29 ottobre 2013





E' il momento della verità anche per Miles Kane, pacco o certezza? Illustre raccomandato (da Alex Turner) di passaggio o destinato a diventare e rimanere il nuovo capo del fù Brit Pop?

Il nuovo disco "Don't Forget Who You Are" può essere un buon elemento per dipanare questi dubbi, o forse no.
Innanzi tutto si presenta molto più diretto e tirato del suo debutto. La lieve componente garage rock che si sentiva in "Colour of the Trap" sparisce nei suoni, lasciando spazio a suoni più brillanti e definiti, ma si manifesta in riff più taglienti e in canzoni molto più dirette e meno arrangiate.

Ascoltando il secondo disco di Miles Kane si ha la netta impressione che sia stato forgiato durante il lungo pellegrinaggio sui più grandi palchi d'Europa fra festival e date di supporto agli Artic Monkeys.

Sembra un disco fatto apposta per far esplodere il pigro pubblico dei pomeriggi festivalieri.
Un disco carico e divertente, un disco che se siete a una festa che ha preso una brutta piega, potrebbe raddrizzarvela nel giro di mezz'ora, con tanto di lento da limone nel mezzo. Oppure da ascoltare durante una vacanza in macchina, o durante un giro in bici in città in una giornata primaverile.

L'apertura è affidata a "Taking Over", un pezzo che parte con un riffone blues, cupo e sinuoso per poi aprirsi a ventaglio su un ritornello molto pop che ricorda alcuni suoi predecessori, per poi cambiare ancora sullo special con un bel riff stop n' go di chitarra. Decisamente un ottimo inizio. Si prosegue con la title track che riprende le atmosfere western già sentite sul disco dei "Last Shadow Puppets" per poi ricalcare l'apertura del precedente su un ritornello fatto apposta per essere cantato in coro, con tanto di "la lalalalala""Out of Control" è un altro riempipista irresistibile, ma tutto il disco è formato da canzoni che non dovrebbero mai mancare nella playlist di un dj indie-rock.



Gli unici due momenti per poter fare la fila al banco del bar o per avere un contatto ravvicinato con la tipa che state broccolando da quando siete arrivati sono "Out of Control", una classicissima ballad brit pop, e "Fire in My heart" un pezzo chitarra acustica e voce, con un piano a impreziosire il tessuto sonoro e un batteria leggerissima in sottofondo. Sono rispettivamente la traccia 4 e 8, anche le tempistiche della tracklist sembrano fatte apposta...

Per il resto il piede rimane pigiato sull'acceleratore. Se cercate brit pop, rock da ballare, se siete fan di Oasis, Blur, Kasabian, dei primi Artic Monkeys, ma anche dei Jam, Suede, Verve, Pulp, Stone Roses... insomma, ci siamo capiti, "Don't Forget Who You Are" diventerà una costante nei vostri ascolti e con questo disco Miles Kane conferma di poter essere un punto di riferimento per il futuro di quel tipo di musica senza però diventarlo. 

Sarebbe scontato dire che è un disco derivativo, perché è tutto il genere che è derivativo, e da sempre rimane più o meno uguale a sé stesso. E' anche questa la sua forza e il motivo per cui dopo più di 30 anni siamo ancora qui a parlarne. Non si può chiedere a tutti di fare musica innovativa e originale, perché sarebbe impossibile, ma comunque questo rimane un punto debole del disco di Miles Kane.

"Don't Forget Who You Are" è un disco facile, che ti entra subito in testa. Purtroppo però è anche uno di quei dischi che ne esce in fretta, che si esaurisce dopo pochi ascolti.

E' un secondo disco anomalo, di solito sono più ostici del primo, più ricercati, invece Miles Kane furbamente punta tutto sull'immediatezza, sul ritornello bomba, sul riff rock n' roll. Per assurdo invece di consolidare il suo stile, rispetto al suo debutto, si è un po' annacquato e omologato a dei cliché consolidati. Molte volte tocca il limite al limite fra la citazione consapevole e volontaria e lo scopiazzamento, come in si nota in maniera inequivocabile su Tonight/You Really Got me Now.



18 ottobre 2013



Il ritorno in Italia dei Baroness ha un sapore particolare.
Dopo essere stati eletti al ruolo di alfieri del metal con "Yellow & Green", lo spaventoso incidente accaduto al loro tour bus il 15 agosto 2012, è stata una bruttissima battuta d'arresto per la loro cavalcata trionfale verso la consacrazione. Ora con questo tour, dopo un sofferto cambio di line up (basso e batteria) stanno cercando di tornare a occupare il posto che gli spetta nel panorama metal mondiale.





Arrivato al Tunnel sento già le note dei Royal Thunder che fanno vibrare l'aria fuori dall'ingresso. Superato il tendono fonoassorbente ci vogliono 30 secondi per rimanere totalmente rapito dalla loro musica. Assistere a  un concerto di una nuova band metal (che poi proprio metal non è) con quelle qualità è come assistere alla nascita di un panda allo stato brado. La cosa è ancora più interessante perché alla voce c'è una ragazza, e la sua voce è una delle cose più incredibili che abbia mai sentito, soprattutto per quel che riguarda il genere.




Dopo aver conquistato il pop e l'rnb, oggi anche il metal e tutta l'area più buia della musica sta diventando terreno di caccia per le donne. E' finito il tempo (grazie a Satana) delle cantanti liriche prestate al metal, ora sembra ci sia una maggior consapevolezza, maggiore ricerca di un proprio modo di cantare, e maggiore libertà di espressione forse, rispetto al passato. Chelsea Wolfe, Harriet Bevan dei Black Moth, Melanie Parsonz dei Royal Thunder, solo per citare le ultime passate in Italia, rappresentano a mio parere un qualcosa di completamente nuovo sia nel panorama musicale femminile che in quello metal e potrebbero essere la punta dell'iceberg di una colonizzazione al femminile di un genere (e dei suoi miliardi di sottogeneri) che per tradizione è sempre stato regno maschile.

La voce di Melanie Parsonz dal vivo è qualcosa che fa innamorare, espressiva, profonda, carica di emozione, urlata, stracciata, sussurrata, vibrata, alti, bassi... ha un range di suoni da far impallidire un POD della line6. Oltretutto è anche un'ottima bassista, ed è sostenuta da un batterista e un chitarrista praticamente perfetti in ogni cosa (oggi sono un trio dopo vari cambi di formazione). Quando si assiste a sorpresa a un live di quella qualità, il genere passa totalmente in secondo piano e ti viene da urlare "Metaaaaal!", ma siamo in quella zona heavy di confine di derivazione stoner, doom, hard rock, e psichedelia. Che sì, si può associare al metal, ma proprio metal non è.



I Baroness partono col botto, subito dopo "Ogechee Hymnal" per prendere le misure del locale è subito "Take My Bones Away" per far capire che non c'è spazio per le introduzioni, subito pugni in faccia e poche storie. Il tempo di far passare l'euforia iniziale e subito ci si accorge che i suoni non sono proprio fantastici. Ma intanto si canta col dito alzato "Take myyy booones away!" e si cerca di non farci caso, siamo all'inizio pezzo dovranno ancora sistemare...nel frattempo arriva un altro pugno con "March Into the Sea" e poi ancora "A Horse Called Golgotha", un trittico che è puro fuoco sparato fuori dalle casse.



A vederli sul palco sembra di vedere due mondi paralleli, sulla sinistra sembra di essere negli anni '80, con Peter Adams, dotato di una splendida, sorridente e innata tamarraggine, sbatte la chioma come una frusta, si spara delle pose assurde (senza crederci troppo) e vince il premio come eroe assoluto della serata. Una presenza sul palco come la sua è ormai qualcosa di molto raro da trovare.

Di fianco a lui John Baizley fa la parte del perfetto pelato/barbuto del metal moderno.
Anche guardandosi intorno in mezzo al pubblico sembra che i Baroness siano riusciti a unire il metal dei pelati con il metal dei capelloni; due mondi che fino ad ora, nonostante gli sforzi dei Mastodon, nessuno era ancora riuscito effettivamente a unire.

Invece al Tunnel si vedono nerd,  nerd-metaller sovrappeso con capelli lunghi e occhialoni da vista, nuovi metallari ultra-tatuati, pelati-barbuti, pluri-barbuti, appassionati di post-hardcore e sludge, e cosa incredibile, c'è anche un po' di vecchia guardia. In ogni caso, la differenza fra chi va a un concerto per ascoltare, vedere e partecipare e chi va a un concerto per presenziare all'evento si vede subito: a differenza del concerto degli Editors all'Alcatraz, al Tunnel non si vede neanche un telefono sollevato sopra le teste.



A sorpresa, dopo una manciata di pezzi calano la carta che non ti aspetti, una inaspettata "Foolsong", rilassa le orecchie e mostra il lato più morbido della band che assolutamente non sfigura con quello più rude. Scelta molto coraggiosa, perché è anche un pezzo da "Green", il lato più controverso del loro ultimo disco. Mettere un pezzo in scaletta dopo neanche mezz'ora è uno "statement", per dirlo all'americana. Come se ci volessero dire "Non vogliamo farci mettere nell'angolo da chi ci vuole chiudere in un genere a tutti i costi, noi siamo anche questo e non lo nascondiamo".

Lo splendido "Green Theme" fa da spartiacque sulla metà del concerto, e inaspettatamente è un pezzo che ha una resa live incredibile, un pezzo veramente emozionante che esalta le capacità compositive della band ed è stato accolto molto bene dal pubblico.
Dopo il Green Theme si torna (quasi) alle origini con "Swallawed and Halo" dal "Blue Record". Nella prima parte del concerto non viene concesso molto ai due album precedenti della band, altra scelta coraggiosa che dimostra quanto ci tengano al loro ultimo disco che ormai è già fuori da un po'.




La conclusione della prima parte è affidata a "Eula" e "The Gnashing".

Fortunatamente per questi ultimi due pezzi prima dell'encore ci è concesso di avere dei suoni decenti.
Fino a quel momento il concerto è stato per metà una suite per basso e orchestra per la seconda metà  una serie di tentativi per cercare di rimediare. A metà concerto esasperati dal volume del basso che ci stava mischiando gli organi interni, abbiamo provato anche a spostarci da metà sala verso il fondo, ma la situazione comunque non è migliorata.

La differenza su questi ultimi due pezzi si sente immediatamente, le chitarre graffiano, la batteria non è solo un sottofondo e si sentono le botte sul rullante, la voce rimane sopra agli strumenti senza coprirli. FINALMENTE.
Non credo che sia un problema di acustica del locale, perché ho visto altri concerti al Tunnel e i suoni sono stati sempre perfetti. Ma anche se ci fosse un problema di acustica, vuol dire che gli altri fonici hanno saputo superarlo e invece quello dei Baroness no.
E' veramente un peccato perché la band ha suonato da paura per tutto il concerto (soprattutto il bassista, visto che potevamo sentirlo molto bene).



Su Eula il pubblico è pienamente coinvolto, perché l'impatto rispetto a prima si sente molto di più, e si può apprezzare a pieno la botta che hanno i Baroness anche su un pezzo che non è uno dei più pesanti. In più l'assolo di Peter Adams è da far lacrimare sangue alle madonne di tutto il mondo. Infine "The Gnashing" è la scossa che ci vuole per creare attesa prima dell'encore.

Encore che è un bulldozzer lanciato verso il pubblico, i suoni sono granitici e l'impianto del Tunnel li spara fuori a tutta, "The Sweetest Course", "Jake Leg" e "Isak", un due tre e tutti a casa col sorriso stampato in faccia.
Complici anche le strutture più ritmiche dei pezzi e i riff monolitici dei primi due dischi, questi ultimi tre pezzi sono una vera e propria pettinata.
Ma lo sarebbero stati anche tutti gli altri, se i suoni fossero stati adeguati.

I Baroness dal vivo danno prova di essere una band solida nonostante le avversità appena superate, hanno la forza e le spalle larghe per poter rappresentare il futuro del Metal.
Le prossime mosse della band saranno fondamentali e stabiliranno se potranno sconfinare i limiti del mondo a cui appartengono, diventando una band conosciuta e apprezzata anche al di fuori di questo, oppure se rimarranno "solo" un punto di riferimento per il genere.
Genere (si parla sempre di post-hc-sludge-stoner-metal) che avrebbe veramente bisogno di una boccata d'aria e di una band che lo faccia conoscere al di fuori dalla sua nicchia, conquistando anche vecchi metallari e giovani nostalgici (categoria che fatico a comprendere).












14 ottobre 2013

Chi, come me, non si è perso neanche un passaggio degli Editors a Milano, sapeva perfettamente cosa aspettarsi da un loro concerto. Non hanno mai deluso, e giovedì all'Alcatraz hanno dato un'ulteriore conferma del loro valore.

Le premesse per il concerto non sono il massimo, su Milano c'è aria di tempesta e tentare di avvicinarsi all'Alcatraz è impresa non da poco, con l'acqua che arriva a secchiate orizzontali e il vento che sembra voler portare via tutto. Per fortuna il concerto è già soldout, altrimenti con quelle condizioni atmosferiche sarebbe stato molto difficile riempirlo.



La prima cosa che si impara quando si è visto gli Editors molte volte è che bisogna andare presto. Perché i ragazzi (o chi per loro) non tralasciano mai la qualità dei gruppi spalla.
Qualche anno fa nel defunto Palavobis/Mazdapalas/Palatucker/Palasharp... a proposito, visto che ormai sembra caduto definitivamente nelll'oblio, il tanto sbandierato nuovo palazzetto polifunzionale, che doveva prendere il suo posto in previsione dell'EXPO 2015 che fine ha fatto?
... Dicevamo, qualche anno fa al Palasharp prima degli Editors c'era un gruppo che qualche hanno dopo ha firmato il disco dell'anno per l'NME e per il Dolditoriale, il nome "The Maccabees" vi dice nulla?

Quest'anno invece l'onore di aprire le danze ai loro concerti è stato concesso ai belgi Balthazar, in forze alla PIAS (la stessa casa discografica degli Editors). Visti i precedenti, l'aspettativa anche nei loro confronti era alta e non hanno deluso, anzi sono stati ben al di sopra delle aspettative.

Quello che propongono è un indie-pop/rock con spiccate venature folk. Atmosfere invernali, con una voce strascicata e impianti sonori minimalisti, con uno splendido basso stoppato come spina dorsale dei loro pezzi. una lor caratteristica peculiare sono suggestive parti a quattro voci all'unisono, con le quali chiuderanno anche  il loro live in modo a dir poco efficace.
Già dalle prime note si capisce che i ragazzi valgono. Convincono subito, catturano l'attenzione del pubblico. Lo conquistano e lo coinvolgono fin dalle prime battute, arrivando verso la fine a provocarne un hand-clapping spontaneo, al quale credo di non aver mai assistito per un gruppo spalla semisconosciuto.
Segnateveli, perché ne sentirete parlare molto in futuro.




Arriviamo al motivo per cui l'Alcatraz è soldout.
Come da tradizione il primo pezzo del concerto è il pezzo di apertura del nuovo disco... Invece no. Perché "The Weight" è solo un accenno strumentale che fa da contorno all'ingresso della band. Il primo pezzo del concerto in realtà è il secondo dell'ultimo disco: "Sugar".

L'interruttore però lo accende "Smokers Outside.." dopo "Someone Says", il locale esplode letteralmente sulle prime note, e subito dopo "Bones" suona la carica.
Il concerto sembra decollare e invece "Eat Raw Meat = Blood Droll" è un po' come un tirare il freno.
Nonostante tutte le critiche ricevute, io considero "In This Light and On This Evening" un grandissimo disco, ma non ho mai capito e apprezzato "Eat Raw Meat...". Non ho mai capito perché l'abbiano scelta come singolo, e non ho capito perché lo abbiano riproposto dal vivo, soprattutto in quella posizione fondamentale della scaletta.

Dopo la frenata, tocca a "Two Hearted Spiders" il compito di far ripartire il concerto, ma nonostante sia un pezzo splendido, purtroppo fa fatica a trascinare il pubblico. L'acceleratore sul concerto incredibilmente lo schiaccerà "Formaldeyde", accolta come un grande classico durante il quale il pubblico sostiene la band per tutta la durata del pezzo. Anche Tom Smith è visibilmente stupito della reazione.



Da lì in poi sarà tutta in discesa, "A Ton of Love" scatena il delirio, ma così come all'inizio subito dopo piazzano "Like Treasure" che raffredda leggermente gli animi, ma è veramente un piacere ascoltarla. Uno dei pezzi "minori" di "In this light..." ma che dal vivo rinasce e acquista un'intensità unica.

Sembra quasi vogliano tenere alta l'attenzione del pubblico, che non vogliano fargli perdere il controllo, mantenendo sempre dei momenti in cui si ascolta veramente la loro musica, senza distrarsi cantando, saltando o facendo foto e video (argomento sul quale tornerò alla fine).

Arriva il momento più bello della prima prima parte del concerto, dopo una possente "In This Light and on this Evening", che secondo me rimane IL pezzo di apertura per un concerto, è il momento di "Phone Book". Suonata chitarra acustica e voce con il solo Justin Lockey, il nuovo entrato chitarrista, a fargli da supporto.
E' incredibile come uno dei pezzi che su disco convince meno, dal vivo diventi forse il momento più intenso di tutto il concerto. Sul ritornello Tom addirittura riesce a zittire tutto il pubblico (cosa che ho visto fare solo ai Sigur Ros), solo con l'intensità della sua voce, regalandoci un momento veramente emozionante.
Accortosi di quello che è riuscito a fare, sull'applauso spontaneo che è scaturito subito dopo, anche lui è visibilmente emozionato e deve smettere di cantare per un attimo prima di riprendere.



Tocca a "Honestly" chiudere la prima parte del concerto. Al rientro gli Editors lasciano le redini con una tripletta incredibile che fa letteralmente scoperchiare l'Alcatraz, la tempesta fuori è niente al confronto: "Bricks and Mortar" è da lacrime; "Nothing" in una versione appositamente studiata per il live, è una delle cose più trascinanti che abbiano mai suonato; infine "Papillon" suonata come se non ci fosse un domani trasforma l'Alcatraz in una dancehall.

La lente di ingrandimento in questo live era puntata sul nuovo chitarrista, che secondo me è un tesoro per questo nuovo corso della band. Poche cose, al momento giusto, suoni meno invasivi ma più curati, lascia il giusto spazio alla voce che infatti viene valorizzata e trova più libertà di espressione. Coadiuvato da Elliot Williams ai sinth e alla seconda/terza chitarra formano un tessuto sonoro di grande eleganza sopra ai due membri storici che sono l'indiscussa spina dorsale del suono degli Editors. In Particolar modo il bassista Russel Leetch è la colonna portante della band, che rispetto al passato si concede anche molto più spazio sul palco, andando da una parte all'altra a tirare in mezzo il pubblico.

Chi pensava che "In This Light and On This Evening" fosse solo un passo falso della band si è sbagliato di grosso. Molti loro colleghi quando fanno un disco diverso dal solito, lanciano il sasso e nascondono la mano. Appena vedono che la reazione del pubblico non è quella che si aspettavano, cancellano il disco "sperimentale" da tutte le scalette dei concerti, facendo finta che non sia mai esistito. Gli Editors invece sono perfettamente convinti, consapevoli e fieri di quello che hanno fatto, e in scaletta hanno riservato molto più spazio a questo disco che ai due precedenti.



E' chiaro che non sono più quelli dei loro primi due dischi e non lo saranno mai più. Quei ritmi in levare ormai gli vanno stretti, la voce di Tom Smith è palesemente imbrigliata in linee vocali che ormai gli stanno come il vestito della comunione. Ascoltandoli dal vivo, se ci si estraniava un attimo dal delirio del pubblico e si ascoltava attentamente, si sentiva che non avevano la stessa resa e la stessa intensità di quelli degli ultimi due dischi (ed è anche per questo che non sono molto citati in questo report), tranne qualche eccezione che però era già una finestra sugli Editors di oggi (ad esempio "Munich" o "Smokers Outside...").

C'è un anche aspetto particolare della loro musica che salta all'occhio dopo averli sentiti dal vivo: o non hanno mai trovato un produttore che fosse capace di fargli imprimere su disco la stessa intensità che esprimono dal vivo, o sono loro che in studio proprio non riescono ad esprimersi come sul palco. Anche per di arrangiamenti, possibile che trovino idee sempre migliori per il live piuttosto che in studio? Per esempio, perché decidere di registrare "Nothing" con un discutibile arrangiamento d'archi, quando invece sia fatta semplicemente in acustico che con l'arrangiamento esplosivo dei live elettrici, è comunque oggettivamente migliore la resa del pezzo? Lo stesso discorso vale per "Phone Book" naturalmente, che su disco è molto più serrata e non lascia il giusto spazio alla voce come invece accade dal vivo.
In ogni caso questo, nonostante sia un punto debole, conferma la grandezza della band. Perché ormai sono veramente pochi quelli che hanno il coraggio di stravolgere i loro pezzi dal vivo. 




Quello degli Editors a Milano è stato un concerto forse non trascinante come può esserlo uno dei The National, ma con il giusto equilibrio di elementi e una qualità di esecuzione altissima che lo rende quasi perfetto. 

Perfetto se non fosse per tutti gli imbecilli che passano il concerto a fare video e foto con i telefoni... che poi adesso i telefoni te li ritrovi davanti quando va bene, perché quando va male sono ipad e tablet vari quelli sollevati sopra le teste. Ormai gli inizi dei concerti e i momenti più significativi si riescono solo a guardare attraverso il display del telefono di quello davanti che a sua volta riprende i display dei telefoni davanti, è una situazione demenziale. Passi fare una foto per ricordo o da mettere su Instagram o Facebook ma poi basta, è anche una questione di rispetto per chi sta dietro di te, è una situazione insostenibile.
















8 ottobre 2013

Gravity di Alfonso Cuaron è decisamente il film del momento. Arrivato nelle nostre sale con un hype già altissimo, dopo la presentazione al Festival di Venezia e dopo il successo negli States, è stato accolto anche qui con un successo incredibile per un film di fantascienza in Italia.
E' stato il film che ha incassato di più in questo week end appena passato.





Che poi "fantascienza"... parliamone.
"Gravity" è la fantascienza senza tutto quello che rende interessante la fantascienza. E' la fantascienza senza tutto il suo carico di aspetti psicologici, sociologici, visionari, allucinati, che sono la spina dorsale di quel genere. Non si può ridurre tutto a 4 effetti speciali e una storia da mulino bianco.
Quindi per quel che mi riguarda "Gravity" non sarebbe neanche da inserire nel genere.

Per citare il commento lapidario della mia metà all'uscita del cinema: "E' il solito film della Bullock".
Prendete "Speed" e mettetelo nello spazio. Avrete Gravity.
La  donna "qualsiasi" catapultata in una situazione assurda, che riesce a superare tutte le difficoltà in maniera altrettanto assurda.

Ecco, la Bullock... parliamone.
Non c'era proprio un'altra attrice disponibile per questo film?
Molti hanno parlato di una prestazione sopra la media (la sua, spero), io ho visto solo una maschera di botox e ritocchi vari, sopra ad un volto già di per sé molto poco espressivo. Se una roba tipo questa per 90 minuti è una prova sopra la media, o una prova di una brava attrice (come ho letto da qualche parte) non so quale abominio possa essere un'attrice scarsa.

Le produzioni dovrebbero vietare per contratto i ritocchi facciali e le punturine. Un attore o un'attrice che non riesce a muovere la faccia, non è un attore.
Per tutta la durata della pellicola non riesce in alcun modo a trasmettere la tensione che pervade invece tutto quello che la circonda, e diciamolo, doveva fare solo quello.
Oltretutto l'unico dei due che poteva dare un po' di spina dorsale al film viene relegato al ruolo di giullare volteggiante. Clooney è veramente fastidioso e il suo personaggio risulta forzatamente "stupido", il suo ruolo non è altro che quello di rendere subito "leggero" il film per il grande pubblico. 




Arriviamo ai personaggi... parliamone.
Su questo aspetto sono d'accordo col "collega" Manq che però ha un giudizio diametralmente opposto al mio riguardo al film.
Due soli attori per tutto il film, anzi per metà film perché per la restante metà rimarrà la Bollock da sola a sostenere tutto l'impianto. Due personaggi costruiti male e sviluppati peggio. Le prerogative di Ryan erano molto valide. Una dottoressa mandata nello spazio con un passato difficile a causa di un lutto che deve ancora superare erano un ottimo punto di partenza per il suo sviluppo.

Ma tutto l'aspetto psicologico del personaggio, viene solo accennato, annacquato e volutamente reso "holliwodiano": ti faccio intravedere un aspetto brutto brutto della vita, ma senza calcare troppo la mano se no mi diventa pesantino, e non sia mai, ma soprattutto ti piazzo un super lieto fine obbligatorio, pena l'esclusione a vita dagli studi di L.A.

Come ho già detto prima, a Clooney viene riservato il ruolo del pupazzo comico Disney/Dreamworks, quelli che vengono infilati in ogni cartone per vendere gadjet, far ridere i bambini e rendere il cartone il più leggero e spensierato possibile.

Avete presente "Scrat" nell'Era Glaciale, o i Minion di Cattivissimo Me, o i Pinguini di Madagascar... ecco Clooney fa il "Pinguino" di "Gravity".

Dal punto di vista visivo sì, è spettacolare, ma quale regista (degno di questo ruolo) non riuscirebbe a fare qualcosa di spettacolare con a disposizione un budget del genere, con un'ambientazione così, e con degli effetti speciali curati da Framestore (Avatar vi dice nulla?)?

A proposito di Avatar, pare che la lezione di Cameron non sia stata assimilata se non da pochissimi.
Un film in 3d per funzionare al meglio, deve essere concepito, pensato e strutturato usando come base quella tecnica. Cuaron ci ha provato ad assimilare quella lezione con risultati buoni, ma secondo me con quel materiale a disposizione poteva essere fatto anche qualcosa in più, non mi esprimo nello specifico perché il giudizio su questo aspetto viene condizionato troppo dalla qualità della sala in cui si guarda il film. Personalmente l'ho visto all'Arcobaleno di Milano, non il top del top della tecnologia, ma neanche l'ultimo degli stronzi (cit.).

Del film alla fine resta una grande e indubbia spettacolarità visiva, e la grande tensione della prima parte, ma a mio avviso è una grande occasione sprecata.
Con una storia un po' più sostanziosa (ma neanche troppo), degli attori degni di questa definizione e una cura dei personaggi almeno decente, sarebbe stato un capolavoro assoluto.

Non mi soffermo sulle incongruenze scientifico/fisiche del film perché non ha senso, la fantascienza è costruita su l fantastico (guarda caso) e sulla libera interpretazione delle leggi della fisica, non ha senso criticarne un film per quegli aspetti.

Non nego che la scena della distruzione della ISS è qualcosa di incredibile, quasi viene da schivare i pezzi dei satelliti, così come altri momenti in cui la resa spaziale dell'inquadratura è veramente notevole e coinvolgente.



Ma non si può gridare al capolavoro solo per l'uso spinto del piano sequenza e per la soggettiva dal casco dell'astronauta. Un film con questo livello di partenza deve essere molto di più, a maggior ragione se si tratta di fantascienza, dove l'utilizzo degli effetti speciali tende distogliere l'attenzione da tutti gli altri aspetti fondamentali che fanno parte della creazione di un grande film.

Gravity lascia il rimpianto di quello che potrebbe essere stato se dietro la macchina da presa ci fosse stato Duncan Jones (guardate in "Moon" cos'è riuscito a fare con un unico attore, un attore vero, e con un budget che è un unghia di quello a disposizione di Cuaron) o Neil Blomkamp, giusto per fare i nomi di due registi "nuovi".

Se quello che volete è un'esperienza visiva d'impatto piena di effetti  speciali, andate a colpo sicuro a vedere questo film, ma con Cuaron, Gravity diventa una fantascienza edulcorata dai suoi aspetti meno appariscenti ma più interessanti, lasciandoci solo con uno slavato e banale "sci-fi for dummies".