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2 febbraio 2024

 In un momento storico in cui le nostre TV e i nostri device sono invasi dall’intrattenimento, in una lotta spasmodica a chi offre di più (dal punto di vista quantitativo più che qualitativo) il cinema torna ad essere arte e ad attirare appassionati nelle sale. 


Il merito diretto e indiretto di questa rinascita, va detto subito, è soprattutto dei piccoli cinema che con fatica in questi anni hanno puntato sulla qualità, cercando con tutte le forze di non cedere alla tentazione di accontentare il grande pubblico e di mantenere intatta una proposta coerente e costante. Passato il periodo più duro mai vissuto, chi è sopravvissuto ha iniziato a raccogliere i frutti di tanta tenacia nel 2023, dimostrando inoltre che un altro modo di vivere il cinema è possibile e anzi è necessario per farlo sopravvivere.

A riportare la qualità al cinema e a riportare le persone a cercarla sul grande schermo sono state per assurdo però anche le piattaforme di streaming che negli ultimi anni hanno cambiato radicalmente la loro strategia. 

Come in tutte le start-up, quando la luna di miele con gli investitori finisce, questi ultimi chiedono risultati e i risultati che chiedono i grandi investitori si raggiungono solo andando a cercare il grande pubblico. Il grande pubblico in poco tempo si trova inevitabilmente abbassando la qualità delle produzioni, riducendo i budget per le grandi serie e andando a rubare fette di mercato ai concorrenti, in questo caso la TV generalista, diversificando il più possibile e creando sempre più contenuti “leggeri” e di facile fruizione che possano accontentare il maggior numero di spettatori possibile.

Il cinema inizialmente ha cercato di cavalcare l’ascesa delle piattaforme, sperando di trovare un nuovo modo di arrivare agli spettatori, salvo poi accorgersi che continuando in quella direzione sarebbe stato fagocitato. 

Così negli ultimi anni si è assistito a una sempre più marcata differenziazione dei prodotti cinematografici da quelli destinati alle piattaforme, i primi sempre più lunghi, impegnativi, alla ricerca di uno sguardo originale da un lato e celebrativo dall’altro, i secondi sempre più omologati, standardizzati in una produzione in serie quasi da processo industriale. 

Al minutaggio fuori misura e alla celebrazione del “cinema”, poi è seguita la ricerca di una sorta di qualità artigianale, di una cura maniacale di tutti gli aspetti, a partire soprattutto da fotografia e musiche.

Contestualmente il pubblico si è accorto che avere un catalogo infinito a disposizione per sempre crea più confusione che altro e probabilmente ha trovato “conforto” nella programmazione dei cinema. Una scelta limitata sia nella quantità di titoli a disposizione che nel tempo in cui questi titoli rimangono a disposizione, con la garanzia che alcuni cinema offrono nella selezione dei film. Alle ore perse per scegliere una serie che nella maggior parte dei casi si rivela una perdita di tempo che richiede spesso anche due o tre puntate prima di abbandonare, inizia a preferire addirittura uscire di casa per andare a vedere quel film che ha scelto fra pochi altri e che sa non rimarrà lì ad aspettarlo per molto tempo. Un evento da condividere con altre persone sia fisicamente che nei commenti social, che riporta a un’esperienza di comunità, rispetto al guardare una serie o un film che nessuno magari in quei giorni sta guardando e ritrovarsi con un’esperienza spesso vuota, sia nei contenuti offerti, sia dal punto di vista della socialità.

Il cinema si è adattato a questa richiesta e ha fornito storie sempre più interessanti, accurate, fatte di piccoli dettagli sorprendenti, di temi profondi ma non elitari. Film che chiedono un discreto impegno e un’attenzione alta ma non impossibili da affrontare. Una sorta di nuovo cinema d’autore che ha trovato la chiave per arrivare a più persone senza compromettersi.

A gennaio 2024 arriva la consacrazione definitiva di questo modo di fare cinema o meglio la rinascita di un cinema mai morto, ma spesso dimenticato dalle case di produzione e dal pubblico, impigrito dalla retorica hollywoodiana che per anni ha spinto un certo tipo di cinema fatto di grandi budget e grandi star. In questa chiave è arrivata una programmazione forse mai vista prima di film che hanno riscosso un successo inaspettato, sfidando grandissime produzioni e film per famiglie. 


Personalmente mi sono accorto di questa tendenza quando a inizio gennaio, andando a vedere l’ultimo film di Miyazaki, Il Ragazzo e L'Airone, mi sono reso conto che tutti nella mia bolla social parlavano del nuovo film di Miyazaki, ma proprio tutti. Poi è arrivato Wim Wenders con Perfect Days e si è ripetuta la stessa dinamica, ma questa volta la bolla social ha sconfinato nel mondo reale e se ne parlava anche in ambienti che frequento, fra colleghi e amici (cosa mai vista per film di questo genere).

Credo che proprio il film di Wim Wenders sia il manifesto di questa rinascita, un film che ha portato il tutto esaurito nelle sale con silenzi ostentati, piccoli gesti e una delicata lentezza, fino ad arrivare a dominare il botteghino (!!) in Italia, scalzando proprio Miyazaki che lo era fino a un paio di settimane prima con il suo film più complesso e metafisico, incassando nel mondo più di 13 milioni di dollari.

Nel 2023 a lanciare la volata è stato forse Anatomia Di Una Caduta di Justin Triet (Palma D’Oro a Cannes), poi sempre a gennaio è arrivato Come Foglie al Vento di Kaurismäki, Povere Creature di Lanthimos, a metà febbraio arriverà Past Lives di Celine Song, che certamente proseguirà una serie positiva che credo abbia pochi precedenti.



Le persone che anni fa si sono spostate per prime sulle piattaforme streaming (Netflix in particolare) alla ricerca di una qualità che la TV non forniva più e il cinema relegava ai margini, oggi stanno tornando, o sono già tornate al cinema per lo stesso motivo. 

C’è infine un aspetto prettamente tecnico dietro a questo ribaltamento di fronte, ovvero la debolezza dell’algoritmo delle piattaforme streaming contrapposta all’efficacia delle sponsorizzazioni social/internet delle case di produzione in compartecipazione con le care e vecchie sponsorizzazioni analogiche su manifesti e giornali (queste ultime tornate di moda anche nel mondo della musica). 

Mentre l’algoritmo non fa altro che proporre esclusivamente contenuti simili a quello che abbiamo già visto, generando una serie di proposte fotocopia a volte anche piuttosto grottesche, le sponsorizzazioni di determinate case cinematografiche o distribuzione riescono a targettizzare gli appassionati usando come filo conduttore la qualità delle loro produzioni racchiuse in un certo tipo di cinema che però non rimane settorializzato in un unico genere o in un unico standard di produzione. Associata poi alle immagini delle locandine viste nel mondo reale, si crea un'affiliazione e una memoria visiva che riesce a far nascere la voglia di partecipare a questo rito della sala cinematografica.

Ricollegandomi al mondo musicale citato poco sopra poi, c'è da dire che le analogie sono molte con le dinamiche di questi ultimi anni e probabilmente è in atto una maintremizzazione del cinema “indie” come quella che ha attraversato la musica negli scorsi anni, guardacaso anche qui durante il picco di espansione delle piattaforme streaming. 

Un merito vero in questa rinascita però c'è l'hanno anche le piattaforme, ovvero quello di aver abituato il pubblico a stili e culture cinematografiche differenti, a produzioni provenienti da ogni parte del mondo, scardinando la centralità e il monopolio di Hollywood, che negli anni precedenti aveva allontanato le persone dal grande schermo. 



14 settembre 2020



Nutro una specie di allergia verso le serie TV spagnole. "Non hai visto La Casa Di Carta??" "No". Quante volte ho dovuto rispondere a questa domanda. "Ma se non l'hai vista come fai a saperlo?". Ho visto qualche pezzo di episodio e ho capito che non è roba per me. In generale qualsiasi cosa che arrivi dalla Spagna ha sempre quel retrogusto di Paso Adelante che non riesco a digerire.

Non The Head però.

Erano già alcune settimane che cercavo qualcosa da guardare, ma le produzioni di Netflix negli ultimi tempi sono diventate il corrispettivo digitale della Fininvest degli anni '80, intrattenimento puro, leggero e popolare, che per carità non c'è nulla di male, ma non è quello che cerco. Prime invece come al solito mantiene un profilo un po' più "alto" ma non ha la potenza di fuoco del suo concorrente, quindi non si trovano spesso novità. Inoltre quando ne trovi, imbarcarti in una serie con puntate da un'ora, se non ti convince a pieno la sinossi, è abbastanza impegnativo, anche se di solito poi premia sempre.

Erano un po' di settimane che passavo sopra a The Head, pensando che fosse un po' un pacco, una serie a basso costo con attori di seconda/terza fascia buona per rimpolpare il catalogo di Prime e poco più. Ma difficilmente Prime fa operazioni del genere, quindi dopo lo scetticismo iniziale, complice qualche mattinata libera ho preso coraggio e mi sono buttato nelle sue sei puntate da circa un'ora.

Probabilmente non l'avrei fatto se avessi saputo che era una serie spagnola.

La storia è molto semplice: una stazione di ricerca nel mezzo dell'Antartide, l'inverno con la sua l'oscurità costante, nove persone dal profilo psicologico non proprio integro e una tragedia comune alle spalle, cosa mai potrà andare storto?

The Head è quello che in gergo si chiama survival thriller, ma fin da subito manifesta un'altra caratteristica forse più adatta a descriverlo ed è quella del thriller psicologico. La serie scava dentro la mente dei suoi protagonisti, dove sotto una superficie apparentemente chiara e liscia si scoprono via via crepacci piccoli o grandi nei quali l'oscurità regna sovrana, fino a scoperchiare veri e propri buchi neri che inghiottiscono tutto.

L'inizio è dei più classici, una festa per salutare l'ultimo giorno di luce, tutti felici e contenti, in armonia. Sorrisi, balli, iniziazioni per i nuovi arrivati, ovvero la visione di The Thing di Carpenter (ma nella serie non c'è nulla di "paranormale") per impressionarli e la più classica prova di forza: passare seminudi dalla sauna all'esterno e affrontare un'escursione termica di 50 gradi. Subito però qualcosa si incrina, apparentemente per una banale questione, ma in realtà è un primo segnale di quello che sta covando sotto la superficie. Non posso andare nello specifico perché qualsiasi descrizione più accurata con il succedersi delle puntate potrebbe farvi intuire qualcosa e rovinarvi la sorpresa.

Fin dalle prime immagini la serie riesce a trasmetterti una tensione costante, palpabile, la sensazione che da un momento all'altro possa succedere di tutto, cosa che puntualmente poi accade. 

Su due cose però ci avevo preso, effettivamente non è una produzione faraonica, è girata quasi interamente nella stazione di ricerca, ricostruita all'interno di un grande edificio a Tenerife e in Islanda per le poche scene in esterna. Inoltre gli attori non sono nomi di alta fascia, ma risultano molto adatto nel loro ruolo. Anche l'espediente narrativo non è dei più originali, basato sui flashback dei sopravvissuti, ma tutto funziona alla perfezione e la serie sa tenerti incollato con una attenta ricostruzione degli eventi che non rivela nulla di più di quello che serve, fino alla fine.

Riguardo agli attori, nonostante il più citato sia Alvaro Morte (sì quello de La Casa Di Carta), i veri protagonisti sono altri. Il ruolo più difficile è affidato a John Lynch (forse unico attore con esperienze di livello nel cast), il Paul Hill di Nel Nome del Padre o il marito di Gwyneth Paltrow in Sliding Doors, oltre a molti altri ruoli da non protagonista. Ma la cosa più curiosa è che Lynch è già stato recentemente prigioniero dei ghiacci per interpretare John Bridgens nella serie capolavoro The Terror.

Insomma per una volta l'effetto Paso Adelante non solo non si è fatto sentire, ma mi tocca proprio ricredermi sulle produzioni spagnole: The Head è un thriller forse non perfetto tecnicamente ma dove tutto è al posto giusto e fa quello che deve fare un thriller: tenerti costantemente con il fiato sospeso.

E comunque no, non guarderò La Casa Di Carta.



16 maggio 2017



Com'è Alien: Covenant? Domanda difficile, partiamo dalle cose semplici: a me è piaciuto e il giorno dopo ci sto pensando parecchio. Quando un film non finisce al cinema, ma te lo porti dietro per tutto il giorno successivo pensando e ripensando a quello che hai visto, nel 99% dei casi è perché è un ottimo, o un buon, film con molte chiavi di lettura.Mi ha lasciato delle domande alle quali non è semplice rispondere subito.



Alien Covenant se affrontato guardandone solo la superficie può sembrare un film banale, senza nulla di nuovo. Ma la fantascienza non ha nulla di veramente nuovo da offrire da decenni, ed è quello il suo bello.
Il nuovo capitolo della saga riprende la filosofia di Prometheus: la ricerca di Dio, dei creatori, le risposte alle domande fondamentali dell'umanità. Lo fa però in maniera meno "istituzionale" rispetto al predecessore, riportando l'impianto della storia a una trama più classica e "pop".
Non per questo però si può ridurre tutto a film horror o di azione. Covenant porta a un livello superiore le questioni emerse nel primo capitolo, mostrandoci qualcosa che non sapevamo, ma lasciando molte domande su alcune questioni irrisolte. Per farla breve, la domanda "Perché gli Ingegneri ci hanno creato e ora vogliono distruggerci" rimane inevasa.
La cosa che lascia l'amaro in bocca è che di Ingegneri non se ne vedono, se non per pochi secondi di flashback, a parte la distesa di cadaveri. Il primo aspetto del film che cambia le carte in tavola è che quelli che pensavamo essere i "cattivi" di questa nuova "serie", si rivelano vittime.
Vittime indirette delle creazioni dell'uomo, che verosimilmente gli stessi ingegneri volevano distruggere con i virus delle loro navi.
Il fulcro del film è la sequenza iniziale fra creatore e creatura. Fra il "Padre" e David. Le domande che pone l'androide al suo creatore, sono le stesse che che si fa lui stesso. "Se tu hai creato me, chi ha creato te?". Se tu sei Dio per me, chi è Dio per te. In tutta la storia, la creazione, le implicazioni del creare forme di vita sono un tema centrale. La madre, il padre, Dio, sono temi fondamentali di tutti gli Alien.
La storia però prende una piega che è del tutto inedita.
L'androide in tutti i film è stato sempre l'elemento destabilizzante, il catalizzatore degli eventi catastrofici e delle morti dei vari equipaggi. Ma fino ad oggi quegli androidi erano stati programmati per farlo.
In Covenant, David, l'androide troppo simile agli umani che ha costretto a una modifica nelle versioni successive, possiede una sorta di libero arbitrio. È stato creato per poter creare, per creare arte, bellezza, ma esattamente come l'uomo, nello stesso modo in cui può creare bellezza, può creare anche distruzione.
Si ha quindi una proprietà transitiva, per cui l'uomo si sente come Dio, l'androide è stato creato per essere del tutto simile all'uomo, pertanto anche l'androide si sente Dio.
Ma c'è anche un altro aspetto. David soffre di una profonda sindrome di inferiorità, perché sa che non potrà mai provare quello che provano gli uomini. La sua ricerca ossessiva del bacio, la sua ostinazione nel parlare dell'amore fanno capire che soffre la sua condizione. Ha un profondo sentimento di rivalsa e di odio per chi gli ha dato la vita, ma non gli ha permesso di vivere veramente come un essere umano.
Questo alimenta la sua incredibile follia, la sua cattiveria verso qualsiasi cosa che non sia stato creato da lui e verso chi lo ha creato, direttamente o indirettamente.
L'alieno vero è una macchina creata dall'uomo e lo xenomorfo, fino ad oggi creatura orribile (in realtà bellissima) e misteriosa la cui origine non è mai stata scoperta, non è che un'altra arma di distruzione creata indirettamente dall'uomo. Anzi, creata dall'uomo (attraverso l'androide), perfezionando un'arma voluta dai suoi creatori per distruggerlo.



L'errore più banale che si può fare valutando questo film, è ridurre tutto alla paura dell'alieno, agli elementi che ancora una volta si ripetono. Mentre la trama base del film rimane familiare, astronave > alieno> pianeta sconosciuto> equipaggio che muore> Alien che in qualche modo sopravvive, tutto il resto intorno muta in modo irreversibile.
Altro errore che si può fare è valutare questi due film come due capitoli separati. La nuova tetralogia è da vedere come un unica opera, e nei prossimi gli Ingegneri torneranno sicuramente. Forse capiremo molto di più di cosa è successo prima che le loro navi partissero e perché David abbia scelto di sterminarli tutti appena arrivato sul loro pianeta.
Ultima considerazione, e lo dico un po’ a malincuore, in questi due film gli Alieni risultano marginali, sono “solo” creature che abitano mondi diversi dal nostro, non sono più l’elemento fondante della trama. La storia viaggia su un altro livello ma utilizza gli alieni per infondere paura e probabilmente si reggerebbe anche senza di loro.
Infine una critica, netta, alla colonna sonora. Non si può guardare un film come Alien con una colonna sonora che sembra uscita da Superman o Star Wars. Il tema scelto è di una banalità sconcertante e rovina l’atmosfera ogni volta che arriva alle orecchie.

31 gennaio 2016



Com'è The Hateful Eight?
Non si può rispondere a questa domanda con una semplice risposta, perché l'ottavo film di Tarantino è tante cose, molte negative, senza comunque essere un cattivo film.
Se guardiamo al suo passato, la caratteristica principale di Quentin è sempre stata quella di cambiare a ogni pellicola. Cambiare tema, storia, ambientazione, se Tarantino è diventato Tarantino è perché si è sempre messo in gioco e ha sempre pescato una carta che nessuno aveva nel mazzo. Mentre tutti si aspettavano il seguito del precedente film acclamato senza alcuna riserva, lui stupiva tutti con qualcosa di completamente diverso. Facendo una trasposizione in musica, sarebbe una di quelle band che cambia ad ogni disco, rimanendo sempre sé stessa, le band che in assoluto preferisco. 
Se andiamo a vedere, da Le Iene a Django Unchained sono passati vent'anni esatti, vent'anni in cui non si è mai ripetuto, mantenendo sempre un altissimo livello. 


Dopo vent'anni di film tuttavia penso che the Hateful Eight sia il suo primo passo falso, attenzione però, non sto dicendo che sia un brutto film.
Credo sia un passo falso perché è il suo primo film che ricalca il genere e le ambientazioni del precedente. Il primo in assoluto, e non basta il suo amore per il western a giustificarlo e neanche il suo amore per le autocitazioni. Perché qui il confine dell'autocitazione viene sorpassato, per dirlo senza filtri è un Le Iene con un'altra ambientazione. La storia è differente, quello che lega i personaggi è differente, ma la sostanza è la stessa. 
The Hateful Eight è il primo film in cui ho visto un Tarantino seduto, comodo ma non stanco, perché la qualità comunque è sempre alta, ma senza più voglia di stupire.
Ma allora com'è The Hateful Hate?
Innanzi tutto l'ho visto durante la settimana di anteprima all'Arcadia di Melzo (MI), con tutte le specifiche richieste dal regista. Ovvero, proiezione del film in pellicola Ultra Panavision 70mm (con la quale è stato girato), overture musicale in apertura a cura di Morricone, scene in più e pausa di 12 minuti verso la metà del film, con tanto di libretto con programma di sala e descrizione delle specifiche tecniche del film. Per cui la percezione che ho avuto io del film con tutta questa cerimonia, potrebbe essere differente da una normale serata al cinema. 

Il film è diviso in sei capitoli, ma nella sostanza sono due parti: la prima molto lenta, la seconda più "tarantiniana".
Mi vorrei soffermare un attimo su quel "molto lenta", perché se il Tarantino che avete in mente è quello di Pulp Fiction o di Kill Bill, dimenticatevelo, questo è un Tarantino che chiede un po' più di impegno e di pazienza.
Non vi fate incantare dalle ambientazioni che avete visto nel trailer perché di quei paesaggi innevati si vede veramente poco, pur riuscendo a dare una rappresentazione del freddo quasi palpabile, e in questo la famigerata pellicola Panavision 70 mm ha aiutato molto.



A proposito ma com'è questa pellicola? Direte voi. Non è una cosa che fa gridare al miracolo, ma rispetto al digitale a cui ormai siamo abituati ha dei colori molto più naturali (e più belli secondo me), meno "disneyani". Ha una definizione altissima (dicono superiore al 4K) e lo si può apprezzare al meglio durante un primissimo piano di cavalli in corsa all'inizio del film, dove sembra quasi che escano dallo schermo. 

Il film si svolge quasi totalmente in un ambiente chiuso, una carrozza prima e poi per la maggior parte del film in un emporio, dove i protagonisti si trovano a rifugiarsi durante una tormenta di neve. La spina dorsale sul quale si sviluppa tutto sono i dialoghi, come spesso accade per Quentin, in questo caso però è proprio l'unica cosa che tiene in piedi il film, potrebbe essere benissimo una pièce teatrale. Qui c'è il secondo punto sul quale il regista, in questo caso sceneggiatore, è sembrato un po' debole, perché troppo spesso si ha la sensazione che ci sia troppa ridondanza, che manchi un spunto brillante, soprattutto sulla prima parte.
Chiariamoci, se Tarantino avesse voluto fare un film "impegnato", per usare un termine che per noi italiani troppo spesso è sinonimo di lentezza e noia, sarei stato il primo sostenitore, perché avrebbe significato una nuova sfida per lui. In questo caso avrebbe potuto alzare l'asticella e inaugurare un nuovo corso dela sua carriera. Invece sembra non voler mettere eccessivamente alla prova il suo pubblico, cambiando totalmente registro nella seconda parte nella quale spari, morti, sangue e splatter tornano assoluti protagonisti.
I personaggi sono i soliti grandi personaggi, così come gli attori che come sempre sono quasi tutte sue vecchie conoscenze, ma anche qui nella caratterizzazione di alcuni forse manca qualcosa.

Finite le critiche però, vi posso dire che the Hateful Eight rimane comunque un gran film, imponente, maestoso, e molto difficile da realizzare per le sue caratteristiche. Sicuramente da vedere se siete fan, comunque interessante e inusuale per chi invece non ha sempre apprezzato i suoi lavori.

Molto interessante anche l'analisi storico/politica che traspare nei racconti dei protagonisti sulla guerra civile, durante la quale molti neri americani imbracciarono le armi nelle file dei nordisti. Altro tema ripreso con forza da Django Unchained, ma presente in quasi tutti i suoi film è la questione razziale americana, che qui forse è ancora più forte del precedente film, soprattutto perché inserita in un contesto storico molto controverso per gli Stati Uniti.
È un film che offre moltissimi spunti di discussione e di riflessione, ma che a mio parere per la prima volta da quell'impressione di già visto, già sentito. Ho la sensazione che potrebbe dare il via alla divisione della sua carriera in "avanti Django" e "dopo Django", identificando il ventennio '92-'12 come il periodo d'oro di Tarantino.
Lo scopriremo eventualmente con il prossimo capitolo della sua carriera, se saprà stupirci ancora questo articolo sarà qui a testimoniare il mio errore e sarò il primo ad esserne felice. Ma se invece la mia sensazione è corretta e come spesso accade a molti artisti, inizierà la sua stagione di ritorno alle origini, film che riprendono più o meno dichiaratamente lavori del passato, secondi capitoli, reboot, o semplicemente brutti film; The Hateful Eight sarà inevitabilmente identificato come l'inizio del suo declino.







5 dicembre 2015


Cosa aspettarsi da "A Very Murray Christmas"?
Da superfan di Bill Murray non ho aspettato un secondo per vedere il film (che poi in realtà è un corto) di Bill Murray prodotto da Netflix. L'ho visto senza avere la minima idea di che cosa fosse, e quando c'è di mezzo Bill Murray c'è da aspettarsi di tutto.
Questa volta ha stupito ancora, con la cosa più semplice del mondo. Cos'è il Natale? Facile, le canzoni di Natale.
I primi cinque minuti di film vien voglia di passare ad altro, sono sincero, non si capisce cosa sia e dove voglia andare a parare, ma quando ci si abitua all'idea che non è altro che una carrellata di canzoni di natale legate da una trama ridotta a pochi secondi, A Very Murray Christmas diventa una delle cose più natalizie di tutti i tempi.
La storia è semplice quanto minima: Bill Murray deve condurre uno show per Natale, ma New York è completamente bloccata dalla neve e gli ospiti non ci sono. Da questo pretesto si sviluppa una carrellata di canzoni di Natale, che per quanto detto così possa sembrare una cosa pallosissima alla fine Bill riesce a tirare fuori, non so come, un film che scalda il cuore.
Gli ospiti lo aiutano molto, per citarne un paio, i Phoenix, George Clooney e Miley Cyrus che stranamente non lecca nulla. Anzi, se ancora ci fossero dubbi, fa capire quanto sia maledettamente brava, facendoti rizzare i peli con una Silent Night da paura, ve lo dice uno che non ha mai sopportato molto le canzoni di Natale.
A Very Murray Christmas è un film da mandare in loop dalla vigilia al giorno di Natale, per sentire alcune fra le più belle e meglio eseguite canzoni di Natale di sempre. L'essenza sta tutta nel titolo, Bill Murray vi augura un Natale alla sua maniera, e mai augurio è stato più sincero e caldo come il suo, sembrerà quasi di averlo in casa a pranzare o a cenare con voi.
Dimenticavo, ad accompagnare tutte le canzoni c'è Paul Shaffer al piano, proprio lui, che, nel caso non vi foste accorti durante le migliaia di puntate di Letterman, è un musicista immenso.

20 novembre 2015


Nel pomeriggio di ieri vengo a conoscenza del fatto che a Macao (Milano) proiettano Ellis, un corto di JR con Robert De Niro e colonna sonora di Woodkid e Nils Frahm.
Pur non trovando nessuno che mi accompagni decido di andare comunque, perché essendo un corto potrebbe essere l'unica possibilità di vederlo proiettato in una sala (non una sala professionale ma sempre meglio del televisore di casa).
Ammetto di essere stato attratto più dalla colonna sonora che dal film in sé, che comunque sapevo essere un corto di gran livello.
Sì è rivelata una scelta giusta, perché Ellis è effettivamente un corto di grande intensità.
Il tema, come si può dedurre dal titolo è quello dell'immigrazione, tutto il corto è girato a Ellis Island, all'interno delle stanze che videro transitare circa quattro milioni di italiani nel corso degli anni in cui l'isola era tappa obbligata per chi voleva approdare in America.
Il film si snoda fra una fotografia che lascia senza fiato e la voce fuori campo di Robert De Niro che racconta la "sua" storia di migrante. Mentre la sua voce racconta la storia, l'attore cammina all'interno delle stanze con una valigia, interpretando una sorta di ritorno in un luogo pieno di ricordi che lo hanno segnato. All'esterno è tutto ricoperto di uno spesso strato di neve e il fiato all'interno dell'edificio, si condensa in spesse nuvole. Per tutto il film il Robert attore non parla mai, se non una piccola, commovente, frase che è in sostanza il fulcro di tutto il film.
Ci sono due sequenze che lasciano letteralmente senza fiato: la prima è quando De Niro entra in una stanza molto ampia, sul cui pavimento sono adagiate migliaia di foto di persone, i volti dei migranti, di ogni razza e di ogni colore, la seconda è una sequenza in bianco e nero, molto Woodkidiana, durante la quale esce all'esterno e si incammina nella neve verso il mare grigio.
Visto il tema e il periodo forse un approccio un po' più deciso avrebbe colpito di più,  ma la scelta è quella di un lavoro più concettuale che di denuncia, qualcosa che si deposita con delicatezza nella coscienza e rimane lì per crescere. Del resto basta un immagine di Manhattan ripresa da Ellis Island per capire la sofferenza e la frustrazione dei migranti bloccati a un passo da una nuova vita, lì di fronte a loro, vicinissima a patto di passare i controlli sull'isola, altrimenti irraggiungibile.
In tutto questo la colonna sonora è un elemento determinante per l'emotività che il film vuole trasmettere e inaugura una collaborazione che, visti i risultati, mi auguro possa continuare a lungo.




8 ottobre 2013

Gravity di Alfonso Cuaron è decisamente il film del momento. Arrivato nelle nostre sale con un hype già altissimo, dopo la presentazione al Festival di Venezia e dopo il successo negli States, è stato accolto anche qui con un successo incredibile per un film di fantascienza in Italia.
E' stato il film che ha incassato di più in questo week end appena passato.





Che poi "fantascienza"... parliamone.
"Gravity" è la fantascienza senza tutto quello che rende interessante la fantascienza. E' la fantascienza senza tutto il suo carico di aspetti psicologici, sociologici, visionari, allucinati, che sono la spina dorsale di quel genere. Non si può ridurre tutto a 4 effetti speciali e una storia da mulino bianco.
Quindi per quel che mi riguarda "Gravity" non sarebbe neanche da inserire nel genere.

Per citare il commento lapidario della mia metà all'uscita del cinema: "E' il solito film della Bullock".
Prendete "Speed" e mettetelo nello spazio. Avrete Gravity.
La  donna "qualsiasi" catapultata in una situazione assurda, che riesce a superare tutte le difficoltà in maniera altrettanto assurda.

Ecco, la Bullock... parliamone.
Non c'era proprio un'altra attrice disponibile per questo film?
Molti hanno parlato di una prestazione sopra la media (la sua, spero), io ho visto solo una maschera di botox e ritocchi vari, sopra ad un volto già di per sé molto poco espressivo. Se una roba tipo questa per 90 minuti è una prova sopra la media, o una prova di una brava attrice (come ho letto da qualche parte) non so quale abominio possa essere un'attrice scarsa.

Le produzioni dovrebbero vietare per contratto i ritocchi facciali e le punturine. Un attore o un'attrice che non riesce a muovere la faccia, non è un attore.
Per tutta la durata della pellicola non riesce in alcun modo a trasmettere la tensione che pervade invece tutto quello che la circonda, e diciamolo, doveva fare solo quello.
Oltretutto l'unico dei due che poteva dare un po' di spina dorsale al film viene relegato al ruolo di giullare volteggiante. Clooney è veramente fastidioso e il suo personaggio risulta forzatamente "stupido", il suo ruolo non è altro che quello di rendere subito "leggero" il film per il grande pubblico. 




Arriviamo ai personaggi... parliamone.
Su questo aspetto sono d'accordo col "collega" Manq che però ha un giudizio diametralmente opposto al mio riguardo al film.
Due soli attori per tutto il film, anzi per metà film perché per la restante metà rimarrà la Bollock da sola a sostenere tutto l'impianto. Due personaggi costruiti male e sviluppati peggio. Le prerogative di Ryan erano molto valide. Una dottoressa mandata nello spazio con un passato difficile a causa di un lutto che deve ancora superare erano un ottimo punto di partenza per il suo sviluppo.

Ma tutto l'aspetto psicologico del personaggio, viene solo accennato, annacquato e volutamente reso "holliwodiano": ti faccio intravedere un aspetto brutto brutto della vita, ma senza calcare troppo la mano se no mi diventa pesantino, e non sia mai, ma soprattutto ti piazzo un super lieto fine obbligatorio, pena l'esclusione a vita dagli studi di L.A.

Come ho già detto prima, a Clooney viene riservato il ruolo del pupazzo comico Disney/Dreamworks, quelli che vengono infilati in ogni cartone per vendere gadjet, far ridere i bambini e rendere il cartone il più leggero e spensierato possibile.

Avete presente "Scrat" nell'Era Glaciale, o i Minion di Cattivissimo Me, o i Pinguini di Madagascar... ecco Clooney fa il "Pinguino" di "Gravity".

Dal punto di vista visivo sì, è spettacolare, ma quale regista (degno di questo ruolo) non riuscirebbe a fare qualcosa di spettacolare con a disposizione un budget del genere, con un'ambientazione così, e con degli effetti speciali curati da Framestore (Avatar vi dice nulla?)?

A proposito di Avatar, pare che la lezione di Cameron non sia stata assimilata se non da pochissimi.
Un film in 3d per funzionare al meglio, deve essere concepito, pensato e strutturato usando come base quella tecnica. Cuaron ci ha provato ad assimilare quella lezione con risultati buoni, ma secondo me con quel materiale a disposizione poteva essere fatto anche qualcosa in più, non mi esprimo nello specifico perché il giudizio su questo aspetto viene condizionato troppo dalla qualità della sala in cui si guarda il film. Personalmente l'ho visto all'Arcobaleno di Milano, non il top del top della tecnologia, ma neanche l'ultimo degli stronzi (cit.).

Del film alla fine resta una grande e indubbia spettacolarità visiva, e la grande tensione della prima parte, ma a mio avviso è una grande occasione sprecata.
Con una storia un po' più sostanziosa (ma neanche troppo), degli attori degni di questa definizione e una cura dei personaggi almeno decente, sarebbe stato un capolavoro assoluto.

Non mi soffermo sulle incongruenze scientifico/fisiche del film perché non ha senso, la fantascienza è costruita su l fantastico (guarda caso) e sulla libera interpretazione delle leggi della fisica, non ha senso criticarne un film per quegli aspetti.

Non nego che la scena della distruzione della ISS è qualcosa di incredibile, quasi viene da schivare i pezzi dei satelliti, così come altri momenti in cui la resa spaziale dell'inquadratura è veramente notevole e coinvolgente.



Ma non si può gridare al capolavoro solo per l'uso spinto del piano sequenza e per la soggettiva dal casco dell'astronauta. Un film con questo livello di partenza deve essere molto di più, a maggior ragione se si tratta di fantascienza, dove l'utilizzo degli effetti speciali tende distogliere l'attenzione da tutti gli altri aspetti fondamentali che fanno parte della creazione di un grande film.

Gravity lascia il rimpianto di quello che potrebbe essere stato se dietro la macchina da presa ci fosse stato Duncan Jones (guardate in "Moon" cos'è riuscito a fare con un unico attore, un attore vero, e con un budget che è un unghia di quello a disposizione di Cuaron) o Neil Blomkamp, giusto per fare i nomi di due registi "nuovi".

Se quello che volete è un'esperienza visiva d'impatto piena di effetti  speciali, andate a colpo sicuro a vedere questo film, ma con Cuaron, Gravity diventa una fantascienza edulcorata dai suoi aspetti meno appariscenti ma più interessanti, lasciandoci solo con uno slavato e banale "sci-fi for dummies".






28 maggio 2013

Sabato pomeriggio ero alla ricerca di un film interessante da andare a vedere la sera stessa. In questo periodo in cui molti dei film di  Cannes non sono ancora usciti c'è veramente poco in giro, e guardando la programmazione delle sale a Milano, i titoli erano sempre gli stessi quattro o cinque in tutte le sale.
Per fortuna c'è il circuito Spaziocinema che, insieme a pochi altri, riesce a offrire sempre qualcosa di diverso. Fra i vari film, un titolo dell'Apollo non programmato in nessun'altra sala ha catturato la mia attenzione: Confessions.





Sono andato subito a cercare su Filmscoop.it e ho scoperto che il film in questione poteva essere una bella sorpresa. Così è stato.

In Italia è fuori dal 9 maggio 2013, ma in realtà si tratta di un film del 2010 che nel 2011 è arrivato vicino alla candidatura per l'oscar come miglior film straniero e  ha vinto il Black Dragon Audience Award al Far East Film Festival. 

Il film si apre con un'insegnante delle scuole medie che parla a una classe disattenta e indisciplinata che non le presta minimamente attenzione.
La situazione cambia repentinamente però quando Yuko Morimuchi, questo il nome dell'insegnante, annuncia di voler lasciare il mestiere. Questo non è che il pretesto per annunciare qualcosa di molto più importante e grave. Inizia così un racconto, un monologo che trascinerà la classe in uno scenario inaspettato, insieme alla classe il pubblico viene accompagnato direttamente nel cuore della trama dalla voce dell'insegnante: sua figlia Manami di 4 anni è stata uccisa, e gli assassini si trovano proprio all'interno di quell'aula.

Ma non si tratta di un giallo
, il regista e sceneggiatore Tetsuya Nakashima è molto bravo a portare subito il suo film fuori dagli equivoci.

Infatti quelli che vengono chiamati dall'insegnante "Soggetto A" e "Soggetto B"non tardano molto ad avere un'identità, portando immediatamente il film a uno stadio successivo: lo scopo del gioco non è scoprire l'assassino, ma è scoprire fino a che punto una persona può spingersi se è perseguitata dal rimorso, dal desiderio di essere accettata e amata, e dal desiderio di vendetta. Come persone, ragazzi ingenui e privi di una personalità forte, apparentemente innocenti e puri, possano diventare veicolo di atti di una violenza estrema e possano scivolare facilmente in un oblio di nichilismo autodistruttivo e distruttivo per le persone che li circondano.

L'insegnante dopo aver confessato alla sua classe (intenta a bere del latte) di sapere chi sono i due assassini, annuncia che il latte dei due è stato contaminato con del sangue infetto da HIV, scatenando il panico.
Yuko Morimuchi, fino a quel momento identificabile come "buona" e come vittima, passa improvvisamente dalla parte del carnefice e da quel momento tutti i personaggi coinvolti saranno in bilico fra i due ruoli, e quel confine verrà continuamente sorpassato.
La confessione dell'insegnante è la prima di cinque, le quali mostreranno diversi punti di vista della storia: la capoclasse, il soggetto A, il soggetto B, la madre del soggetto B.























Tutti hanno colpe, tutti sono vittima di qualcuno.
Persino il professore che arriverà a sostituire l'insegnante, ignaro di tutto quello che è successo prima del suo arrivo, si presenta carico di buona volontà, di voglia di fare al meglio il suo mestiere, di aiutare i suoi alunni. Ma anche la sua bontà ostentata sarà causa di avvenimenti tragici, a sua insaputa.
La madre di Shuya, il soggetto A, è causa  della personalità disturbata del figlio, abbandonato per inseguire le sue ambizioni, ma sarà vittima dello stesso. La madre del soggetto B, Naoki, con il suo amore ai limiti della follia che le nasconde la vera natura di suo figlio sarà sua vittima. La capoclasse Mizuki, dietro una facciata da alunna modello, nasconde un'anima torbida, e una passione malsana per la morte e per il suicidio. Sarà l'unico appiglio a cui si aggrapperà Shuya, ma la sua natura la tradirà nel momento sbagliato.






















Queste relazioni disturbate culminano in un'esplosione finale, reale e metaforica, in cui la fotografia diventa veicolo di un flusso di sentimenti contrastanti e nella quale la resa dei conti non è così chiara e definitiva come ci si potrebbe aspettare e come si vorrebbe.




La fotografia è una parte fondamentale di questo film, le sequenze rallentante, le inquadrature inusuali, la tendenza a creare veri e propri quadri, con uno stile che richiama alcune tecniche usate spesso in videoclip musicali, sono una caratteristica che salta subito all'occhio.
Ma quello che stupisce è il fortissimo equilibrio e la forza dei vari elementi che si fondono insieme. Una grande fotografia è unita a una bellissima colonna sonora, usata in maniera impeccabile, con pezzi (fra i quali spiccano Radiohead e XX) che non sono un semplice sottofondo, ma vanno a disegnare la scena e a dargli un'atmosfera e una caratterizzazione palpabili, che avvolgono totalmente lo spettatore. Tutto questo è unito a una sceneggiatura curata e originale senza essere sopra le righe. Riesce a rimanere sempre funzionale al racconto e a dare un ritmo continuo, pur essendo destrutturata in 5 parti diverse. Tutto questo in aggiunta a un cast veramente azzeccato, a partire da Tokako Matsu, perfetta nel rendere al massimo il volto pieno di inquietudine, sottile odio e astuzia di Yuko Morimuchi.
Molti l'hanno definito un revenge movie, ma è molto di più, è un film drammatico, psicologico, la vendetta è solo un pretesto per analizzare nel profondo l'animo umano, nel quale ognuno è lo yin e lo yang di sè stesso.




Da tempo non mi capitava di vedere un film così sorprendente e stimolante, pieno di spunti, di immagini spettacolari, di frasi e scene che fanno riflettere: uno di quei film con una "coda lunga", che rimane impresso per molti giorni e ti costringe a ripercorrere le sue diverse fasi cercando di trovare particolari che non si erano notati.

E' curioso notare come la locandina e il trailer italiani siano profondamente diversi da quelli internazionali. Nella versione italiana il film è presentato quasi come un manga:




Questo invece è il trailer originale: