5 novembre 2012

In questi giorni Milano e in particolar modo l’Alcatraz ha ospitato due fra i più grandi nomi del nuovo folk americano.

E’ curioso come in pochi giorni lo stesso posto abbia ospitato due realtà accomunate da una base storico-musicale molto simile, ma dagli sviluppi diametralmente opposti.

Bon Iver è un progetto molto particolare. Spacciato come gruppo, forse per incontrare i gusti del popolo indie poco abituato ad appassionarsi ai solisti, in realtà è tutta farina di Justin Vernon. Un uomo con una voce baritonale stupenda, che si è suicidato inventandosi dei falsetti soppalcati. Falsetti che però gli hanno procurato un successo inaspettato, attirando l’attenzione di moltissimi (anche insospettabili, come Kanye West) per le trame musicali molto particolari che riesce a creare con le sue voci sovrapposte.

Le voci sovrapposte sono anche una delle caratteristiche dei Band of Horses, ma nel loro caso si tratta di un rimando alla tradizione folk americana, dove le (almeno) due voci armonizzate sono d’obbligo. L’esercizio di stile ai ragazzi riesce alla grande, difatti la resa è ottima, perché l’incredibile voce di Ben Bridwell è supportata in maniera egregia da Ryan Monroe e quando serve anche dagli altri della band.

Forse Justin Vernon ha voluto prendere questa caratteristica, esasperarla e portarla a un nuovo livello, che lo ha proiettato nel futuro di questo genere, andando a mischiarsi anche con l’elettronica e usanze, come la “macchinetta per la voce”, alias vocoder, che sono diventate marchio di fabbrica di tutt’altro genere, Kanye West per l'appunto ne sa qualcosa.

Dicevamo il futuro, perché se Mr. Vernon ha il merito di aver portato il folk nel futuro, i BOH hanno avuto (qualche anno prima di Giustino) il merito di riportarlo nel presente, dando una nuova spinta a questo genere, soprattutto negli ambienti indie e underground.

Se il merito di Bon è di essere riuscito a mescolare il folk con l’rnb e il pop più commerciale e di essere riuscito a portarlo negli ambienti patinati e snob dove non sapevano neanche cos'era; quello di Ben (e soci) è quello di aver mescolato il genere con il rock e con dinamiche moderne senza renderlo sofisticato, hanno preso la filosofia “grandi spazi-zero scazzi” del folk l’hanno mescolata con un po’ di distorsioni e ritmi serrati e si sono ritrovati in mano un genere fresco e nuovo. Hanno inoltre il merito di aver preso un genere che ormai sapeva solo di bovari, concime e sale da ballo in mezzo al nulla piene di stivaloni e cappelli da cow boy, e di averlo reso appetibile nei piccoli club delle grandi città, nelle sale prova, nelle cantine, in quei luoghi umidi e bui dove fino a qualche tempo fa se non avevi una distorsione che scartavetrava i muri eri uno sfigato.

Queste due realtà appartenenti allo stesso genere, ospitate dallo stesso luogo a distanza di pochi giorni hanno offerto due concerti che dire diversi è dire poco. Chi ha offerto il migliore?

Dal punto di vista scenografico oggettivamente vince a mani basse Bon Iver, ma la semplicità del set dei BOH ha il suo perché e funziona alla perfezione.

Justin si è portato sul palco qualcosa come una decina di musicisti, due batterie, fiati, polistrumentisti, tutti o quasi i componenti della band impegnati come coristi per riprodurre le mille sovrapposizioni di voce che lo contraddistinguono.

Una scenografia studiata nei minimi dettagli, con brandelli di un simil-vecchio sipario a incorniciare il palco, lumini a luce variabile appoggiati a paletti che attraversavano il palco formando una sorta di onda luminosa, proiezioni che andavano a colorare e animare i brandelli di sipario.

La Banda dei Cavalli invece si propone con un set fottutamente rock ‘n roll, luci semplicissime, palco spoglio e poche menate. Unica concessione al lato visivo dello spettacolo un telo dietro il palco sul quale venivano proiettate foto e timelapse, alcune prese dai loro dischi e altre molto suggestive (fra cui il Duomo di Milano e la chiesa di San Fedele) che imprimevano sempre l’atmosfera adeguata al momento senza distogliere l’attenzione dalla musica.





Dal punto di vista musicale, anche qui oggettivamente vince Bon Iver, ma la carica dei 5 di Seattle supera ogni aspettativa e ogni tecnicismo.

Al concerto di Bon Iver ho visto per la prima volta nella mia vita ( dopo aver assistito a numerosi tentativi inutili e finalizzati unicamente a fare scena) due batterie usate con criterio, arrangiate alla perfezione per arricchirsi a vicenda in ogni passaggio. In più il tocco dei fiati, soprattutto del sax basso che riempiva il suono in un modo sublime, e di tutti gli strumenti perfettamente arrangiati ha reso il concerto un vero spettacolo sonoro, che mira a riprodurre fedelmente quello che è stato fatto in studio.

Dall’altra parte però c’è una band che suona di brutto, che si diverte, che ha un pathos e una carica incredibili, che pensa a divertirsi, sciolta, distesa, che si concede anche qualche fuoriprogramma, che vive il palco con naturalezza, senza pose, senza “costumi”, solo loro e la loro musica. In più Ben appartiene a una categoria pericolosamente e tristemente in via d’estinzione, ovvero quella dei cantanti che fumano sul palco, che non c’entra nulla con la musica, ma da l’idea della naturalezza e della tranquillità con cui vive il concerto questa band.

Oltretutto i pezzi sono arricchiti, sono più pieni, acquistano una dimensione diversa dal disco, prendono vita, corpo e anima, diventano enormi e riempiono ogni spazio (purtroppo la pioggia non li ha aiutati a riempirlo) dell’Alcatraz e (concedetemi il sentimentalismo) ogni cuore presente in sala.

Per quanto riguarda la setlist e lo sviluppo del concerto, in questo caso vincono i BOH.

Bon Iver ha lo svantaggio di avere solo due dischi all’attivo, ma onestamente (nonostante sia stato un gran concerto) verso la metà qualche sbadiglio di troppo me l’ha strappato. Poi comunque si è ripreso alla grande sul finale, ma non ha cancellato il ricordo di quel calo, come invece mi accade di solito se il finale è in crescendo.

I BOH sono stati un flusso di emozioni continuo, non hanno mai perso un colpo, nonostante la ventina di pezzi in scaletta, non hanno mai avuto un calo, un pezzo che non rendeva al meglio, un errore, niente di niente. Sempre alla grande, un grande concerto suonato a bomba per tutta la sua durata.

In conclusione il concerto di Bon Iver è stato un grandissimo concerto, spettacolare, un vero piacere per le orecchie e un grande insegnamento per quel che mi riguarda dal punto di vista della produzione e arrangiamento dei pezzi. Lui è un artista gigantesco, con delle idee che sono fra le più originali e belle degli ultimi anni. Però non è riuscito a regalare quelle grandi emozioni che i suoi pezzi sono sicuramente in grado di dare. Finito il concerto non mi ha lasciato l’onda lunga che ti fa venir voglia di parlarne di sentirne ancora, di dire “non vedo l’ora che torni”.

Quello dei Band of Horses, è stato cuore e sincerità allo stato liquido, vedendoli e sentendoli sul palco arrivi a volergli bene per come si danno, per le risate e i sorrisi che si cambiano, per l’assenza assoluta di atteggiamenti artefatti, per come si divertono e per come riescono a trasmettere questo loro piacere di suonare insieme al pubblico. L’onda lunga del loro concerto rimane e anche bella grossa. Nonostante sia la seconda volta che li vedo, tornerò sicuramente anche la prossima volta; perché quello che ti danno è merce sempre più rara  e bisogna fare scorta ogni volta che ce n’è possibilità.

Il loro concerto è tutto racchiuso nelle parole dette da Ben Bridwell prima di iniziare a suonare “We are Band of Horses and this is Music”. Niente di più semplice, niente di più sincero, niente di più bello.

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