Ieri sera è passato a Milano il nuovo, per modo di dire, talento del country americano.
“Country”… non so a chi sia venuto in mente di incastrare questo ragazzo in una definizione così limitante.
Come giustamente diceva un articolo di Rolling Stone è una definizione che in America fa vendere anche i sassi, ma all’estero ha l’effetto contrario, relegando l’oggetto in questione alla curiosità dei pochi cultori del genere.
Perché sentire la parola country, ancor peggio di “folk”, fa venire subito in mente cappelloni, stivaloni, banjo e slide guitar, come dicevo nel precedente articolo sui Band of Horses/ Bon Iver. Soprattutto se il personaggio in questione arriva anche dal Texas.
Ieri sera di country puro se ne è sentito veramente poco.
Sì è sentito blues, forse qualcosa di garage, e un po’ di folk. Tant’è che nell’ultimo disco, “Tomorrowland” in alcuni pezzi si sentono sonorità più simili ad Afghan Whigs e Screaming Trees che a Sonny James o a Johnny Cash.
Ryan sale sul palco insieme alla sua band, e che band, senza troppe menate, arrivano tutti insieme, salutano e attaccano a suonare.
Tutta la serata sarà caratterizzata da un atteggiamento molto pacato, semplice e professionale. Poche parole, qualche grazie, qualche annuncio del pezzo successivo, e alcuni incitamenti al pubblico molto pacati nei modi ma efficaci nel risultato. Se dovessi scegliere una parola per descrivere questo concerto sceglierei “professionalità”.
Il cantautore è relativamente giovane (classe ’81) ma ha già molta esperienza alle spalle e si vede in ogni suo gesto, in ogni sua nota. Si vede nella scelta della band (nuova). 3 musicisti incredibili, con uno stile pulito e personale. Non i soliti turnisti, ma persone che provano ad arricchire i pezzi con la loro personalità.
Bassista (donna) dal tocco delicato ma sempre incisivo e carico di ritmo; batterista molto dritto, senza orpelli, gran botta quando serve e grande atmosfera quando invece i pezzi sono più tranquilli. Il vero valore aggiunto della band però era il chitarrista, sempre con l’effetto e il suono perfetto in ogni occasione, anche cose che per il genere (country?!) sono marziane, come l’octaver per esempio. Sempre pronto ad impreziosire ogni passaggio senza mai strafare.
L’esperienza e la professionalità si vede nell’andamento del concerto e nella scaletta. All’inizio un po’ di blues, con alcune dilatazioni, poi i pezzi un po’ più rock e diretti, poi una brevissima pausa per tornare da solo con la chitarra acustica e poi la parte finale con il vero apice di rock n’ roll attitude della serata.
Con questo andamento sono riusciti ad accompagnare il pubblico esattamente dove volevano e sono riusciti a a far crescere il calore e la passione dopo ogni pezzo. Arrivano all’apice dell’entusiasmo poco prima del rietro di Ryan da solo con la chitarra acustica. A quel punto, il pubblico, non avendo più pezzi movimentati dove sfogarsi, ed emozionato per la fantastica esecuzione dei pezzi voce e chitarra è andato in delirio con applausi a scena aperta, urla e fischi prolungati anche per molto, che costringevano Ryan ad attendere più del previsto per iniziare il pezzo successivo.
Questo non è un caso, ma vuol dire avere il polso della situazione e la consapevolezza di quello che dai al tuo pubblico e di come questo può rispondere. Vuol dire essere capace di portarlo esattamente lì dove e quando vuoi.
Quell’entusiasmo strabordante è stato poi la benzina sul fuoco dell’ultima parte del concerto che si è chiuso con una versione scartavetrata di Bread and Water.
A mio avviso gli episodi più riusciti, come accade spesso per i solisti e i cantautori, sono quelli dove la voce sabbiosa di Bingham ha più spazio per esprimersi, ovvero quelli più rock o d’atmosfera. Non è un caso che il pubblico abbia apprezzato particolarmente i pezzi eseguiti da solo, fra cui una splendida The Weary Kind, e un’ancora più splendida Hallelujah.
Anche alcuni pezzi del nuovo disco sono stati veramente notevoli, come una commovente Flower Bomb, e una fantastica Never Far Behind con dei suoni veramente grandiosi, grazie al grande gusto del chitarrista.
L’unico gradino su cui è un po’ inciampato è il primo singolo estratto da Tomorrowland: “Guess who’s knocking”. Onestamente non ha reso come mi sarei aspettato, un pezzo quasi garage rock che però sul palco è rimasto molto sommesso, peccato. Ma è veramente l’unico neo in mezzo a un grandissimo concerto.
Un’ultima considerazione vorrei farla sul luogo che ha ospitato il concerto, un luogo di riferimento per la musica dal vivo a Milano che offre sempre concerti di qualità:
La Salumeria della Musica di Milano.
Forse però si chiama “salumeria” perché ogni volta che entri devi lasciarci una fetta di culo:
25 euro di biglietto (che sarà anche bravo, ma rispetto per esempio ai 32 di Black Keys+Maccabees mi sembra un po’ eccessivo) , 10 euro i cocktail, 6 le birre e 5 le bibite.
A mio avviso sarebbe più giusto cambiargli il nome in “Oreficeria della Musica”.
Nick Duplo è più bravo.
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