23 settembre 2014




Il post-rock per molti è un genere stantio fermo a trent'anni fa, che non si è mai evoluto o peggio ancora è nato già morto. Per alcuni aspetti chi la pensa in questo modo non ha tutti i torti, ma dall'altra parte non ha neanche mai capito la vera natura di questo genere, che è un magma in continuo movimento che varia per piccole sfumature e si espande con costanza.
Se il genere e i gruppi che ne fanno parte hanno una colpa è forse quella di non aver mai osato veramente, come se la scusa di avere pezzi da 7 minuti strumentali fosse già una dimostrazione di coraggio e audacia sufficiente a permetterti di non entrare mai nel campo della sperimentazione vera, come spesso accade invece nel black-metal, per esempio.
Il risultato è un'occasione mancata. Un genere che avrebbe potuto avere mille evoluzioni coraggiose, innovative, per le quali lo stesso genere si sarebbe sacrificato, scomparendo così come è stato per molti altri legati alla loro epoca. Rimane invece un'unica, bellissima e commovente, linea melodica lunga trent'anni, all'interno della quale però, ci sono mille variazioni e mille sfumature che oggi sono la forza di questa musica e il motivo per cui dopo così tanto tempo è ancora fra noi, viva e in costante crescita.

È uscito da pochi giorni il nuovo disco dei This Will Destroy e anche se ad un primo ascolto distratto, può sembrare che non porti nulla di nuovo, in realtà nasconde una profonda evoluzione della band e del genere a cui appartiene. Le esplosioni, i crescendo, gli arpeggi sospesi che da sempre sono le loro caratteristiche peculiari, sono annegati in un magma pulsante dove gli strumenti perdono i confini, si fondono gli uni con gli altri. Anche se inevitabilmente in alcuni momenti emerge questo o quello strumento (la chitarra naturalmente più spesso degli altri), è tutto avvolto in una nebbia sonora. Sullo sfondo c'è sempre un tappeto di feedback, sinth, chitarre distorte a tal punto da perdere la loro natura, la batteria non è mai naturale, ma è sempre impastata con reverberi, delay. L'armonia di fondo non è mai perfetta, è sempre leggermente disturbata, con microvariazioni di nota che sporcano l'insieme, rendendo il tutto un po' imperfetto e quindi molto naturale, nel senso letterale del termine.

La cosa curiosa è che spingendomi in là con gli ascolti, nella mia testa ho iniziato a canticchiare: tiúúúúÚÚÚÚÚúúúú. Una cosa naturale e inevitabile, non me ne rendevo neanche conto quasi, ma ogni tanto su uno qualsiasi dei pezzi del disco mi veniva in mente.
Quel verso, per chi non lo sapesse è presente nel secondo disco dei Sigur Rós, Ágætis Byrjun, più precisamente in Svefn-g-Englar.
Non che ci sia una pezzo nel disco dei TWDY che assomigli a quello. Non c'è nulla, melodicamente parlando, che assomiglia a un pezzo dei Sigur Rós, ma è più un'atmosfera, l'utilizzo delle strutture dilatate, quella mancanza di esplosioni nette e potenti. Ma soprattutto l'uso di quella nebbia sonora nella quale il gruppo islandese ha nuotato per quasi tutta la sua carriera e che ha plasmato a colpi di archetto al servizio della loro musica.
E' curioso come, nel momento in cui i Sigur Rós hanno lasciato libero il campo, virando con forza verso altre strade con Kveikur, sia arrivato un disco di un'altra band (una dei capisaldi del genere) che ha in qualche modo ripreso il discorso lì dove loro l'avevano lasciato, applicandolo ad altri schemi.
E' curioso anche che le copertine siano vagamente simili, e il titolo del disco dei TWDY, Another Language,  si possa interpretare come una svolta, un modo diverso di esprimersi.
Che facciano riferimento proprio all'islandese?!? Lascio questo spunto per la prossima puntata di Adam Kadmon.

Forse negli anni non ci è resi conto dell'influenza che avrebbero potuto avere sulla musica futura. Nonostante fossero di fatto una band post-rock, dai fan del genere non sono mai stati considerati più di tanto. Sono sempre stati relegati e isolati in un mondo un po' esotico e pittoresco, un po' come la maschera africana di legno made in Bergamo, che appendi alla parete per dare quel tocco etnico alla casa ma che poi non noti più.
Loro hanno avuto la grande capacità di uscire prepotentemente da quell'isolamento, andandosi a conquistare i più grandi festival e i palazzetti di tutto il mondo, e diventando più famosi di ogni altra band post-rock della storia.

Ora dopo quindici anni, l'onda lunga della loro musica inizia ad attecchire al di là di quell'area esotica di cui parlavo prima (tutto lo pseudo-folk nordico uscito negli ultimi anni), e viene naturale chiedersi marzullianamente: "Sono loro che erano troppo avanti, o è la musica di oggi che sta andando indietro?".
Sta di fatto che ce li ritroviamo in un disco che con loro in teoria non dovrebbe avere nulla a che fare, e che accenna timidamente una nuova via per il genere e per una band che, continuando in questa direzione, potrebbe intraprendere quella sperimentazione vera che pochissimi hanno avuto il coraggio di seguire.
I TWDY hanno forse iniziato a tracciare una nuova via per il loro futuro, che altri certamente seguiranno, ma è un futuro che dall'Islanda avevano già previsto e battuto in lungo e in largo. Quando i Sigur Rós hanno tracciato la via, molti stavano guardando dal lato opposto, solo ora ci si accorge che quella via è percorribile e ancora fertile, se ci regala dischi belli come Another Language.


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