreti, ma come dicevo all’inizio è ben lontano dall’essere una semplice raccolta di singoli per l’estate, sarà a mio avviso un disco importante, che riporterà la barra del cantautorato indie verso un salto di qualità. Cantautorato indie che ora è strenuamente impegnato a cercare il successo che prima diceva di non volere, con canzoncine e nomi tutti uguali, per cercare la reiterazione dei due (Calcutta e Paradiso) che hanno smascherato l’ipocrisia di un ambiente troppo impegnato a pisciarsi sulle scarpe, invece di farlo in corsa a lato strada, senza fermare la bici.

Ah, se sei arrivato fin qui e ti stai chiedendo cosa c'entra il titolo, niente, non c'entra niente. O forse no.

15 luglio 2014

Nel 2012 è uscito il disco d’esordio de Il Triangolo con il quale si sono guadagnati un posto speciale nel panorama indie italiano. I pezzi contenuti in Tutte le Canzoni, riprendono le atmosfere beat degli anni ’60 ed entrano subito in testa grazie a testi ben costruiti, strutture semplici e dirette e alcuni ritornelli che è impossibile non ritrovarsi a cantare, provate ad ascoltare Battisti, per esempio. La dimensione ideale di quei pezzi però è ai concerti, dove il pubblico, che cresce a ogni data, canta a memoria tutti i testi. Presto la band si ritrova ed essere una delle rivelazioni di quell’anno e una delle tante promesse per il futuro.

Il 2014 è l’anno giusto per mantenere quella promessa. Ad aprile esce Un’America, anticipato da Icaro e si capisce subito che il trio non ha intenzione di rimanere confinato nelle categorie che gli sono state assegnate. Il suono diventa più ricco e più distorto, si va verso la new wave e il post punk senza però perdere l’identità forte che avevano mostrato all’esordio. Qualcuno rimane spiazzato, ma nella maggior parte dei casi viene accolto bene, e dimostrano un coraggio e una voglia di sperimentare che per una band come loro non è banale, soprattutto in un paese come l’Italia e in un ambito come l’indie, nel quale con il secondo disco sono tutti pronti a dimenticarti per dedicarsi alla prossima next big thing.



Ora sono tornati sui palchi per presentare questo nuovo corso della band. Hanno inaugurato il tour partendo dalla miglior piazza possibile, quella del Mi Ami, dove hanno suonato sabato 7 giugno sul palco della collinetta da headliner, prima di Ghemon.

Ho raggiunto telefonicamente Marco Ulcigrai (voce e chitarra) nel pomeriggio durante la lunga attesa per il concerto serale, per parlare del disco e delle nuove sonorità della band.

Voi eravate già stati al Mi Ami se non ricordo male, vero?

“Eravamo già stati due anni fa quando era appena uscito il primo disco, che era uscito più o meno nello stesso periodo di questo, sempre sulla collinetta in orario pomeridiano, verso le sette se non ricordo male”.

Siete consapevoli di essere fra i più attesi questa sera?

“È una cosa che speriamo, visto l’orario sappiamo che Rockit & company puntano abbastanza su di noi quindi speriamo di essere attesi”.

Siete contenti di come è stato accolto il disco? Leggete le recensioni, vi interessate oppure la cosa non vi preoccupa?

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14 febbraio 2013




Intervista via mail.

Ho inviato ad Alex Brown Church qualche domanda per capire qualcosa di più sul suo disco e conoscerlo meglio, quello che vedete qui sotto è il risultato: il ragazzo non è uno che risparmia le parole e ci tiene molto dare una chiara immagine di sé e della sua musica.


Ciao Alex, partiamo dal tuo nuovo album, pubblicato in Italia un po’ in ritardo rispetto all’uscita ufficiale. Sarò onesto, ti ho scoperto con questo disco e mi è piaciuto molto, ma ascoltando i tuoi vecchi dischi mi sembra che “Old World Romance” sia un pochino diverso, più vicino all’indie che al folk, cosa ne pensi?

Penso che le persone abbiamo differenti modi interpretare il significato di “indie”, e vorrei dire che i vecchi dischi non siano meno indie del nuovo. Ma capisco cosa intendi, perché il nuovo album ha sicuramente sonorità meno folk del precedente, e quindi si può dire che sia un po’ meno “indie-folk” e un po’ più “indie-rock”.

La tua intenzione di partenza era di cambiare un po’ il tuo sound o è stata un evoluzione che si è palesata man mano che scrivevi?

In realtà tutte e due le cose. Volevo che le nuove canzoni suonassero meno folk perché volevo fare qualcosa di nuovo e più contemporaneo, credo che partendo da questo presupposto sia stata poi una naturale evoluzione. Non ho mai stabilito a priori che dovessi fare indie-folk comunque, quel tipo di suono è venuto fuori in maniera naturale quando ho registrato il primo disco, Leaves in the River.
Mi piaceva l’idea di fare canzoni tranquille, con un interessante tessuto sonoro e testi descrittivi, piuttosto che pezzi rock urlati. Penso che scrivere canzoni partendo da una chitarra acustica le spinga inevitabilmente in territori più folk, inoltre amando il suono del violoncello, del marxofono e dell’organo ho voluto inserirli spesso per dare colore alle canzoni.
Il nuovo disco è fatto sempre partendo da una chitarra acustica, ma sentivo di aver fatto tutto quello che volevo con quei determinati suoni e quindi volevo provare qualcosa d’altro, qualche suono nuovo. Ho usato quello che mi piaceva sul momento, poi chissà in che direzione andrà Sea Wolf in futuro.

Andiamo Avanti a parlare del suono del tuo nuovo disco, Old World Romance sembra un vero disco “home-made” (con un suono e una produzione professionali naturalmente). Ascoltando le canzoni ho un’immagine di te, solo nella tua stanza con i tuoi strumenti e le tue attrezzature per registrare mentre suoni e registri tutto da solo. E’ vicina alla realtà quest’immagine?

Sì, è stato sicuramente così durante il processo di scrittura. Ho scritto tutte le canzoni da solo, nel mio studio, solitamente con la compagnia di una tazza di caffè. Una volta pronte le canzoni, le ho registrate, ma solo le parti di cui avevo un’idea precisa di come dovessero essere, per esempio voce e chitarre. Successivamente però  ho voluto altre persone con me per aggiungere basso, tastiere, batteria o qualsiasi altra cosa. Dopo questa fase  tornavo nel mio studio a lavorarci per un po’ e quando arrivavo al punto in cui mi sembravano complete o quasi complete, richiamavo ancora alcuni musicisti per finirle o per fare qualsiasi cosa ci fosse bisogno.

Oggi molti produttori tendono a fare produzioni ultrapulite, senza nessun tipo di imperfezione e personalità, molto cristalline e con suoni molto pompati. In Old World Romans invece credo che il mixaggio e la produzione artistica siano stati molto attenti a non contaminare la delicatezza, l’intimità e l’idea di “fatto in casa” che traspare fin dalla prima nota. Ho apprezzato molto quest’aspetto.

Ho deciso di produrre il disco da solo perché volevo ritornare alle origini, a “Leaves in the River”, sia come metodo di scrittura che come registrazione. Registrai quel disco principalmente da solo nell’arco di un anno circa, con amici che sono venuti a suonare i loro strumenti qua e là, e poi lo portai a Seattle per ultimarlo con il produttore Phil Ek. Il secondo disco “White Water, White Bloom” l’ho realizzato con un band al completo chiusi in studio per 5 settimane, in Omaha, con la co-produzione di Mike Mogis. Sono felice del modo in cui è venuto “White Water”, ma nello stesso tempo ho sentito la mancanza di tutto il tempo che ho avuto per stare da solo con le mie canzoni, come è avvenuto per “Leaves”.
E visto che ho fatto questi dischi con dei produttori leggendari, ho imparato da loro cosa significa produrre un disco.

Avevi un’idea molto chiara di come avrebbe dovuto suonare il tuo disco e quindi hai deciso di produrlo da te, senza che passasse nelle mani di qualcun altro? O è stata più una sfida, o una tua evoluzione, o cosa?

Per quel che riguarda il sound, non avevo un’idea precisa di come avrebbe dovuto suonare “Old World”. Non ho voluto sprecare tempo per stabilire a priori che ogni elemento dovessero suonare in una certa maniera.  E’ la cosa di cui mi sono sempre preoccupato di più in passato, ma alla fine il risultato non è mai stato quello che avevo in mente all’inizio, e per questa volta ho deciso di affrontare la cosa con più tranquillità.
La cosa più importante per me in questo disco è stata catturare la sensazione del momento, la performance. Questo non vuol dire che non abbia prestato attenzione alla qualità del suono, ma ho evitato di stabilire il suono che volevo prima di sentire cosa sarebbe venuto fuori.

Com’è stato lavorare con Kennie Takahashi (Broken Bells, The Black Keys, Jessica Lea Mayfield)?

E’ stato fantastico lavorare con lui. E’ tipo tranquillo  e molto sveglio. Penso che abbia ripulito abbastanza le registrazioni che suonavano molto più sporche prima, ma è stato molto attento a non ripulirle troppo. Il suono del disco deve molto al suo mixaggio.

Mi pare che il suono sia vicino alle produzioni indie dei primi anni 2000 ed è un gran bel suono. I pezzi più rock come “Changing Seasons” “Miracle Cure” or “In Nothing” mi ricordano qualcosa dei Pinback, li conosci? Hanno avuto qualche influenza su di te o è solo una coincidenza?

E’ interessante, non mi avevano mai accostato ai Pinback. Non sono sicuramente un’influenza perché non ho molta familiarità con la loro musica. E’ più una coincidenza, visto che ho cercato solo di  avere qualcosa che suonasse bene alle mie orecchie e questo poi è stato il risultato.

Per te Sea Wolf è più un progetto solista, o un progetto aperto, o una band?

Per quanto riguarda la realizzazione dei dischi è più un progetto solista, in cui ci sono le mie canzoni suonate alla mia maniera. La mia musica si presta anche ad essere suonata con una band al completo però, dal vivo diventa più una band che un progetto solista, con anche un grande impatto sonoro e molta energia. Qualche volta faccio anche esibizioni più intime, o da solo con la chitarra acustica, ma raramente.

Sei sui palchi dalla seconda metà degli anni ’90, ma non si sa molto di te. La tua pagina su wikipedia è molto breve per esempio. Ci tieni alla tua privacy?

Certo, ci tengo alla privacy, ma in fondo credo ce ne siano di informazioni su di me in giro. Anche se ho suonato in varie bands dal ’98, Sea Wolf è attivo solo dal 2000, e probabilmente è per questo che si trovano solo informazioni sul progetto Sea Wolf in giro.

Cerchiamo di scoprire qualcosa su di te allora, ti consideri più un solitario o ti piace stare in mezzo alla gente?

Mi piace la socialità, e ho bisogno di avere una cerchia di amici molto stretti intorno a me.  Ma mi piace anche prendermi il mio tempo per stare da solo. Forse perché sono cresciuto come figlio unico, senza televisione e molto tempo libero da passare da solo a pensare a cosa fare e a fare qualsiasi cosa volevo. Direi che mi piace vedere amici ogni giorno, ma allo stesso modo ho bisogno ogni giorno del mio tempo con me stesso.

Vivi ancora a Los Angeles?

Sono originario della Californi dal Nord, e mi sono spostato a Los Angeles negli anni ‘90 e sono più o meno sempre stato qui. Ho recentemente vissuto 3 anni a Montreal però, e sono tornato stabilmente a Los Angeles nel 2010. “Old World Romance” ha molte canzoni che parlano delle sensazioni al mio ritorno a casa dopo essere stato a Montreal.

E’ Curioso mettere a confront la tua musica così intimista con una città gigantesca come Los Angeles. In passato L.A. era la città dei Guns n’ Roses, dei Motley Crue, RATM, Metallica, Slayer, Tool, RHCP…
In questo “casino” come è cresciuta la tua passione per la musica folk e indie?

In effetti, le cose però nel frattempo sono molto cambiate. Se Los Angeles ha dato una determinata immagine di sé all’esterno è difficile immaginare cosa possa essere, ed immagino che sia dura immaginare cosa ci faccio qui. Ma a meno di essere stati qui e di essere stati in tutte le sue differenti zone, è difficile capire cosa sia L.A.
Io vivo nella parte nord, un’area piena di artisti indie.  Silverlake, Echo Park, Highland Park. La zona in cui sto, è una delle zona a più alta concentrazione hippie d’America . E’ molto tranquillo, immerso nelle colline, con molti parchi e verde e le montagne a fare da sfondo. Lontano da Hollywood e Sunset Strip. 
Come vicini di casa ho i Local Native, i Best Coast e Ariel Pink. E’ un posto che si sposa bene con la mia musica.
Non è una cosa così strana qui essere appassionati di folk e indie e vivere una grossa città. Infatti se poi vai a vedere molti fan di questo tipo di musica vivono in grandi città e la musica di cui hai parlato prima è più roba da gente di periferia o che vive nelle zone rurali.
Penso che la musica indie sia apprezzata da gente con una mente più creativa e questo tipo di persone tende a gravitare nei grandi centri urbani.
Per la natura intimista della mia musica penso che in alcuni casi sia certamente quella la sensazione che esprimono, specialmente nel primo disco, ma credo che poi ci siano anche altre atmosfere nei miei pezzi.  E non è detto che una musica intimista sia per forza legata a un luogo che la rispecchi.

Verrai in Italia a suonare le tue canzoni?

E’ nei piani! Ma non so se riuscirò a portare tutta la band. Molto probabilmente sarà una situazione più spoglia, con me e un altro paio di musicisti, forse in estate o in autunno.

Grazie, a presto allora!

Grazie a te!

28 gennaio 2013




Oggi a Milano ha nevicato.

Mi è capitato per le mani Old World Romance di Sea Wolf, e non potevo trovare una colonna sonora migliore per un lunedì imbiancato, mentre stai andando al lavoro e i fiocchi si stendono sulla strada davanti ai tuoi piedi.

O forse ancora meglio sarebbe per una domenica innevata.

Quando sei chiuso in casa e hai evidentemente bisogno di recuperare del sonno arretrato.

Questo disco sa di casa. Sa di un posto sicuro in cui puoi esprimere liberamente la tua passione e le tue idee.

Si sente nei suoni, nella pacatezza della voce, nell'uso della batteria che sembra quasi buttata lì a caso (o magari è stata buttata a caso davvero e ha funzionato). Ha quel sound fatto di idee fresche e sincere, non strutturate, non iper prodotte, che ti dice "questo è quello che sono e va bene così".

In questa sua dimensione mi ricorda i Pinback, da una parte un po' low-fi e grezzo, dall'altra invece molto curato, ispirato e arrangiato alla perfezione.

In realtà non c'entra quasi nulla con i Pinback, anche se in "Changing Seasons" "Miracle Cure" "In Nothing", i pezzi  più rock di tutto il disco, la ritmica e le chitarre nelle strofe rimanda ai loro lavori.

Qui siamo più sul cantautorato indieIndie nel suo significato primario, non il quasi dispregiativo che è diventato oggi. O se vogliamo usare una connotazione più di moda in questo periodo, parlerei di indie-folk, anche se guardando bene fra le pieghe, ha più influenze rock che folk.

La cosa che mi stupisce è come si riesca a rendere perfettamente quell'idea di "casalingo" che oggi è molto difficile sentire in un disco, spesso slavata via da produzioni ultra ripulite. Sembra quasi una produzione di fine anni '90 inizio '00, ma nonostante rimandi a quel periodo, nello stesso tempo il disco ha i piedi ben piantati nei nostri giorni.

Non serve che mi metta a descrivere pezzo per pezzo: questo è un disco sincero, scalda, ispira e apre la mente. Bisogna ascoltarlo e scoprire se anche a voi darà le stesse sensazioni.

Quindi mettetevi sul divano e schiacciate playd.