Quando è uscito Heathen, nel 2002, avevo 22 anni e David Bowie era forse nel momento più basso della sua carriera. Così basso che il disco precedente "Toy" nel 2001 non fu neanche ritenuto degno di essere pubblicato dalla Virgin/Emi. Sembra incredibile oggi che tutti lo celebrano, ma nelle onde del revival succede così: per dieci anni non ti si fila più nessuno, poi quando ai quarantenni scatta la saudade degli anni d’oro ormai andati, ecco che torni improvvisamente attuale.
Io lo scoprii per caso. Erano passati cinque anni dall'uscita di Earthling, l'ultimo disco di cui avevo sentito parlare bene e da molti era ormai dato per bollito, soprattutto dopo Hours, del '99.
Credo di aver letto una recensione da qualche parte o una news sull’uscita e non so perché lo scaricai, probabilmente da Limewire: niente di più lontano dai miei ascolti di quegli anni.
Non avevo mai ascoltato veramente Bowie, se non le canzoni più famose sentite migliaia di volte e qualche disco che mi avevano fatto ascoltare i miei parenti o amici più vecchi di me. Da bravo adolescente avevo sempre un po’ rifiutato gli artisti che erano appartenuti alla generazione precedente.
Sta di fatto che iniziai ad ascoltare Heathen e non mi fermai più per un bel po’.
Non è uno dei dischi migliori di Bowie, anzi, era stato abbastanza massacrato dalla critica, ma non mi è mai interessato perché c’erano due cose che mi calamitavano a quell'album.
Una era che non assomigliava a nulla di quello che c’era in giro in quegli anni. Totalmente fuori contesto, un po’ moderno, un po’ classico, un po’ rock, un po’ pop. Inoltre qualsiasi cosa avessi sentito prima di Bowie aveva una connotazione precisa: elettronica, dance anni ‘80, rock anni ‘60/70, ha sempre avuto la capacità di adattarsi ai tempi e di rimanere sempre attuale, arrivando al suo apice di trasformismo con il drum n’ bass di Little Wonder. Con Heathen no, era come se avesse rifiutato quella consuetudine per cui era quello sempre al passo coi tempi. Come se avesse definitivamente rifiutato di essere percepito come un uomo senza età, eterno nella sua immagine sempre moderna e attuale, come se si fosse rotto il cazzo di dover sempre dimostrare di essere capace di reinventarsi. Hours era un primo (maldestro) tentativo di scrollarsi di dosso quell'impalcatura, Heathen era la pietra tombale sul David Bowie che tutti erano abituati a conoscere. Lo si capiva anche dal look: giacca e cravatta, un classico abito da adulto e niente di più (ma con un'eleganza che nessuno al mondo avrà mai).
La seconda era la sua voce. Cruda, scarna, una voce in cui per la prima volta si scorgevano i segni dell’età, un po’ stanca, ma proprio per quello ancora più bella ed emozionante. Per la prima volta era come se ascoltassi l’uomo dietro all’artista, nascosto per decenni sotto il trucco e i costumi. Per la prima volta avevo la percezione di ascoltare David Robert Jones invece di David Bowie. Questo aspetto abbatté ogni mia barriera nei suoi confronti e iniziai ad amarlo. Il bello di quei pezzi era la loro fragilità, il loro essere “normali”, erano canzoni di un uomo che era caduto sulla terra.
Un pezzo in particolare mi dava quell’impressione, e forse l’unico degno veramente di nota all’interno della sua carriera incredibile: Slip Away.
Una canzone commovente, in cui forse per la prima volta si sente quella drammaticità toccante e rassegnata, in cui il tempo vissuto e gli anni ormai alle spalle lasciano un solco profondo, una ferita piena di nostalgia che si può quasi toccare, che poi tornerà in pezzi come Where are we now e Lazarus. Quasi floydiana nel suo ritornello corale che ricorda un po’ le atmosfere di The Division Bell ed è un caso che il pezzo parlasse di Uncle Floyd, personaggio televisivo surreale degli anni ‘70.
Heathen non sarà il miglior disco di Bowie, anzi forse sarà uno dei peggiori nelle classifiche che riuniscono i suoi album, ma è il disco con cui ha messo le fondamenta sulle quali ha poi costruito i suoi due ultimi capolavori, The Next Day e Blackstar, ed è il suo disco al quale sono più affezionato.
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